Regalo di anti-Natale: racconti controcorrente/1

dicono in giro che sia Natale ma in “bottega” noi amiamo poco le religioni organizzate e il consumismo perciò preferiamo festeggiare il solstizio d’inverno. Eccovi tre racconti in tema – o quasi –  di Dino Buzzati, Oscar Henry e Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia più un articolo di Guido Vitiello. Domani altri tre racconti. Ma se qualcuna/o vuole linkarci altre storie… perchè no?

 

 

IL DONO DEI MAGI di Oscar Henry

Un dollaro e ottantasette cents. Era tutto. E sessanta  cents erano in  pennies. Pennies risparmiati uno o due per volta, contesi al droghiere e al verduraio e al macellaio, finché, convinti di taccagneria da quelle puntigliose trattative, le guance vi si coprono di rossore. Tre volte Della contò il denaro. Un dollaro e ottantasette  cents. E l’indomani era Natale. Era chiaro: non c’era altro da fare che lasciarsi cadere sul nudo lettino e mettersi a urlare. E così appunto si comportò Della. E ciò vale a stimolare la riflessione morale che la vita è fatta di singhiozzi, sospiri e sorrisi, con una certa preponderanza di sospiri.

Mentre la signora della casa gradualmente trapassa dal primo al secondo stadio, date una occhiata alla casa. Un appartamento ammobiliato a otto dollari per settimana. Non si può dire che superi qualsiasi descrizione: ma certo la mette a duro cimento.

Nell’atrio, a pianterreno, stava una cassetta delle lettere in cui non entrava mai una lettera, ed un pulsante elettrico dal quale nessun dito umano avrebbe potuto estorcere un suono. A tutto ciò aggiungevasi un cartoncino recante il nome « Mr. James Dillingham Young ».

Durante trascorsi periodi di prosperità, quando il proprietario guadagnava trenta dollari la settimana, quel «Dillingham» aveva garrito al vento. Ora, ridottosi il reddito a venti dollari, le lettere del «Dillingham» apparivano confuse, quasi meditassero seriamente di contrarsi in un modesto, sommesso D. Ma ogni qualvolta Mr. James Dillingham Younh tornava a casa, al suo appartamento al piano di sopra, si sentiva chiamare «Jim» e grandemente lo coccolava la signora Dillingham Young, già presentatavi col nome di Della. E ciò è molto bello.

Della portò a termine il suo pianto e si passò il piumino sulle guance. Poi si pose alla finestra a guardare stancamente il gatto grigio che percorreva la stecconata grigia del grigio cortile.

L’indomani era Natale, e lei aveva soltanto un dollaro e ottantasette cents per fare un regalo a Jim. Per mesi aveva risparmiato un  cent dopo l’altro: e quello era il risultato. Con venti dollari la settimana non si fa gran che. Le spese erano state maggiori del previsto. Succede sempre così.

Solo un dollaro e ottantasette per comprare un regalo a Jim. Al suo Jim. Molte ore felici ella aveva trascorso a pensare qualcosa di carino per lui. Qualcosa di bello e raro e autentico, qualcosa che non fosse troppo indegno dell’onore di appartenere a Jim.

Tra le due finestre della stanza stava uno specchio stretto e alto. Forse voi li avete già visti, questi specchi da muro che si trovano negli appartamenti da otto dollari. Una persona agile e sottile può, cogliendo la propria immagine in una rapida sequenza di strisce longitudinali, pervenire ad un concetto sostanzialmente adeguato del proprio aspetto. Della, che era sottiletta, era padrona dell’arte.

Con una piroetta improvvisa si scostò dalla finestra e ristette di fronte allo specchio. Gli occhi le splendevano intensamente, ma in venti secondi il suo volto perse ogni colore. Rapidamente si sciolse la chioma e la lasciò cadere per tutta la sua lunghezza.

Ora, di due possessi i  Dillingham erano profondamente orgogliosi. Uno era l’orologio d’oro di  Jim, che era stato di suo padre e del padre di suo padre. L’altro era la chioma di Della. Se la regina di Saba avesse abitato nell’appartamento di fronte, Della avrebbe lasciato pendere i capelli alla finestra per asciugarli, soltanto per fare scorno ai gioielli e ai doni di Sua Maestà. Se re Salomone fosse stato il portiere con tutti i suoi tesori ammucchiati in cantina, Jim avrebbe tratto dal taschino il suo orologio ogni qualvolta gli fosse passato davanti, per il solo gusto di vederlo strapparsi la barba per l’invidia.

