Reportage da Shengal e da Makhour…

… in lotta per la vita

A cura dell’«Associazione Verso il Kurdistan». Con le testimonianze di Mirca Garuti e di Zerocalcare (che erano nella delegazione). A seguire un appello di UIKI.

La guerra contro i kurdi continua nonostante tutto. La difficile ricostruzione di Shengal dopo il genocidio dell’Isis. Le bombe turche sul Campo profughi di Makhmour. L’impegno umanitario qui ed ora.

Una delegazione di diciotto persone, tra giornalisti, fotografi, fumettisti, operatori umanitari dell’ Associazione Verso il Kurdistan (*) ha raggiunto il 26 maggio il Kurdistan iracheno per una missione umanitaria che aveva come obiettivo quello di conoscere la realtà della regione di Shengal (Sinjar, in arabo), governatorato di Ninawa, nord Iraq, al confine con la Siria, dove, nel 2014, c’è stato un tentativo di genocidio (il 74’ ferman della loro storia) da parte di Daesh, quando migliaia di donne e ragazze yazide furono rapite come “prede” e vendute come schiave sessuali sui mercati di Raqqa e di Mosul (ad un prezzo tra i 5 e 20 dollari), mentre uomini e ragazzi sono stati trucidati e sotterrati in fosse comuni. Anche i bambini yazidi , rapiti dall’Isis , sono allora stati fatti oggetto di loschi traffici: molti sono stati venduti per pochi dollari a trafficanti arabi che li convertivano, acquisendo così dei meriti per il paradiso di Allah (!) oltre a sfruttarli nei lavori domestici; altri venivano indottrinati, imbottiti di droghe e mandati ad ingrossare le milizie di Daesh.

La popolazione di Shengal appartiene in maggioranza all’etnia kurda e pratica lo yadizismo, una religione monoteista molto antica, che si richiama ai ritmi della natura, al rispetto delle piante e degli animali ed è considerata “eretica” dagli islamisti.

La missione aveva come obiettivo quello di contribuire al miglioramento dei servizi e dell’assistenza sanitaria nel distretto di Shengal attraverso la realizzazione di una struttura sanitaria attrezzata per far fronte alla pandemia da coronavirus e per la cura di gravi malattie, un progetto ambizioso di oltre 100 mila dollari, sostenuto dall’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, Fonti di Pace di Milano, dall’ Arci di Firenze e dalla Cgil dell’Emilia-Romagna.

Non è stato facile raggiungere Shengal.

Da Hawler e da Sulemanija, per due giorni, abbiamo percorso inutilmente i trecento chilometri di strada verso Mosul, attraverso venti posti di blocco controllati dalle varie milizie che si spartiscono il territorio: peshmerga di Barzani, militari iracheni, milizie turcomanne, milizie sciite. Vicino a Mosul, nella zona controllata dalle milizie turcomanne e sciite, siamo stati trattenuti per ore in caserma, dove abbiamo subito pesanti ricatti e minacce e alla fine siamo stati rispediti indietro.

Al terzo giorno, abbiamo riprovato, percorrendo la stessa strada Hawler-Mosul.Shengal, questa volta accompagnati da due funzionari del governo iracheno. A questo punto, nessun problema ai vari ceck.

Superati tutti i posti di blocco, attraverso una pianura arida e brulla, color ocra, senza alberi, che non ha visto una goccia d’acqua per un anno intero, con rari campi di grano, greggi sparse, strade devastate, case bombardate e distrutte, case ricostruite a metà, polvere dappertutto, siamo arrivati al villaggio di Khamsour, dov’era prevista l’ospitalità della delegazione presso il centro di accoglienza.

All’entrata della cittadina, una lunga fila di immagini di martiri, ultimo regalo dell’occupazione jiadista: a destra, quelle delle donne, a sinistra, quelle degli uomini. Per non dimenticare.

Abbiamo visitato città e villaggi della regione, incontrato amministratori, rappresentanti dell’assemblea popolare, del movimento delle donne, il comitato per la salute per il progetto dell’ospedale, le unità di autodifesa maschili e femminili di Shengal, YBS e YJS.

