Raffaele Mantegazza: una scuola da sopprimere

Il dato sul quale non mi sembra si stia riflettendo abbastanza, in questi mesi, nel dibattito sulla scuola e i suoi destini è la straordinaria liason tra ministro della Pubblica istruzione e ministro delle Finanze: un dato davvero unico nellastoria di questo Paese e della sua scuola. Anche il più reazionario e il più retrivo fra i ministri democristiani della Pubblica istruzione infatti inscenava un conflitto con i titolari dei dicasteri economici: “vorrei tanto ma non posso…”; “le vostre esigenze sono reali ma non ci sono i soldi”;“mi hanno tagliato il budget per il mio  progetto di riforma” erano i ritornelli che provenivano da viale Trastevere; in sostanza, si affermava, la scuola ha certamente bisogno di   soldi e di risorse ma la congiuntura attuale non lo permette. Si trattava ovviamente di un discorso ideologico che copriva reali intenzioni tutt’altro che generose nei confronti della scuola; ma per dirla con Horkheimer e Adorno: “L’ideologia in senso proprio si ha dove vigono rapporti di potere non trasparenti a se stessi, mediati, e, sotto questo aspetto, anche addolciti”. La brutalità del berlusconismo  e dei suoi apparati, il suo “dire  la verità” in modo franco e senza infingimenti, brusco e immediato  (parente stretto del bossismo e non privo di perturbanti paralleli con il mussolinismo) porta anche nella scuola a una chiarezza difficilmente dubitabile: la manovra della Gelmini vede la scuola come realtà da eliminare, almeno per quello che essa è stata –o avrebbe  potuto essere- finora, ovvero una possibile fucina di pensiero critico, di argomentazione, di cultura (questo è il mandato che la Costituzione le affida).  Il ragionamento è quello del medico nazista di fronte a Primo Levi : ”questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che  è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare occorre accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile” Tremonti e Gelmini iniziano dalla scuola l’assalto a quelle “istanze di mediazione” fra Stato e individuo, fra soggetto e istituzione, di cui la scuola è un esempio. Questo dovrebbe far riflettere coloro che hanno finora visto nella scuola, magari generalizzando alcune notevoli intuizioni di Althusser,  soltanto l’apparato per la trasmissione della cultura dominante. E per questo non mi convince neppure una lettura dei provvedimenti gelminiani unicamente nella chiave della trasformazione della scuola in una istanza di controllo e di addottrinamento (se voglio fare dell’insegnante un agente di controllo alla Foucault non ne metto uno ogni 30 alunni ma uno ogni 3). La scuola è stata anche una istanza di resistenza al dominio o perlomeno di mediazione (e dunque di ammorbidimento ma anche di paradossale apertura alla critica) delle richieste che questo poneva ai soggetti. Uno sguardo leniniano o anche solo gramsciano alla scuola ha dovuto riconoscere questa dialettica: la disciplina che il ragazzo delle classi inferiori imparava a scuola era anche la possibile disciplina del rivoluzionario.

Non parlerei  dunque di Riforma Gelmini perchè si riforma una istituzione nella quale si crede o alla quale comunque si cerca di indicare una direzione; parlerei di  lenta dissoluzione, ancora più chiara a proposito dell’Università, laddove si inizia dai muri (le Fondazioni private che possono acquistare i locali degli atenei) per poi passare in modo quasi indolore a ciò (e a coloro) che questi contengono. Certamente, se tutto  ciò che l’università  ha da opporre a questo progetto è ciò che essa è stata negli ultimi 10 anni (quella del “se il mio candidato vince a Bologna poi il tuo vince a Milano”; l’Università nella quale nei consigli di facoltà gli ordinari parlano, gli associati si associano e i ricercatori tacciono; quella nella quale la componente studentesca negli organi collegiali tace e quando parla è lo stesso perchè tanto conta meno di niente; l’Università nella quale si finanziano con soldi pubblici ricerche e borse di studio delle quali poi non si sa più nulla, non si verifica nulla, non c’e’ un minimo controllo su come vengono effettuate le ricerche, sulla loro qualità, sulla qualità reale dei docenti, dei dottorandi, dei borsisti, degli assegnisti;  l’Università nella quale si passa la metà del tempo a fare architetture istituzionali, equilibri concorsuali, ardite costruzioni da manuale Cencelli) allora difficilmente il disegno tremontian-gelminiano incontrerà difficoltà di sorta.

La stessa cosa ci sembra valere per la scuola, nella quale sono stati meno forti i giochi di potere, ma non le difficoltà incontrate nel definire una reale identità pedagogica; il problema del carattere omologante dell’abbigliamento imposto dalle griffes ai ragazzi, e del livellamento commerciale indotto nelle scuole dalle multinazionali (produttrici di bibite e brioches da consumare nell’intervallo come di pennarelli e di matite colorate di una determinata marca imposta ai genitori) è reale anche se (forse) il grembiule non è la soluzione; il problema della difficoltà della scuola a proporre/imporre un modello di comportamento adatto alla socializzazione del sapere e al rispetto per i deboli è reale anche se (forse) il 5 in condotta non è la soluzione; il problema della parcellizzazione del sapere e alla dispersione  delle figure  umane in alcune scuole primarie (aggravate dalla sconcertante proliferazione di quegli oggetti inconoscibili che sono “le educazioni”) è reale anche se (certamente) il maestro unico non è la soluzione; il problema della comunicazione chiara, pubblica e leggibile tra scuola e famiglia è reale anche se (forse) i voti non sono la (sola) soluzione. E infine, il problema sia cronico che acuto della formazione iniziale degli insegnanti soprattutto del segmento medie-superiori è reale, anche se l’abolizione delle Sis non è (certamente) la soluzione.  Una ulteriore perplessità sorge a proposito dall’idea di docente e di docenza sottesa a questi provvedimenti: sembra si stia tornando a sostenere che per insegnare matematica alle scuole medie inferiori basti conoscere la matematica: didattica, psicologia dell’età evolutiva, pedagogia, tutto questo sembra pronto per andare in soffitta, vellicando così le –terribili- idee di chi pensa che tutto sommato “insegnare è una cosa da niente, cosa ci vuole, basta leggere un libro e ripeterlo in classe”.

Il governo e il duo Tremonti-Gelmini vogliono fare cassa con la scuola: ma vogliono anche approfittarne per chiudere i conti una volta per tutte con questa scomoda istituzione. Ma l’istituzione che si accingono a liquidare è ancora la scuola come spazio per la critica, il dissenso, il pensiero divergente? Non è che al momento di affondare il colpo mortale essi si sentiranno dire “tu uccidi un uomo morto?”. Se non è così –e vogliamo fortemente credere che non lo sia- lo si capirà nei prossimi mesi: non solo nelle sacrosante proteste di piazza ma nella gestione e nella pubblicizzazione di una quotidianità scolastica che ci è sembrata negli ultimi anni così lontana dalle sensibilità dei ragazzi e dalle potenzialità emancipatorie della cultura che l’avvento del liquidatore fallimentare sottoforma di tandem di ministri non poteva che essere accolto in modo tiepido; come la fine di qualcosa che è già finito , e che è “ovviamente opportuno” liquidare una volta per tutte.

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