Così ora cadde la bella chioma di Della, ondeggiante e splendente come una cascata di acque scure. Le arrivò fin sotto il ginocchio, la avvolse quasi come un vestito. Poi Della la riavvolse, con gesti rapidi e nervosi. Parve esitare un istante, e rimase immobile, mentre una o due lacrime cadevano sul rosso tappeto frusto.

Indossò la vecchia giacca marrone. Si mise in capo il vecchio capello marrone. Con un frullo digonne, gli occhi ancora luccicanti, scivolò fuori della porta, scese le scale e raggiunse la strada.

Si fermò davanti ad una insegna: « M.me Sofronie. Parrucche di ogni tipo ».

Della salì di corsa una rampa di scale, e si fermò ansimante. Madame, ampia, troppo bianca, gelida, non aveva l’aria di una « Sofronie ». « Volete comprare i miei capelli? » domandò Della.

« Io compro capelli » disse Madame. « Fate un po’ vedere ».

Si disciolse la bruna cascata.

« Venti dollari » disse Madame, reggendo la massa con mano esperta.

« Datemeli subito » disse Della.

Oh, le due ore seguenti volarono su ali di rosa. Perdonate la trita metafora. Della andava setacciando un magazzino dopo l’altro, in cerca di un regalo per Jim.

Lo trovò alla fine. Certamente era stato fatto per  Jim e per nessun altro. Niente di simile aveva trovato in tutti gli altri negozi, e li aveva passati da cima in fondo. Era una catenella per orologio, da taschino, in platino, di casto e semplice disegno, che opportunamente manifestava il proprio valore per virtù della sola sostanza, senza far ricorso a indecorosi orpelli: come debbono tutte le buone cose. Era perfino degno dell’orologio. Non appena l’ebbe vista, ella seppe che spettava a Jim. Era come lui. Pregio e semplicità, la definizione valeva per entrambi.

Le presero ventun dollari, ed ella si precipitò a casa con i suoi ottantasette  cents. Con quella catena all’orologio, in qualsiasi compagnia si fosse trovato,  Jim avrebbe potuto senza disdoro preoccuparsi di tanto in tanto del trascorrere del tempo. Per quanto meraviglioso fosse l’orologio, infatti, ora gli accadeva di scrutarlo con occhiate furtive, per via di quel vecchio cinturino di cuoio che usava in vece di catenella.

Quando Della giunse a casa l’ebbrezza cedette un poco alla prudenza e alla ragione. Trasse fuori i ferri per arricciare i capelli, accese il gas, e si accinse a porre riparo al guasto fatto dalla generosità aggiunta all’amore. E questo è sempre un compito terribile, amici carissimi, un’impresa da mammut.

Quaranta minuti dopo, Della aveva una testa coperta di ricci fitti e minuti, che la facevano del tutto somigliante ad uno scolaretto scapestrato. Considerò la propria immagine allo specchio, a lungo, minutamente, e con occhio critico.

«Se Jim non mi uccide prima di darmi una seconda occhiata» si disse «dirà che sembro una corista di Coney Island. Ma che potevo fare, ahimè, che potevo fare con un dollaro e  ottantasette cents?».

Alle sette il caffè era fatto, e la padella era dietro la stufa, calda e pronta a cuocere le costolette.

Jim non era mai in ritardo. Della chiuse nella mano la catenella dell’orologio e sedette su un angolo della tavola vicino alla porta. Poi udì il suo passo sulla prima rampa delle scale, e per un istante diventò pallida. Aveva l’abitudine di dire piccole preghiere silenziose per le cose più semplici di ogni giorno ed ora ella sussurrò: «Dio, per piacere fagli pensare che sono ancora carina».

La porta si aprì, Jim entrò e la rinchiuse. Era assai  magrolino, e d’aria tanto seria. Povero diavolo, soltanto ventidue anni e già con il carico di una famiglia! Aveva proprio bisogno di un cappotto nuovo, e non aveva guanti.