Impossibile riportare ogni cosa emersa degli incontri. Si è discusso di autogoverno, autodifesa, democrazia dal basso e di genere, ricostruzione e ripresa della vita sociale, cura delle “ferite” delle donne, dell’ accordo di Baghdad del 9 ottobre tra governo regionale del Kurdistan e governo centrale iracheno – sponsor la Turchia – che pone una pesante ipoteca sul riconoscimento dell’autogoverno della società yazida.

Il sistema di autogoverno, opera come una piramide: alla base, stanno le assemblee di quartiere che individuano le esigenze del quartiere o del villaggio,nominano i rappresentanti all’assemblea popolare che discute e decide le priorità e le possibili soluzioni ai vari problemi, l’amministrazione della municipalità esegue.

Abbiamo visitato il cimitero dei martiri Shahid Lak. File di tombe e lapidi di caduti nella difesa di Shengal, ordinate e tenute con cura, immagini e simboli della tradizione yazida. Al centro, la tomba di Zeki Sengali, fondatore del Pkk a Shengal, ucciso nel 2018 da un drone turco. Particolarmente commovente è stato l’incontro con i famigliari dei martiri: una donna, racconta: “Io sono la mamma di un martire, mio figlio è caduto nella difesa di Shengal, insieme a lui è stato ucciso anche un suo amico d’infanzia, per cui oggi sono la mamma di due martiri”. Intanto un bambino che ha perso il suo papà si addormenta in braccio al nonno.

L’intero centro storico di Sinjar City è stato completamente raso al suolo dalla furia distruttrice di Daesh e dai successivi bombardamenti, tutt’intorno polvere e silenzio. Un ragazzo che ci accompagna ricorda la resistenza casa per casa, contro l’avanzata dell’Isis, i morti e i feriti per le strade.

In città, prima dell’occupazione islamista, vi abitavano 100 mila persone, mentre in tutta l’area, la popolazione ammontava a circa 450 mila. Oggi, con il progressivo ritorno delle famiglie, siamo a 250 mila. Oltre agli yazidi, stanno tornando sciiti, turcomanni, alcune famiglie cristiane, mentre non tornano gli arabi sunniti, alcuni dei quali compromessi con i massacri di Daesh.

Abbiamo visitato due cittadine distrutte, Girzerik e Tel Ezer.

Girzerik, una città di 25 mila abitanti prima dell’arrivo dell’Isis, è oggi totalmente disabitata. Un silenzio spettrale e una desolazione infinita avvolge come un sudario le case ridotte in macerie.

Durante l’assedio di Daesh, gli abitanti hanno resistito per ore, prima di arrendersi: gli uomini sono stati uccisi e sotterrati in una fossa comune non ancora svelata (sono centoventi le fosse comuni finora scoperte in tutta l’area) mentre le donne sono state rinchiuse in una casa prigione a Tel Ezer, destinate poi ad essere vendute come schiave sessuali o date in matrimonio ai jiadisti. Sono state liberate il 30 maggio 2017 dalle forze di autodifesa kurde di Shengal.

Tel Ezer è una cittadina che, prima dell’arrivo dello Stato islamico, aveva 16 mila abitanti. Oggi le famiglie stanno cominciando a tornare. E’ qui che è in corso la costruzione dell’ospedale previsto nel nostro progetto. Il Comitato promotore della Sanità di Shengal ci dice che, vista l’emergenza, pensano di concludere i lavori entro l’estate.

Da parte nostra, abbiamo ribadito l’impegno a sostenere il finanziamento previsto e al più presto, invieremo i fondi raccolti. Con l’occasione, abbiamo consegnato un migliaio di mascherine anticovid donate da staffetta sanitaria.

Altra tappa del nostro viaggio è stato il Campo profughi di Makhmour, sotto embargo dall’agosto 2019, più volte assaltato dalle bande nere dell’Isis e bombardato dai droni turchi.

Nel Campo, dove da anni operiamo con progetti umanitari, non siamo potuti entrare. Al ceck point delle milizie irachene, dopo un’ora di attesa sotto un sole cocente, abbiamo ricevuto un netto rifiuto. La pretesa delle milizie era quella di accompagnare la delegazione fin all’interno del Campo, per tutto il tempo della permanenza.

Alla nostra richiesta di far uscire un gruppo di abitanti dal Campo per andare a pranzo in un ristorante, stessa pretesa: la richiesta di essere presenti da parte dei militari iracheni. Abbiamo rinunciato, per non creare un precedente.

Nell’area antistante al posto di blocco, ad alcuni rappresentanti dell’assemblea popolare e al sindaco del Campo, abbiamo consegnato un migliaio di mascherine anticovid e i 9.600 euro del progetto “Hevi Center” raccolti per i bambini con sindrome di down e affetti da gravi malattie.

Ser ciava” è un saluto che significa “ti porto negli occhi”. Ma è anche un augurio, una promessa a ricordarti per sempre. Ci salutano portandosi le mani sul cuore.

Come regalo, invece, i droni turchi sono tornati sabato, con il loro carico di morte, a bombardare il Campo profughi di Makhmour, facendo tre morti e numerosi feriti.

Alessandria, 6 giugno 2021 – A cura di Associazione Verso il Kurdistan

(*) Nella delegazione Giorgio Barbarini (medico), Franco Zavatti (CGIL Modena), Paolo Zammori (ex sindaco), Antonio Olivieri (co-presidente Associazione Verso il Kurdistan Odv), Lucia Giusti (tesoriera Associazione Verso il Kurdistan), Michele Reich – Zerocalcare (fumettista), Manolo Lupicchini (cine-operatore), Mirca Garuti (imprenditrice), Lucrezia Lo Bianco (documentarista), Andrea Piccinini (ex bancario), Loretta Pagani (operatrice sanitaria), Chiara Cruciati (giornalista de “il manifesto”), Francesco Brusa (giornalista), Roberto Serra (giornalista e fotografo), Maria Novella De Luca (fotografa), Hikmet Aslan (interprete), Nayera El Gamal (interprete)

LE IMMAGINI SONO RIPRESE DAL REPORTAGE DELL’ASSOCIAZIONE “VERSO IL KURDISTAN”

IRAQ – MAKHMOUR

UN CAMPO PROFUGHI RESISTENTE

di Mirca Garuti (**)

Il campo di Makhmour è sempre stato un bersaglio di attacchi da parte di tante diverse forze ostili alla sua esistenza. (1)

Makhmour rappresenta il cuore dell’esilio del popolo curdo, è il popolo in cammino verso la sua liberazione, è l’esodo in un deserto da dove, prima o poi, si giungerà alla terra non promessa, ma voluta e conquistata, ed infine, è la testimonianza suprema della volontà di vita degli uomini.”

Makhmour si può considerare, ora, come una piccola città, abitata da circa 14.000 persone, fuggite a piedi, dopo l’incendio dei villaggi curdi sulle alture del Bohtan dalla Turchia nel 1994. Un viaggio attraverso 7 esodi, per arrivare infine in questo deserto, nel 1998, dove si sono insediate su un terreno assegnato dall’Iraq all’Onu. Provengono tutti dal Kurdistan del nord, da Hakkari, Sirnak e Van. Si erano rifiutati di lavorare per lo Stato turco come guardiani dei villaggi.

A Makhmour si trova il Centro culturale gestito da un Comitato dell’Assemblea Culturale. L’attività principale è il canto tradizionale. La storia curda è sempre stata raccontata attraverso il canto. Ogni avvenimento, anche il più cruento, veniva raccontato attraverso le canzoni.

Le origini delle canzoni provengono dal Bohtan, una regione montana turca a sud-est dell’Anatolia, dove il capitalismo non ha trovato terreno fertile, mantenendo così una tradizione della cultura curda viva e non contaminata.