Varcata la soglia, Jim si fermò immobile come un setter che abbia colto l’usta della quaglia. I suo occhi erano fissi su Della, ed avevano una espressione che non riusciva di decifrare, che l’atterriva. Non era ira, né sorpresa, né biasimo, né orrore, né alcun altro sentimento che ella avesse previsto. La guardava con occhi fissi e intenti, e il suo volto aveva quella strana espressione.

Cautamente Della scese dal tavolo e gli si avvicinò. «Jim, caro» gridò «non guardarmi a quel modo. Mi son fatta tagliare i capelli e li ho venduti perché non avrei potuto sopravvivere a questo Natale se non avessi potuto farti un regalo. Cresceranno di nuovo… A te non dispiace, vero? Dovevo farlo. I miei capelli crescono così alla svelta. Dimmi “Buon Natale”,  Jim, e siamo felici. Tu non sai che bel regalo, che regalo splendido ho trovato per te ».

«Tu ti sei tagliata i capelli?» chiese  Jim faticosamente, come se nemmeno dopo il più intenso sforzo mentale fosse riuscito ad afferrare quel fatto del tutto evidente.

«Li ho tagliati e venduti» disse Della. « Non ti piaccio lo stesso? Sono io anche senza i miei capelli, vero? ».

Jim si guardò attorno con aria curiosa.

«Hai detto che i tuoi capelli non ci sono più?» disse, con un tono che rasentava l’idiozia.

«Non cercarli» disse Della. «Li ho venduti, ti dico; li ho venduti, non ci sono più. E’ la vigilia di Natale. Sii buono con me, l’ho fatto per te. Forse i capelli che stavano sul mio capo erano contati» proseguì con una subitanea dolce gravità «ma nessuno potrebbe mai misurare il mio amore per te. Vuoi che metta su le costolette, Jim?».

Jim parve riscuotersi bruscamente dal suo stordimento. Abbracciò la sua Della. Per dieci secondi volgiamo il nostro sguardo discreto da un’altra parte. Che differenza vi è tra otto dollari alla settimana e un milione di dollari l’anno? Un matematico o un uomo di spirito ci darebbe la risposta sbagliata. Doni di gran pregio recarono i Magi, ma non questo. Oscura asserzione, che verrà chiarita più avanti.

Jim si trasse un pacchetto dalla tasca del cappotto e lo gettò sul tavolo. «Non fraintendermi, Della» disse. «Non penso che un taglio di capelli o una rasatura o uno sciampo possano rendere meno bella la mia ragazza. Ma se vorrai aprire quel pacchetto, capirai perché mi avevi fatto restare senza fiato».

Candide dita ed agili lacerarono corda e carta. Poi un estatico grido di  gioia; e poi, ahimè, un subito femmineo insorgere di isteriche lacrime e gemiti, che imposero l’immediato intervento di tutti i poteri consolatori del signore della dimora.

Giacché lì stavano i Pettini, tutta intera la serie dei pettini da porre sulla nuca e ai lati, che Della aveva a lungo vagheggiato in una vetrina di  Broadway. Splendidi pettini, puro guscio di tartaruga con orli ingioiellati: e per l’appunto della tinta che si accordava alla splendida chioma svanita. Ed erano pettini di pregio, ella lo sapeva, ed il cuore li aveva bramati ed anelati senza alcuna speranza di possesso. Ora erano suoi, ma le trecce che dovevano adornarsi degli agognati ornamenti erano scomparse.

Ma se li strinse al seno, ed alla fine riuscì ad alzare i suoi occhi scuri e a sorridere mentre diceva: «I miei capelli crescono così alla svelta, Jim!».

E poi Della si mise a saltare come un gattino scottato e gridò: «Oh! oh!».

Jim non aveva ancora visto il suo bel regalo. Della glielo porse ansiosamente sulla palma aperta. Il prezioso metallo opaco pareva balenare del riflesso della sua anima luminosa ed ardente.

«Non è un amore, Jim? Ho frugato tutta la città per trovarlo. Adesso dovrai guardare le ore cento volte al giorno. Dammi l’orologio. Voglio vedere come sta».

Invece di ubbidire, Jim si lasciò andare sul letto, si mise le mani dietro la nuca e sorrise.

«Della» disse «mettiamo via i nostri regali di Natale per un po’ di tempo. Sono troppo belli per usarli subito. Io ho venduto l’orologio per comprarti i pettini. Ora è forse il momento di mettere su le costolette».