Makhmour è ufficialmente sotto la responsabilità del governo centrale iracheno, ma in realtà non riceve nessun aiuto da parte di Baghdad.

Da maggio 2018 anche le Nazioni Unite hanno cessato ogni sostegno alla popolazione del campo, causa le pressioni della Turchia e del PDK (Partito Democratico del Kurdistan), che ha come obiettivo, la volontà di voler sciogliere il campo disperdendo i suoi abitanti. Per questo Makhmour si trova sotto totale embargo da agosto 2019.

All’interno del governo regionale curdo, specialmente da parte del Pdk, ci sono state, negli ultimi tempi, richieste affinché tornassero i peshmerga, nelle zone intorno a Makhmour, nonostante questi siano fuggiti dalla regione nel 2017 durante gli attacchi dell’Isis lasciandola poi alle milizie Hashd al-Shaabi. In questo modo, le forze dell’Isis, con il supporto logistico dello Stato turco e del Pdk, stanno di nuovo tornando ad imporsi nella regione.

Per questo, il Presidente della regione del Kurdistan dell’Iraq, Nechirvan Barzani ha chiesto la costituzione di una forza congiunta di soldati iracheni, peshmerga e della coalizione internazionale, contro gli attacchi di Isis.

Uno dei motivi di maggiore preoccupazione della popolazione del campo è proprio questo possibile ritorno dei Peshmerga perché potrebbe consentire alla Turchia e al Pdk, il loro annientamento.

Gli abitanti di Makhmour hanno sempre cercato di risolvere i propri problemi da soli, mettendo in pratica l’ideologia socialista elaborata dal loro leader curdo “Apo” Abdullah Ocalan, che si trova ancor’oggi dal 1999, in totale isolamento sull’isola-carcere di Imrali in Turchia a sud del Mar di Marmara. In questi 23 anni sono sopravvissuti a tante persecuzioni ed hanno costruito questa città con case, scuole, poliambulatori, centri culturali, spazi giovanili, centri per le donne, centri di comitati e un’amministrazione municipale. Un “sistema società” organizzato mettendo in pratica il Confederalismo Democratico. Il loro obiettivo è quello di superare il capitalismo e fondare un socialismo democratico che abbia al suo centro, oltre all’equa distribuzione delle risorse, la tutela dell’ambiente e l’emancipazione della donna.

Gli attacchi a Makhmour sono quindi dovuti alla paura che questo modello di autogestione possa influenzare anche gli altri popoli della regione, ma anche per eliminare i guerriglieri del Movimento di liberazione del Kurdistan.

Le forze turche hanno attaccato il campo diverse volte: il 13 dicembre 2018 uccidendo quattro civili e il 14 aprile 2020 uccidendo tre giovani donne.

Makhmour e Sinjiar, dal mese scorso, sono considerati dai turchi possibili bersagli di futuri attacchi. La ragione, non è solo per la particolarità della loro gestione, ma anche per la posizione strategica in cui si trovano.

Il campo di Makhmour si trova ai piedi del monte Karacox, vicino a popolazioni arabe e a pari distanza da tre importanti città: Mosul, Kirkuk, Erbil. Se si prendono in considerazione i numerosi progetti avviati a livello internazionale, si può facilmente comprendere l’importanza che assume Makhmour, anche e soprattutto, perché si trova in prossimità di aree che fanno parte del progetto cinese di una “nuova Via della Seta” e di una linea ferroviaria pianificata dalla Turchia, che rientra nei piani di occupazione neo-ottomana nella regione. (2)

Il 13 maggio scorso, il ministro della Difesa turco ha pubblicamente minacciato attacchi contro Makhmour e Sinjiar. Il 1 giugno, anche il Presidente turco Recep Erdogan, sul canale televisivo di stato TRT, ha minacciato l’Iraq di nuovi attacchi, affermando che la Turchia “ripulirà” il campo profughi di Makhmour, riconosciuto dall’UNHCR, a 180km a sud della Turchia.