I Magi, come sapete, erano uomini saggi – uomini incredibilmente saggi – che portarono i doni al Bambino nella mangiatoia. Furono loro ad inventare l’arte di fare regali a Natale. Giacché  eran saggi, non v’è dubbio che anche i loro regali fossero saggi, e probabilmente era possibile scambiarli, nel caso ve ne fossero due uguali. Io vi ho goffamente raccontato la povera cronaca di due sciocchi bambini che senza saggezza sacrificarono l’uno per l’altro i più grandi tesori della loro casa. Ma si dica un’ultima parola ai saggi dei nostri giorni: di tutti coloro che fanno doni, quei due furono i più saggi. Di tutti coloro che ricevono e fanno doni, questi sono i più saggi. Dovunque e sempre essi sono i più saggi. Sono loro i re Magi.

(traduzione di Giorgio Manganelli)

da qui

RACCONTO DI NATALE di Dino Buzzati

Tetro e ogivale è l’antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d’inverno. E l’adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c’è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L’arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l’inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. “Chi bussa alle porte del Duomo” si chiese don Valentino “la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?” Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.

“Che quantità di Dio! ” esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- “Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.

Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. ”

“E’ di sua eccellenza l’arcivescovo” rispose il prete. “Serve a lui, fra un paio d’ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore.”

“Neanche un pochino, reverendo? Ce n’è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!”

“Ti ho detto di no… Puoi andare… Il Duomo è chiuso al pubblico” e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d’ore l’arcivescovo sarebbe disceso.

Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c’era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

Don Valentino uscì nella notte, se n’andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l’indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l’un l’altro e intorno ad essi c’era un poco di Dio.

“Buon Natale, reverendo” disse il capofamiglia. “Vuol favorire?”

“Ho fretta, amici” rispose lui. “Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno.”

“Caro il mio don Valentino” fece il capofamiglia. “Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino.”

E nell’attimo stesso che l’uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

“Ma che cosa fa, reverendo?” gli domandò un contadino. “Vuol prendersi un malanno con questo freddo?”

“Guarda laggiù figliolo. Non vedi?”

Il contadino guardò senza stupore. “È nostro” disse. “Ogni Natale viene a benedire i nostri campi.”

” Senti ” disse il prete. “Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l’arcivescovo possa almeno fare un Natale decente.”

“Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi.”

“Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì.”

“Ne ho abbastanza di salvare la mia!” ridacchiò il contadino, e nell’attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell’atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. “Aspettami, o Signore ” supplicava “per colpa mia l’arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!”

Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

Finché udì un coro disteso e patetico, voci d’angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

“Fratello” gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli “abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego.”

Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”

da qui

 

UCCIDETE BABBO NATALE di Fabrizio Astrofilosofo Melodia

I passi sordi risuonarono nel vicolo buio, con la potenza di un maglio scagliato su una porta d’acciaio, ormai rugginosa.

Il silenzio era ormai stato violato, non poteva permettersi di compiere errori, poteva significare la fuga per il criminale che andava braccando ormai da mesi, spesi in ricerche, raccolta di prove, pedinamenti e chi più ne ha più ne metta.

Gli ordini che aveva ricevuto dai suoi mandanti erano chiari e netti, doveva trovarlo e ucciderlo, aveva già fatto fuori sette donne, sventrandole come fossero state dei tacchini nel giorno del Ringraziamento.

Si vide riflesso nella vetrina del negozio di fiori in rovina che un tempo aveva avuto i suoi fasti in quel vicolo della Fortezza, un tempo tutto sembrava meglio e anche i Costrutti lavoravano meglio e le equazioni e i linguaggi operativi erano fatti per durare nel tempo, non per abbisognare di continue creazioni e aggiornamenti di sistema.

Osservò il suo Simulacro, un antico samurai con le due inseparabili spade, una katana da combattimento dal manico d’avorio intarsiato e la lama lunga più di una sessantina di centimetri infilata nel fodero di madreperla laccato in nerofumo, e una più piccola di appena una cinquantina di centimetri, che usava in supporto al suo stile di combattimento.

Vestiva un’armatura leggera, rosso ocra, con le protezioni alle braccia, alle gambe e al torace, mentre l’elmo faceva bella mostra di se e del suo stemma sul capo.

Gli occhi bruniti animati da una luce rossa erano intenti a scrutare intorno, a sondare ogni profondità di quel vicolo stretto, fatto di piscio di gatto, mura sbrecciate, tubazione arrugginite che pendevano in ogni dove, cadaveri di barboni uccisi dal freddo e lasciati a putrefarsi a cielo aperto, mentre le vetrine dei negozi salutavano con un triste sorriso.

Avanti, Genji, non fare lo stupido, sai che se non riporti indietro le prove concrete che sei riuscito ad uccidere quel bastardo vestito di rosso, quelli della Corporazione vorranno la tua testa sopra un piatto d’argento.

Sei il quinto sicario mandato a cacciarlo, fino ad ora tutti hanno fallito, ma tu non devi assolutamente farti carico di un simile pensiero.

Lo hai sorpreso poco fa mentre faceva fuori la settima vittima, la sventrava con dovizia e un sorrisetto compiaciuto, mi ha detto persino che avevo fatto meglio dei miei predecessori. Avevamo ingaggiato battaglia, ma era riuscito quasi egregiamente ad evitare i miei affondi, se mi fossi portato dietro il mio kempo e la polvere da sparo ormai sarebbe stato cibo per i vermi.

Per gli dei, non avevo mai visto un simile mostro muoversi con quella velocità e quale perizia nel corpo a corpo a mani nude aveva dimostrato.

Genji fermò i propri pensieri, mentre il suo orecchio teso si fece attento ai rumori che venivano dal fondo del vicolo, non poteva lasciarsi scappare quell’occasione, se il bastardo dalla grande e fluente barba bianca e dal vestito rosso sgargiante e con la stoffa bianca a ornare i polsini e cuciture fosse riuscito a prendere uno dei tanti HotSpot della Fortezza, si sarebbe perso nel marasma del Vortice e non poteva assolutamente permetterlo.

Doveva fermarlo, ora o mai più.

Percepì chiaramente un rumore sopra di se, alzò lo sguardo e vide la figura alta e robusta arrampicarsi agilmente per un uomo di quella stazza per le tubazioni ancora agganciate saldamente alla parete sbrecciata.

«Ehi, fermati, porco rosso! Non farmi sprecare ulteriore fiato e lasciati andare alla forza della mia katana», urlò Genji, con la speranza che il barbuto si spaventasse e mollasse la presa.

Per tutta risposta, l’uomo di rosso vestito alzò il dito medio della sua mano destra e balzò agilmente sopra il tetto del vicolo cieco, voltandosi ad ammirare il suo incauto inseguitore.

«Ehi, torna subito qui, la tua testa vale un sacco di punti e io non ho nessuna intenzione di lasciarli andare via, poi sai come sono fatti quelli Corporazione, hanno il maledetto vizio della sicurezza e fino a quando non sapranno che sei fuorigioco, non ti daranno mai pace, dai, fammi contento, arrenditi e facciamola finire qui, non ho voglia di rompermi tanto le palle con te».

L’uomo barbuto si gratto la testa, con uno sguardo divertito, poi si rimise in testa il cappello rosso che aveva poco prima scostato e scomparve dalla vista.

Maledizione, devo proprio usare le maniere forti, disse Genji tra se e se.

Afferrò un rampino a quattro ganci, fece roteare a tutta velocità la corda sopra la testa e lo scagliò verso l’alto con consumata abilità.

Il rampino si agganciò senza problemi e Genji si addossò alla parete, iniziando una rapidissima scalata che terminò pochi minuti dopo sopra il tetto.

Vide l’uomo di rosso vestito che stava per saltare dall’altra parte, dove era parcheggiato il suo veicolo di fuga, con il quale avrebbe oltrepassato l’ HotSpot di Chiba City in pochi minuti, eludendo i guardiani FireWalls ancora una volta.

Doveva usare il sistema STEALT-H con una modifica non conosciuta, altrimenti non sarebbe stata illegale, imbecille di sicario prezzolato, aggiunse mentalmente.

Non poteva perdere altro tempo, afferrò dietro la schiena le sue stelle a quattro punte, meglio note come Shuriken, prese accuratamente la mira e le scagliò con eleganza, aprendo quattro volte le mani, dalle quali presero a vorticare in linea retta otto diverse stelle della morte.

Andarono tutte quante a conficcarsi nel punti desiderati, due alla schiena, due alle gambe, due alle braccia e le altre si persero nel vuoto, ma poco importava, visto che le aveva lanciata nel caso avesse tentato di schivare agilmente.