In un contesto come questo, la delegazione italiana dell’Associazione “Verso il Kurdistan” di Alessandria, dopo essere stata a Sinjiar nel nord Iraq, sul confine con la Siria, ha provato a raggiungere, come ultima tappa, il campo profughi di Makhmour. L’Associazione Verso il Kurdistan opera da anni in questo campo attraverso vari progetti umanitari. L’obiettivo di questo viaggio era quello di portare alcuni aiuti per i bambini da sindrome di down dell’Hevi Center di Makhmour.

Questo viaggio è stato particolarmente difficile e complicato. La situazione, rispetto al 2019, è molto peggiorata e la lunga mano della Turchia si fa sentire in modo schiacciante!

Lo confermano anche alcuni rappresentanti del partito HDP di Erbil: “Da due anni, non viene concesso, a chi arriva dalla Turchia, nessun asilo politico e va considerato anche che sul territorio iracheno, le 36 basi militari turche ora sono diventate circa 100. Senza quelle segrete. Inoltre, è ormai accertato, che tutti gli alberghi, sono presidiati dai servizi segreti turchi.”

Eravamo a conoscenza che entrare a Makhmour sarebbe stato molto difficile, nonostante avessimo sul passaporto il visto del Governo centrale di Baghdad e per questo, abbiamo deciso di partire da Erbil con direzione Makhmour, con la speranza di aggirare il problema.

Arriviamo quasi alla fine, dopo aver attraversato 23 checkpoint, vicini al campo. L’ultimo controllo da parte dei soldati dell’esercito iracheno.

Controllano i passaporti e, per la prima volta, anche alcune valigie delle nostre tre autovetture. Sono interessati specialmente ai farmaci. Inizia una lunga attesa. Dobbiamo aspettare la risposta di un loro superiore. La risposta è negativa: “Non potete passare!” Alle nostre numerose proteste, la milizia irachena risponde che se vogliamo entrare, loro devono essere presenti per tutto il tempo della nostra permanenza.

Cambiamo proposta: chiediamo di poter incontrare un gruppo di abitanti del campo per un pranzo al ristorante nella città di Makhmour. Ancora la stessa pretesa. A questo punto, rifiutiamo l’offerta. Anche perché questo rifiuto imposto alla delegazione italiana, rappresenta il primo caso di respingimento per il campo di Makhmour, da parte del governo centrale iracheno.

Incontriamo, quindi, una delegazione del campo con la presenza del sindaco di Makhmour, sul piazzale del checkpoint sotto un sole cocente, dove leggiamo il nostro documento di denuncia per quest’azione illegale che presenteremo ad un tribunale iracheno.

Oggi 1 giugno, al posto di blocco delle milizie irachene, sulla strada che porta al campo di Makmour, la nostra delegazione che era diretta al campo per portare aiuti umanitari, ha ricevuto un secco rifiuto dal comandante del posto di guardia, nonostante avessimo i documenti in regola con tanto di visto del governo iracheno.

La pretesa della milizia era quello di accompagnare la delegazione all’interno del campo per tutto il tempo della permanenza. Non solo. Alla nostra richiesta di poter incontrare un gruppo di abitanti del campo per un pranzo al ristorante (!), ancora la stessa pretesa: la presenza al ristorante dei militari iracheni!

Tutto questo si configura come un atto pretestuoso e privo di fondamento giuridico, dunque totalmente illegale, che, peraltro, viola la sensibilità umanitaria.

Per questo, onde evitare il crearsi di un precedente pericoloso, insieme ai responsabili del campo di Makhmur, abbiamo opposto un netto rifiuto a questo genere di ricatto.

La delegazione si riserva di ricorrere legalmente.”

Dopo la lettura della nostra dichiarazione, ascoltiamo le parole di un rappresentante del campo di Makhmour. Le sue parole sono di denuncia per i due anni di duro embargo e per una situazione sanitaria molto difficile, sia per il Covid (contagiate più di un centinaio di persone) che per malattie croniche che non possono essere curate. Condanna il comportamento del governo iracheno nei confronti di una delegazione straniera che con spirito umano voleva solo portare aiuti ad una popolazione in difficoltà. Cita anche l’Accordo siglato dal governo regionale del Kurdistan con il governo iracheno di Baghdad del 9 ottobre del 2020.

Si tratta di un accordo fatto su Makhmour e Sinjiar, per mettere fine all’ingerenza di gruppi esterni, facendo riferimento al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), la cui presenza non è ben vista da Erbil. Perché, si chiede il rappresentante del campo, in Iraq è possibile andare in ogni città, mentre invece non si può raggiungere solo Makhmour e Sinjiar? La delegazione italiana è stata così testimone di quello che succede in questa regione. 

Al termine di queste dichiarazioni, la delegazione italiana consegna un migliaio di mascherine anticovid e quanto raccolto per il progetto “Hevi Center” per i bambini con sindrome di down e affetti da altre gravi malattie.

Ci salutano portando la mano sul cuore con la frase “Ser ciava” che significa “ti porto nel cuore”. E’ un augurio, una promessa a ricordarti per sempre. Speriamo di poter tornare!

Purtroppo, poco dopo essere rientrati a casa, ci raggiunge la terribile notizia che Erdogan ha mantenuto la promessa. Il 5 giugno alle 13:55 ora locale, è iniziato l’attacco sul campo di Makhmour da parte della Turchia. Un drone ha colpito la parte anteriore del Martyr Aryen Park, un’area frequentata ogni giorno da centinaia di persone e un parco giochi per bambini. In questa zona si trovano anche le scuole del Makhmour Camp. Sul terreno restano 3 morti e numerosi feriti.

Erdogan, con questo nuovo bombardamento, ha violato, ancora una volta, il diritto internazionale oltrepassando i confini della Regione Federale del Kurdistan iracheno.

(**) Alkemia

1 – http://alkemianews.it/index.php/2018/12/18/il-campo-profughi-di-makhmour-kurdistan-bashur-1-parte/

2 – https://www.youtube.com/watch?v=qlGQyJKeZGw

fonti: Admin Iraq -Leggi Sicurezza internazionale

Stralci dell’intervista pubblicata sul numero di «L’Espresso» in edicola. (*)

Zerocalcare: “Cosa ho visto nel nord dell’Iraq, tra i popoli bombardati perché non si piegano a Erdogan”

Il racconto del viaggio nel Kurdistan iracheno, tra parole e disegni. Tra gli Yazidi che subiscono gli attacchi della Turchia. “La loro caduta sarebbe la caduta di tutto il progetto di confederalismo democratico. L’idea di Erdogan è quella di un ritorno all’Impero Ottomano”

di Floriana Bulfon

Un altro attacco, con droni assassini che seminano bombe tra i civili. Il nord dell’Iraq continua a non conoscere pace. L’Isis è stato sconfitto sul campo ma il territorio resta diviso tra etnie e soprattutto interessi internazionali che cercano di manipolarle. In mezzo, popoli con storie antichissime e identità forti, capaci di guardare al futuro cercando strade nuove di convivenza. Michele Rech Zerocalcare è appena rientrato da un viaggio in quei territori, accolto subito da un’altra terribile notizia.

Il campo di Makhmur nel nord dell’Iraq è stato bombardato da Recep Tayyp Erdogan. Tu eri lì pochi giorni fa. Cosa è successo?

Ho saputo delle tre persone uccise in un attacco di droni turchi appena atterrato a Roma. È una cosa che ti scuote. Quello è un campo gigantesco, ci vivono più di 15mila persone ed è sottoposto a continui bombardamenti. Ed è incredibile che le Nazioni Unite non abbiano ancora detto niente: il campo fa riferimento a loro, perché formalmente dipende dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. È sorto in mezzo al deserto, con l’esodo massiccio di curdi dalla Turchia negli anni Novanta dopo i raid di Ankara che distrussero una serie di villaggi. Noi non siamo riusciti ad entrarci perché viene tenuto sotto embargo: non lasciano passare nemmeno le ambulanze. Dopo una lunga trattativa, è uscita una piccola delegazione curda con cui ci siamo incontrati nel parcheggio esterno e almeno siamo riusciti a consegnare i medicinali”.