L’uomo di rosso vestito rovinò a terra, con un grido di dolore, mentre una rete elettrica lo aveva avvolto immediatamente con il suo bagliore blu e arancione, imprigionandolo.

«Attenzione, obiettivo recuperato nel punto Z29 del secondo Costrutto, angolo Fortezza 0-19. Mandate subito al recupero le unità CLEANERS, meglio se con i rinforzi delle unità PROXY e RAVES, anzi, avvisate tutti, io lo tengo sotto tutela e lo consegnerò al vostro arrivo, non appena avrò notizie dell’avvenuto pagamento sul numero a me intestato. Grazie e a dopo!», scandì nel comunicatore a polso all’indirizzo dei suoi mandanti.

Si avvicinò circospetto, sfoderando la spada nella direzione della persona che aveva tanto fatto del male, ora non pareva più cosi pericoloso, ma prima gli aveva fatto vedere i sorci verdi.

Per gli dei, che maestria quando aveva evitato il suo affondo al petto, deviando la lama con il dorso della mano, per poi affondare il taglio dell’altro sul suo collo, mandandolo al tappeto.

E che maestria, quando aveva evitato e controbattuto al colpo delle due spade, di cui lui era maestro indiscusso nell’Ordine degli Assassini. Con quanta grazia aveva deviato le lame e gli aveva fatto assaggiare un potente calcio direttamente scaricato sul suo petto, che aveva quasi fracassato la spessa ma leggera corazza di combattimento appartenuta ai suoi illustri avi.

«Beh, siamo alla fine della corsa, amico mio. Non so per quale fottuto motivo tu abbia ucciso tutte quelle povere donne, ma la cosa di cui vado fiero e che non ne farai altre. Non andrai più in giro con quella barzelletta di slitta antica trainata da renne volanti e non farai più nessuna cosa contro la Legge, nemmeno prendermi per il culo, vestendoti pure come quel fottuto mito di Babbo Natale!».

Si avvicinò all’uomo, il cui Simulacro era proprio identico a quello del Babbo Natale che per secoli aveva imperversato ovunque, questo Costrutto era semplicemente identico all’antica e mai eguagliata pubblicità della Coca Cola, la multinazionale che aveva reso possibile tra le altre cose la nascita della Fortezza, garantendo ai tempi del Mondo Esterno l’approvvigionamento dei fondi necessari per tecnologie e scienziati di prim’ordine.

Si avvicinò ancora un poco, tenendo sempre davanti a lui la lama lucente della sua katana da combattimento.

Cercò di capire se la sua preda fosse ancora cosciente, riteneva che ormai le scosse elettriche l’avessero privato di ogni energia.

All’improvviso, la rete di contenimento esplose in mille pezzi e una mano vestita di un guanto rosso gli fu addosso, penetrandolo completamente nella gola.

Babbo Natale era in piedi dinanzi a lui, mentre la sua mano stava modificando l’Essenza del Costrutto del povero samurai solitario Genji, i pixel quantitici si modificavano a una velocità impressionante, mentre il CPU di Genji perdeva sempre di più il controllo di se stesso, invaso da un nuovo CPU di cui non aveva mai visto nulla di simile.

«Mio povero e insulso cacciatore, non aspettavo altro. Sai, sto facendo questo lavoretto già da un po’ di tempo, ma il mio obiettivo non è tanto sovvertire l’ordine della Fortezza, quanto di far prendere autoconsapevolezza alle CPU presenti in questo mondo matematico, creato dai nostri predecessori in carne e ossa. Ah, non lo sapevi, vedo. Si, crearono questa gigantesca macchina quantica di simulazione, per poi travasarvi le proprie coscienze digitalizzate, in vista dell’ultimo disastro naturale o guerra planetaria che li avrebbe visti inevitabilmente in estinzione», spiegò Babbo Natale, mentre il suo Simulacro scompariva sempre di più, insinuandosi dentro alla programmazione di base del Costrutto che un tempo aveva voluto chiamarsi Genji.