Perché i turchi continuano a bombardarlo?

Gli abitanti del campo rifiutano di vivere nelle condizioni di profughi bisognosi di aiuto: le persone si sono organizzate infatti secondo il modello di confederalismo democratico, un modello di organizzazione sociale innovativo che è esattamente quello che la Turchia vuole distruggere. Erdogan vuole attaccare le montagne nel nord dell’Iraq perché sono lo scheletro della resistenza. La loro caduta sarebbe la caduta di tutto il progetto di confederalismo democratico. L’idea di Erdogan è quella di un ritorno all’Impero Ottomano. Anche la scelta delle date degli attacchi ha sempre una valenza simbolica: l’ultimatum che preludeva ai bombardamenti è stato lanciato nel giorno del genocidio armeno”.

Perché sei tornato in Iraq e dove sei andato?

Sono partito per raggiungere la regione del Shinjar nel Nord dell’Iraq. È il posto dove abitano gli Yazidi, che sono stati massacrati dall’Isis nel 2014 in quello che l’Onu ha definito un genocidio. Hanno costruito un modello di società condivisa, ecologica e paritaria, con la speranza di ottenere un riconoscimento ufficiale, ma ora tutto rischia di concludersi nel sangue”.

Cosa sta succedendo?

Su pressioni della Turchia che non vuole che esista questa enclave, il governo iracheno e quello curdo-iracheno gli hanno intimato di sciogliersi e consegnare le armi. Ma loro non si fidano perché quando c’era l’Isis a massacrarli, queste autorità li hanno abbandonati: gli unici che li hanno difesi, riuscendo ad aprire un corridoio per farli fuggire, sono stati invece i curdi del Pkk”.

Cosa hai trovato in Shinjar?

Intanto non sono partito da solo come un matto, ma all’interno di un progetto più articolato con l’associazione “Verso il Kurdistan” che ha l’obiettivo di aprire un ospedale. C’erano anche il regista Manolo Luppichini e la giornalista Chiara Cruciati, perché nessuno vuole documentare quello che sta succedendo lì. Tra gli Yazidi si è creato un grande senso di gratitudine nei confronti del Rojava, tanto che molti di loro sono entrati nelle “Unità di protezione popolare curde”. In particolare, moltissime donne rese schiave dall’Isis e poi liberate, sono entrate nell’Unità di difesa delle donne, una milizia femminile. Le donne yazide dopo i traumi subiti stanno costruendo una centralità con ruoli paritari. In tutta la zona liberata hanno adottato il sistema di confederalismo democratico curdo che prevede presidenza e copresidenza maschile e femminile, un sistema assembleare e le unità militari maschili e femminili autogestite”.

Cosa hai disegnato di più in questo viaggio?

Check point. In questi dieci giorni ne abbiamo attraversati tanti e sono il segno di tanti piccoli feudi, una rappresentazione plastica di quanto siano preda delle influenze straniere: ci sono le milizie sciite che rispondo all’Iran, quelle più vicine alla Turchia, altre legate agli americani. A seconda delle fazioni pretendono un altro tipo di pezzo di carta per lasciarti passare. Il viaggio è stato molto difficoltoso perché venivamo bloccati ad ogni checkpoint nonostante avessimo un visto regolare dell’ambasciata irachena, ma questa autorità spesso non è riconosciuta. E poi ci sono le facce che si portano appresso un dolore. Qui tutti hanno subito cose orribili, ma negli sguardi degli yazidi c’è qualcosa di più profondo: un trauma collettivo. Sanno di essere sopravvissuti a uno sterminio. Volevano cancellare la loro identità. Questo lo cogli nello sguardo di chi incontri e allora inizi a capire anche cose che sembrano a noi strane, come quella che si sposano solo tra yazidi per non estinguersi”.