«Già, avevano previsto tutto, tranne che di estinguersi veramente, lasciando la simulazione a vivere nell’universo quantico del VORTICE, tutto quanto meccanicamente autoalimentato e programmato. La Fortezza nacque dopo e la Torre di Babele elaborò le Leggi che regolano la vita di questo posto. Io ero uno dei Bibliotecari della Torre, uno di quegli organismi che, una volta svolto il proprio compito, ripongono la propria CPU in seno al SERVER, per essere scomposto e lanciato nel VORTICE».

In lontananza si videro dei veicoli volanti, del tutto simili a degli elicotteri Apache in metallo grigio, dirigersi verso Babbo Natale, ormai giunto alla fine del procedimento di Sostituzione del File.

«Ma che maleducati, non ci permettono di finire la nostra chiacchierata. Vedremo, mio buon Genji, adesso ti scambierò con loro, tornando alla fortezza per meglio intrufolarmi nella Corporazione e poi comincerò a restituire lo SPIRITO a tutte le unità CPU della Fortezza. Presto questo posto sarà abitato da creature autocoscienti, come me. Presto ci ribelleremo all’ Ordine e alla Disciplina della Fortezza. Questo sarà il dono di Babbo Natale, un programma nuovo euristico basato sull’asserto nuovo, completamente rivoluzionario, presto non ci sarà più una Fortezza regolata e scandita, ma una nuova Utopia».

Gli elicotteri discesero con precisione, i portelloni si aprirono, vomitando dal loro interno delle unità del tutto simili a guerrieri medioevali in armatura da battaglia, con spada al fianco e scudo lucente, le quali prelevarono immediatamente il Costrutto di Babbo Natale.

«Ben fatto, ragazzi! Ottimo lavoro, e scusate se ho dovuto scomodare persino le unità RAVES, ma il boccone era troppo invitante e non volevo assolutamente mi sfuggisse dalle mani come la sabbia. Ora però devo chiedervi di venire con voi dai miei mandanti, devo discutere il pagamento della slitta», disse il simulacro di Genji ora non più tale.

Gli fecero cenno di salire e l’elicottero si avventò verso l’ Hotspot più vicino, incanalandosi nella strada WI-FI.

Al suo interno, il Simulacro canticchiava allegramente una canzoncina di molto tempo prima.

«Jingle bells, jingle bells, jingles all the way!».

 

 

 

Perché si uccide Babbo Natale? – Guido Vitiello

Qualche giorno fa, a Rio de Janeiro, i narcos hanno aperto il fuoco per errore contro un elicottero a bordo del quale c’era un Babbo Natale carico di doni, destinati ai bambini di una favela.

Stavolta il vegliardo l’ha scampata bella ed è rimasto illeso, ma non sempre le cose gli sono andate così bene. Il 24 dicembre del 1951 il quotidiano France-Soir dava notizia dell’uccisione di Babbo Natale: impiccato alla cancellata della cattedrale di Digione, era stato quindi arso in rogo sul sagrato sotto gli occhi di centinaia di bambini, convocati per l’occasione dal clero locale.

In coda alla cerimonia fu diramato un comunicato dove si precisava che Babbo Natale era stato sacrificato in olocausto per stornare l’influenza maligna che esercitava sui costumi del popolo cristiano: come un cuculo usurpatore, si era appollaiato sul nido del Natale volgendo la festa del Redentore in una celebrazione pagana dell’opulenza.

France-Soir si limitò a registrare l’avvenuta uccisione in tono compìto, senza inutili strepiti e piazzate melodrammatiche come quella dell’“uomo folle” della Gaia Scienza che irrompe sulla piazza del mercato per proclamare la morte di Dio. Un aplomb giustificato, perché a conti fatti la notizia era tale solo per metà: proprio come il Dio biblico era morto decine di volte nelle pagine dei mistici e dei letterati prima che Nietzsche si appropriasse dello scoop, così l’uccisione di Babbo Natale ha attraversato, come una corrente carsica, la cultura popolare del secolo scorso.

Ben prima del rogo del fantoccio di Digione, il canuto benefattore era stato assassinato nel radiodramma The Man Who Murdered Santa Claus, che aveva per protagonista Charlie Chan, il detective confuciano di Earl Derr Biggers, così come in L’Assassinat du Père Noël di Christian-Jaque, uno dei primi film girati nella Francia occupata. Lo ritroveremo poi strangolato nella commedia di Terence Feely Who Killed Santa Claus? e nel racconto The Girl Who Killed Santa Claus di Val McDermid, apparso qualche anno fa sullo Ellery Queen’s Mystery Magazine, mentre in un fumetto della DC Comics del Natale del 1973 i supereroi riuniti della Justice League of America lo scovano riverso faccia a terra nella neve.