I curdi dicono: “Abbiamo un solo amico e sono le montagne”. Sono delusi dall’atteggiamento dell’Occidente? Si sentono traditi?

In realtà i curdi non si sono mai fidati, sanno bene che le alleanze strategiche cambiano a seconda degli interessi. Nessuno si fa delle illusioni, pensano sempre di relazionarsi con i popoli più che con gli Stati”.

La resistenza dei curdi ci ha fatto scoprire la loro rivoluzione nel Rojava. Un confederalismo democratico fatto di liberazione femminile, ridistribuzione del reddito, convivenza tra culture e religioni. Tu cosa hai imparato?

Mi sono levato di dosso degli stereotipi. Quando mi hanno iniziato a raccontare quello che stavano facendo in questi territori, ho pensato fosse qualcosa per noi molto lontano, da vedere attraverso delle lenti con la fascinazione dell’esotico. Mentre con i miei occhi ho imparato che queste cose sono vere, sono cambiamenti sociali concreti anche in zone che per migliaia di anni hanno conosciuto solo autoritarismo. È un mese che stiamo assistendo allo scontro tra Palestina e Israele, a discorsi di convivenza impossibile. Ci sembra che quella parte di mondo sia un quadrante di odi infiniti che non si ricomporranno mai. In Iraq e Siria ci sono campi profughi con i familiari dell’Isis, focolai di rancore con bambini che rischiano di riprodurre altro odio. Dovremmo tener presente che ci sono esempi differenti di come si convive là dentro. Esperimenti veri di un diverso modo di vivere che durano da anni e che dovremmo valorizzare. E invece facciamo finta che non esistano perché la parcellizzazione di quei territori ci fa comodo per spartirci le risorse”.

L’unica cosa è ricordarci il senso di quello per cui stiamo resistendo”, dice una combattente nel tuo fumetto ‘Kobane calling’. Combattere insieme per qualcosa. C’è un orizzonte comune verso cui andare?

Ho l’impressione che il motivo per cui mi sono appassionato alla causa curda sia perché apre un orizzonte. Viviamo attraversati da tante crisi, molti di noi non riescono a trovare un posto nel mondo e ad avere un’esistenza dignitosa e non riusciamo a trovare un’uscita. Le risposte occidentali mi sembrano insufficienti. La visione curda invece ci offre una chiave che può essere condivisa di convivenza tra diversi, di giustizia sociale, equità, di rapporto ecologico con la natura. Forse non la possiamo importare così, “para para” come si dice a Roma, ma possiamo declinarla per mettere in discussione quello che non va e fare i conti con le nostre storture”.

Per leggere l’intervista intera e visionare la galleria di disegni di Zerocalcare, clicca qui

(*) testo ripreso da «Anbamed, notizie dal Sud Est del Mediterraneo», rassegna 343 del 9 giugno.

Appello urgente per tutte le organizzazioni internazionali per l’ecologia, l’ambiente e i diritti umani
Gli attacchi turchi al Kurdistan meridionale (Iraq settentrionale) non sono solo una catastrofe umana, ma portano anche a un enorme disastro ecologico. L’obiettivo della Turchia è occupare il territorio curdo e indebolire le forze di resistenza curde come il PKK.Gli obiettivi generali di questa campagna di occupazione sono l’assimilazione, il cambiamento demografico, la pulizia etnica, i crimini di guerra e la distruzione dell’ambiente del Kurdistan. Come continuazione di questa mentalità colonialista dall’inizio dei suoi attacchi il 23 aprile 2021, l’esercito turco ha causato gravi danni alle foreste e alla fauna selvatica nelle regioni di Zap, Avasin e Metina del Kurdistan meridionale. Per fermare questa deliberata distruzione dell’ambiente del Kurdistan da parte della Turchia, è importante che tutte le organizzazioni internazionali e gli individui che combattono contro il cambiamento climatico e per la protezione dell’ambiente alzino la loro voce.

UIKI Onlus
Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia

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