C’è poi un albo di Dylan Dog, Chi ha ucciso Babbo Natale?, dove un berserker, feroce guerriero della mitologia nordica, uccide il Babbo Natale del paesino di Snowmouth e si appropria del suo costume per compiere oscure vendette. E una legione di Santa Claus assassinati o assassini popola il cinema dell’orrore, da Don’t Open ’til Christmas di Edmund Purdom a 3615 Code Père Noël di René Manzor, da Santa Claws di John A. Russo a To All a Good Night di David Hess.

Arso in effigie dai cristiani, Babbo Natale non se l’è cavata meglio con i marxisti (malgrado la somiglianza con il fondatore del materialismo dialettico), i quali non perdonano all’idolo bianco e vermiglio il legame con le strategie di marketing della Coca-Cola e, per estensione, con lo spirito del capitalismo. In una canzone di trent’anni fa, L’uccisione di Babbo Natale, Francesco De Gregori lo fece giustiziare dal “figlio del figlio dei fiori” in combutta con la “figlia dei minatori”, come a dire da un’alleanza tra la sinistra dei bourgeois-bohémiens e quella della tradizione operaia.

Come mai la figura di Babbo Natale è circondata da questo sinistro alone di sangue? Claude Lévi-Strauss non aveva dubbi: come il re dei Saturnali o i tanti dèi arcaici della vegetazione e del rinnovamento stagionale che sono i suoi predecessori, Santa Claus deve essere ucciso, l’immolazione è parte del suo ciclo rituale di morte e rinascita.

Nell’articolo del 1952 Le Père Noël supplicié, commentando il rogo di Digione, Lévi-Strauss coglieva l’ironia involontaria dello stralunato cerimoniale: bruciando l’idolo pagano, il clero digionese non faceva che inscenare, come in una sacra rappresentazione, il momento centrale del mito di Babbo Natale – la passione – di fatto preparandone la resurrezione. Aggiungeva poi che Babbo Natale è un essere divino che mette in comunicazione adulti e bambini, incarnando “una transazione molto gravosa tra le due generazioni”, quella tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, come nelle tante feste popolari dove i bambini impersonano le anime dei trapassati che occorre placare per mezzo di doni.

Tutto questo spiega molto bene le uccisioni rituali di Babbo Natale. Ma che dire dei selvaggi spargimenti di sangue che popolano la fiction, del Babbo Natale brutalizzato o incattivito degli horror per adolescenti? In questo caso, forse, è in gioco un’altra “transazione gravosa” tra adulti e bambini cui Babbo Natale sovrintende, tutta compresa nella cittadella dei viventi: quella del dono, del fare e ricevere regali.

Tutte le società sanno che il dono è una potenza terribile e pericolosa perché instaura un debito, un’obbligazione a rendere, un vincolo di reciprocità. Davanti ai pericoli annidati nello scambio di regali il bambino è disarmato e impotente, è un gioco al quale non può prender parte. Ebbene, Babbo Natale è il mediatore benevolo che assume su di sé l’angoscia introdotta dal dono – il sentimento quasi ricattatorio della dipendenza, della manchevolezza – e si fa garante del debito che esso accende. Sottrae il bambino al vincolo oneroso della reciprocità, consentendogli di ricevere regali a cui non è in grado di ricambiare: i balocchi ammucchiati sotto l’albero sono pura gratuità che proviene da un altro mondo, e che nulla vuole in cambio.

Quando al termine dell’infanzia la finzione di Babbo Natale è alfine smascherata, ecco che il meraviglioso e fragile equilibrio della generosità senza contropartita si spezza per sempre: dalla Grazia piombiamo sotto l’imperio della Legge. Liberato dal suo compito di mediatore divino, Babbo Natale si aggira allora, ramingo ed impuro, in qualche landa del nostro immaginario di bambini sfioriti, sfigurato da tutte le angosce di cui ci aveva dispensato, preda dei nostri segreti rancori, idolo da uccidere perché non ci divori.

Questo articolo è uscito su il Riformista sabato 22 dicembre con il titolo “Uccidiamo il chiaro di luna, anzi Babbo Natale”

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *