Reportage dal Kurdistan iracheno
Interviste raccolte dai corrispondenti di Radio Onda d’Urto e Infoaut
Prosegue il lavoro di inchiesta e reportage dei nostri corrispondenti in Medio Oriente: i compagn* si trovano ora in Iraq nella zona del Kurdistan Basur, ovvero nei territori che rientrano sotto il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell’Iraq (il Krg).
Di seguito proponiamo una raccolta (in continuo aggiornamento) di tutti i contributi, gli aggiornamenti, le interviste e gli approfondimenti realizzati dai nostri corrispondenti
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Il Pkk sugli attacchi di Lice e Ankara: “Il popolo curdo ha diritto di difendersi”
In un’intervista rilasciata ai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto in Iraq (che nei prossimi giorni pubblicheremo in versione integrale), il comandante delle forze armate del Pkk nell’area di Mosul, Cemal Andok, ha commentato così l’attacco esplosivo che ha causato decine di vittime nell’esercito turco ad Ankara (capitale della Turchia): “Il Pkk è estraneo a questo attacco, ma esso è il risultato della crudeltà del governo di Ankara nei confronti dei civili e delle città curde del Bakur [regione curda della Turchia sud-orientale, Ndr]”.
A poche ore di distanza dall’attacco di Ankara c’è stata un’altra azione di sabotaggio nei pressi di Lice. Sull’autostrada tra Bingöl e Diyarbakir, principale città del Bakur, un veicolo delle forze turche è stato fatto saltare in aria facendo sei morti tra i soldati.
“I curdi non possono stare a guardare mentre Erdogan uccide impunemente centinaia di civili e ne brucia i cadaveri, incendiando case e palazzi e soffocando o bambardando le persone nelle cantine”, ha continuato Andok. “I curdi, con questi due attacchi all’esercito, hanno provato a rispondere all’attacco della Turchia. Esiste un diritto curdo di rispondere agli atti di guerra e a proteggersi, combattendo tanto lo stato islamico quanto gli altri nemici”.
Nella giornata di ieri una rivendicazione dell’attacco di Ankara è arrivata dal gruppo Tak, “Falchi del Kurdistan per la Libertà”. Il comandante del Pkk ha fatto presente che “esistono molte organizzazioni che si battono per la causa curda e per la libertà curda, ad esempio Tak. Non c’è relazione militare tra Pkk e Tak, ciò che ci unisce è l’essere curdi”. I Tak, che avevano già rivendicato un’esplosione su un aereo della Turkish Airways all’areoporto Sabiha Gokcen di Istanbul alcune settimane fa, hanno dichiarato nel loro comunicato che l’azione di Ankara “è una risposta al massacro perpetrato dall’esercito a Cizre. Il silenzio su ciò che sta accadendo a Cizre è complicità”.
Il comunicato dei Tak prosegue identificando l’attentatore morto nell’azione di Ankara con Abdulbaki Sonmez, nato nel 1989 nella provincia di Van (Turchia orientale), combattente curdo dal 2005 e dal 2011 membro della loro organizzazione, e annunciando che la lotta proseguirà fino alla conquista della libertà per tutto il Kurdistan. In un primo tempo il governo turco aveva tentato di attribuire l’azione a un profugo curdo siriano presunto appartenente alle Ypg del Rojava, nel chiaro intento di giustificare atti di guerra contro i combattenti curdi in quella regione.
L’attacco di Lice è stato invece rivendicato dall’HPG (formazione armata del PKK) come risposta ai massacri che le forze speciali hanno perpetrato in queste settimane a Cizre, Sur e İdil.
Cemal Andok ha concluso l’intervista rilasciata ai nostri corrispondenti ricordando che “i curdi stanno colpendo obiettivi militari, non civili” e che “tutte le organizzazioni curde – dai Tak al Pkk, passando per il Pdk e l’Upk, hanno diritto di proteggere il popolo curdo”.
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Intervista al Pyd in Iraq: “La Turchia è un problema per il medio oriente. L’Arabia Saudita? Stia lontana dalla Siria”
Incontriamo il responsabile del Pyd in Iraq, Garip Huso, e il suo collaboratore Alan Slivi, nell’ufficio che il partito ha aperto a Suleimaniya, nella cosiddetta “zona verde” del Kurdistan iracheno; quella a sud di Erbil, controllata dai Peshmerga dell’Unione Patriottica del Kurdistan. Il Pyd è il partito curdo siriano, ispirato alle idee di Abdullah Ocalan, che ha contribuito maggiormente alla costruzione dell’autonomia di fatto che oggi vive il Rojava, la striscia di terra a maggioranza curda nella Siria settentrionale. Le sue forze armate, le Ypg/Ypj (unità di protezione popolare maschili e femminili) hanno impressionato il mondo per la loro tenacia nella guerra contro lo stato islamico, che controlla la striscia siriana lungo l’Eufrate, subito a sud del Rojava contro cui è in guerra.
Il Pyd è l’anima politico-teorica da cui si sono originate le Ypg/Ypj, l’organizzazione che tenta, oggi, di sviluppare relazioni politiche sul piano internazionale per contribuire al riconoscimento generale della rivoluzione in corso in Rojava, che appoggia e difende. Nel Rojava non esiste soltanto il Pyd: esistono molti altri partiti, tra cui un partito nazionalista vicino al Pdk iracheno di Massud Barzani, magnate curdo del petrolio protetto da Usa e Turchia. Tra i due partiti ci furono attriti nel 2012, all’atto del ritiro dell’esercito siriano dal Rojava, che furono superati grazie alla mediazione di Pdk e Pkk. Le Ypg, in quanto braccio armato del Pyd, inoltre, detengono la leadership militare dell’alleanza di guerra che ha condotto, in Siria, alla formazione delle Forze Democratiche Siriane (Fds), al momento supportate dal cielo tanto dagli Stati Uniti quanto dalla Russia. Limitatamente agli sforzi contro lo stato islamico, e per alcune questioni logistiche (ad es. gli areoporti) esiste anche un teso coordinamento di massima con il governo Assad.
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Il Pyd è oggi uno dei principali e più influenti partiti del Kurdistan. A quali principi si ispira la sua prassi politica?
Il primo principio è la lotta. L’obiettivo della lotta è il confederalismo democratico in Siria, dal momento che questa è l’unica soluzione possibile per la convivenza di curdi, assiri, turcomanni e arabi. Questo è il futuro che vuole il nostro partito. Il secondo principio è l’uguaglianza. Nel nostro partito gli uomini e le donne hanno lo stesso ruolo. Non soltanto ogni carica prevede un rappresentante maschile e uno femminile che condividano le responsabilità, ma in ogni settore dell’organizzazione le donne sono libere di assumere funzioni direttive e di impegnarsi ad ogni livello, sia esso il piano militare, quello diplomatico, sociale, economico e così via. Lo stesso vale per i giovani. L’uguaglianza delle donne e dei giovani all’interno del partito è sintomo del nostro sguardo rivolto al futuro.
Il terzo principio è la pluralità interna. Il Pyd non è un partito per i curdi: chiunque, anche chi fa parte di una minoranza del Rojava (arabi, siriaci, armeni, ecc.) può farne parte. Il Pyd è diverso sotto ogni punto di vista da tutti gli altri partiti del Rojava, e in particolare si distingue per la sua ideologia e per la sua democrazia interna. La costruzione di un sistema nazionale e democratico in Rojava, dove tutte le popolazioni e comunità del Rojava siano coinvolte, è il nostro obiettivo; e nonostante la nostra differenza profonda con gli altri partiti, la nostra strategia e di relazionarci con tutti.
Quanti sono, attualmente, i partiti politici del Rojava?
Sono sedici. Se posso fare una battuta, da quando in Siria c’è la guerra, i partiti nascono come funghi. Ognuno vuole fondare il suo partito!
In questi giorni la Turchia sta bombardando ad Azaz e in altre località del Rojava. Come commenta questo genere di iniziativa?
La Turchia ha da tempo reso nota quale, secondo lei, è la linea rossa per i curdi nella guerra civile siriana. I curdi, secondo l’opinione della Turchia, non possono oltrepassare l’Eufrate verso ovest. Ora che le Ypg hanno oltrepassato il fiume, la Turchia ha preso a bombardare il cantone occidentale di Afrin, che è territorialmente isolato dal resto del Rojava autonomo e confina su due lati con la Turchia. Anche i villaggi intorno ad Afrin vengono bombardati, ciò che sta causando la morte di moltissimi civili.
Questa azione da parte della Turchia è la più palese dimostrazione del suo supporto alle forze terroristiche in Siria. Quando le Ypg hanno liberato migliaia di altre città e villaggi, la Turchia non ha bombardato. Ora, però, hanno liberato Azaz, oltre l’Eufrate, e cominciano i bombardamenti. Perché? Forse perché tra l’Eufrate e Afrin esiste un corridoio attraverso cui lo stato islamico può rifornirsi di armi e uomini dalla Turchia?
Prendete Mosul, in Iraq. Ora tutti vogliono liberare Mosul dall’Is. È forte l’Is a Mosul? Basta che le Ypg chiudano il canale che la Turchia sta bombardando per tenere aperto, tra l’Eufrate e Afrin, e l’Is a Mosul perde ogni forza. La Turchia è un problema per tutta la regione: lo è per l’Iraq come per la Siria.
Anche l’Arabia Saudita dice di voler intervenire in questa guerra.
Da quando la Turchia ha cominciato a bombardare Azaz, ha chiesto aiuto all’Arabia Saudita, ma i sauditi non sono abbastanza forti per intervenire. Finanziano i terroristi, ma sarebbe stupido da parte loro mettere piede in Siria. Persino l’Università Araba del Cairo ha sconsigliato all’Arabia Saudita di fare questa mossa. Sarebbe stupido non ascoltare.
Crede che l’atteggiamento aggressivo della Turchia porterà a un impegno turco ancora superiore?
Ora la Turchia bombarda, ma l’opposizione al parlamento di Ankara dice: “Non entriamo in Rojava”. Un esercito può anche essere forte, ma è debole se all’interno il suo paese è diviso. La Turchia non bombarda soltanto Azad, ma anche Al-Bab e Jarablus. Questo perché se perde il controllo indiretto di tutto il lato meridionale del confine con il Kurdistan siriano, per il governo turco è un problema. Non soltanto non avrebbe più un canale d’ingresso per le milizie che appoggia e per il suo stesso esercito, ma anche i contraccolpi sull’opinione pubblica interna non sarebbero indifferenti.
Occorre capire che le città oggi ancora sotto il controllo dei terroristi in Rojava, tra il cantone di Kobane e il cantone di Afrin (Jarablus, al-Bab, Safira, Azaz, Mumbic) – la regione detta di al-Shahba – ha un suo congresso e una sua discussione politica. Lo so perché io stesso ho lavorato nel congresso di al-Shahba. Questa regione ha anche le sue forze armate, l’Esercito della Libertà o Freedom Forces. La popolazione della regione di al-Shaba è tutta sunnita, composta da curdi, arabi e turcomanni. Il Pyd appoggia questo congresso e gli offre aiuto: è un processo democratco che unisce le persone, un’esperienza positiva, dove uomini e donne sono protagonisti. Questa gente non vuole l’ingresso della Turchia.
Che cosa pensa il vostro partito del ruolo degli Stati Uniti, della Russia, dell’Unione Europea?
Tutti vengono qui e ci chiedono se appoggiamo gli Stati Uniti o la Russia. Nessuno ci chiede se Stati Uniti e Russia appoggiano noi. La Russia combatte l’Is, così gli Stati Uniti, così il Pyd. Sul campo, però, c’è soltanto il Pyd. La Russia o gli Stati Uniti non hanno uomini sul terreno. Russia e Stati Uniti non appoggiano il Pyd, combattono l’Is. Si rapportano con noi perché siamo forti sul campo; se fossimo deboli non ci sosterrebbero mai.
Pochi giorni fa alcuni media italiani hanno dato la notizia dell’apertura di un ufficio del Pyd a Mosca.
Non è un ufficio del Pyd, ma del governo autonomo del Rojava. Tutti dicono che è del Pyd, ma non è vero. È una cosa assolutamente positiva: la Russia è il primo paese europeo ad ospitare un ufficio del Rojava. È un evento storico importante, ed è anche un messaggio al resto dell’Europa. Sarebbe bello che anche altri paesi europei facessero proprie simili iniziative.
In questi giorni hanno luogo duri attacchi dell’esercito israeliano in Palestina, dove la popolazione porta avanti una diffusa resistenza. Quale messaggio si sente di mandare ai palestinesi?
I palestinesi sono persone che apprezziamo, e sono persone forti. Hanno il diritto all’autodereminazione come tutti i popoli. Un tempo, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, i giovani militanti curdi andavano in Palestina, lavoravano negli uffici palestinesi. Yasser Arafat è stata una figura democratica importante. Il Pyd ama la libertà dei popoli, non importa se arabi, curdi o altro.
Alcune figure di al-Fatah, in passato, hanno detto cose poco gradevoli sui curdi, come ad esempio che tutti i paesi arabi dovrebbero sterminarli (mi riferisco, in particolare, al leader di Fatah Saeb Erekat). Questo è spiacevole. Noi amiamo anche gli israeliani, perché amiamo tutti i popoli, benchè non amiamo i loro governi. La gente potrebbe vivere insieme, sono i governi che sbagliano.
Oggi uno dei principali problemi di comunicazione tra lotta palestinese e curda sembra essere proprio la situazione in Siria. La sinistra palestinese sostiene il governo di Assad, ad esempio, ciò che in qualoche modo la pone in contrasto con il vostro movimento.
Il padre di Bassar al-Assad, Afez al-Assad, creò un sistema di supporto per i palestinesi, tanto del Fronte Popolare quanto di Fatah. Tuttavia, Assad ha usato la questione palestinese per i suoi obiettivi politici e militari. Analogamente all’Iraq, la Siria ha usato la questione palestinese per attaccare politicamente Israele, ma per i propri fini. Assad parla sempre dei palestinesi, ma stranamente si dimentica della provincia di Antakia (Antiochia), dove vivono gli arabi alawiti [confessione religiosa cui lui stesso appartiene, Ndr] che gli accordi di Sykes-Picot hanno inopportunamente assegnato alla Turchia. Perché?
Analogamente, l’Iraq insiste sulla questione palestinese, ma si dimentica dell’Arabstan iraniano e di tante altre cose. Perché? La verità è che né la Siria, né altri regimi arabi possono liberare la Palestina. I paesi arabi sono ventidue: perché non fanno nulla di concreto? Usano la questione palestinese, nient’altro; e sono gli stessi regimi che dicono che i curdi sono come Israele…
Pochi giorni fa abbiamo intervistato il politico palestinese Mustafa Barghouti. Quando gli abbiamo chiesto quale messaggio volesse mandare alla sinistra curda, ha detto: “Di essere molto prudenti con Israele”…
Posso rispondere con uno scherzo: dite a Mr. Barghouti di essere molto prudente con la Siria!
C’è un messaggio che vuole rivolgere all’Italia?
I curdi vedono gli italiani come amici. Gli italiani hanno aiutato i curdi, anche quando Ocalan era in Italia c’è stata una mobilitazione per lui. Il popolo italiano è nel mio cuore.
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Iraq: voci da un paese distrutto
“Perché l’America è venuta a distruggere il nostro paese? Perché non ci lasciano in pace? È per il petrolio. Allora, che si prendano pure tutto il nostro petrolio, ma basta armi! Basta armi!”. Un signore di Baghdad sforza tutta la sua competenza nell’inglese per lanciare il messaggio accusatorio che, in Iraq, tutti rivolgono agli occidentali. Dicono “l’America” per gentilezza e per semplificazione, perché a nessuno sfugge, qui, chi ha fatto cosa; e l’Italia c’è stata e c’è dentro fino al collo. Dopo l’appoggio di Berlusconi (con l’avallo del Pd) alla terribile invasione di terra (e ai criminali bombardamenti) del 2003, dopo la partecipazione dell’Italia all’occupazione (do you remember Nassiriya?), e dopo il ruolo ambiguo nella situazione attuale, qualsiasi europeo o nordamericano che si trovi in questo paese deve rendere conto non tanto di quel che pensa, ma di chi è e da dove viene.
“Baghdad no good for you” ci avvisa un compagno siriano; e aggiunge: “Also no good for Kurdish”. Nessuno ci porterà a Baghdad, dice, se non vuole farci del male. Tredici anni di guerra, disperazione e sangue portati dall’occupazione e dalle sue conseguenze fanno di Baghdad un luogo dove gli occidentali non sono accettati in quanto tali, pena il rapimento o il linciaggio. Hassan si presenta, viene da Bassora, nel sud sciita controllato dal governo centrale, a pochi chilometri dal Kuweit. Appartiene alla minoranza sunnita nella città, per questo ha acquistato una casa a Erbil, per rigugiarvisi quando in città le milizie sciite (“gente ignorante”, dice) “creano problemi”. Ora è a Erbil per chiedere il visto per gli Stati Uniti: sua figlia è dottoranda all’Università di San Diego, e vuole andare a trovarla; degli altri due figli, uno è soldato e l’altro ingegnere. Lui ha scritto quattro di libri di racconti, e ritiene che Saddam Hussein fosse un buon presidente, “perché aveva aperto l’Iraq a tutto il mondo”. Poi però ha commesso degli errori, aggiunge: “La guerra all’Iran, l’opposizione all’Arabia Saudita, l’invasione del Kuweit”.
Ci invita a raggiungerlo a Bassora quando vogliamo: “A Bassora i miei occhi saranno aperti per voi”. Nur, anche lei araba, lavora a Erbil come receptionist. Alle 12.00 si nasconde interamente sotto il velo per seguire la preghiera che giunge ad alto volume dalla moschea di fronte al suo luogo di lavoro. Anche lei si è trasferita con la sorella Ofran da Baghdad tre mesi fa: “La situazione, a Baghdad, non è buona”. Tiene in braccio il suo bambino: è sciita, anche se lei è sunnita, perché è sunnita il padre. Le diciamo che la loro coppia appare inconsueta a chi sente da lontano le notizie che arrivano dalla sua città, dove sembra infuriare un conflitto terribile, da anni, proprio tra sunniti e sciiti. “No, non è tra sunniti e sciiti: è soltanto tra alcune persone, non tra tutti”. “Tutti i nostri problemi derivano dall’America – si intromette Mahmud, anche lui di passaggio a Erbil, anche lui di Baghdad – Prendi l’Isis: all’inizio pensavo fosse prodotto dalla religione, poi ho capito che è prodotto dall’America”.
Quando gli chiediamo da dove viene, si fa quasi aggressivo. “Sono stato in Finlandia. Non mi è piaciuta, e sai perché? Perché amo il mio paese. Io sono di Baghdad, sono di qui, sono iracheno. Tutte queste persone che vedi attorno a me sono iracheni, siamo tutti iracheni”. Si crea un certo imbarazzo. Uno dei ragazzi nella stanza è di Baghdad ed è arabo, ma gli altri due sono curdi e vengono dal Rojava. Nessuno risponde a Mohamed, che esce fuori a fumare una sigaretta, un po’ nervoso. Shiar, come il collega che gli passa il té, sta a Erbil da due anni. Sono rifugiati provenienti da Qamishlo, subito dopo il confine con la Siria. “Non è facile, la nostra vita. Siamo andati all’ufficio delle Nazioni Unite a Erbil, e abbiamo ottenuto lo status di rifugiati, per cui possiamo restare; ma il governo curdo iracheno non ci fornisce carta d’identità, forse ce la darebbe tra cinque o sei anni. Possiamo lavorare ma non studiare, né sposarci”.
Shiar dice di voler “cambiare mondo”, di non voler più stare “in questo mondo”. “Vorrei andare in Europa, ma l’unica via è la Turchia, poi via mare verso la Grecia. È pericoloso. Tanta gente sta morendo in mare”. Chiede informazioni su come avere il visto, ma rimane deluso quando apprende che, una volta scaduto quest’ultimo, se mai riuscisse ottenerlo (ed è praticamente impossibile), potrebbe facilmente ritrovarsi clandestino. L’idea di nascondersi tutta la vita dalla polizia, o di restare disoccupato perché nessuno lo assume, non lo alletta più di tanto. “Ora che la Siria è in guerra, tutti nel mondo dicono che non vogliono i siriani; ma quando in Siria c’era la pace, e si stava bene, dicevamo a tutti quelli che arrivavano, anche dall’Europa: welcome, welcome, you’re welcome”. Più che rabbia, il suo tono espime tristezza. La prima cosa evidente, qui, è quanto poco le persone abbiano interesse ad intavolare conversazioni politiche, a dire o sentire belle frasi come “i governi sbagliano” o “i popoli sono diversi dai governi”. Qui tutti sembrano troppo presi dall’urgenza di mettersi in salvo in un modo o nell’altro; e per iracheni o siriani, la reazione spontanea a termini come “politica” o “governo” sembra essere di pura paura.
Essere in un paese che il nostro stato ha contribuito a distruggere, oltre ad essere comprensibilmente pericoloso, è imbarazzante. Oggi di Iraq si parla soltanto in ragione dell’esistenza dell’Isis, perché l’Isis ha ucciso dei giornalisti statunitensi e ha massacrato centinaia di persone a Parigi. Tra il 2006 e il 2014, però, di Iraq non si è più parlato: cosa avvenisse in questo paese è rimasto un mistero, e non ha interessato l’opinione pubblica che intanto godeva dei proventi degli ottimi “accordi” petroliferi (se si può parlare d’accordo durante un’occupazione militare) che i paesi occupanti concludevano con le autorità posticce che avevano collocato nelle istituzioni locali (l’Eni italiana, in particolare… a Nassiriya). La resistenza araba all’occupazione condusse gli Stati Uniti, nel 2006, a concludere che il paese era ingovernabile. I think tank che avevano previsto, con la rimozione di Saddam, la stessa accoglienza all’American Way of Life che avevano apprezzato nell’est Europa nel 1989-91, avevano sbagliato.
Da allora, e soprattutto dopo l’arrivo di Obama alla presidenza (2009) è iniziata l’exit strategy americana da un pantano tanto più grave perché difficilmente comprensibile alla mentalità occidentale, laica o cristiana che fosse. Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Italia non hanno avuto, nel corso degli anni, in questo paese, che gli occhi del colonizzatore. Quando, nel caos della guerra all’occupazione, la guerriglia sciita di Moqtada al-Sadr (protagonista, nel 2004, dell’incredibile difesa della moschea di Najaf contro gli americani) produsse forme di autodifesa autonoma nelle città sciite, il leader al-Sistani si fece mediatore delle istanze sciite tanto con gli Stati Uniti quanto con l’Iran. La guerriglia sunnita basata a Falluja, Ramadi e Tikrit, oltre che a Baghdad, rivolse allora le proprie armi contro gli sciiti stessi, accusati di voler costruire un nuovo stato sotto l’ombrello statunitense. A capo della resistenza sunnita c’era il leader di al-Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, che aveva marginalizzato la guerriglia maggiormente laica legata al deposto governo di Saddam Hussein.
Gli Stati Uniti e l’Inghilterra tentarono di cavalcare lo scontro confessionale pensando che lo slogan “divide et impera” fosse sempre facile da applicare; ma la guerra tra resistenze diventò guerra civile con migliaia di morti, e la presenza statunitense continuò a patire le sue vitime e ad essere vista dalla popolazione come l’origine di tutte i mali, mentre i media occidentali distoglievano i riflettori dal paese. Nel 2011 gli Stati Uniti ritirarono le truppe, lasciando soltanto alcune migliaia di uomini per “addestramento” dei soldati iracheni e curdi e qualche squadra speciale. L’Italia lasciò 200 militari accanto all’areoporto di Erbil (forse perché potessero scappare più in fretta in caso di mala parata).
Il giorno stesso della partenza statunitense, il presidente sciita al-Maliki fece arrestare il presidente sunnita del parlamento. Fu l’inizio del saccheggio di stato dell’economia e della società di tutte le città a maggioranza sunnita, che nel frattempo avevano combattuto armi in pugno contro i militanti di al-Qaeda, riuscendo quasi ovunque a cacciarli. Tre anni dopo, quando le milizie dello stato islamico fecero ingresso in quelle stesse città, sterminando i soldati sciiti e crocifiggendo (oltre a chiunque infranga i dettami del corano) i funzionari corrotti del governo di Baghdad (dove, nel frattempo, quasi tutta la popolazione sunnita era stata espulsa in campi profughi della provincia di al-Anbar) molti le accolsero come un’armata di liberazione. Da allora il vessillo dell’Is sventola su Ramadi e Falluja, come su Mosul, dove il potere è amministrato dai consigli cittadini della Sharia. L’esercito ormai completamente sciita del governo centrale combatte a Ramadi, ottenendo un fragile controllo della città (nessuno può realmente sapere, al momento, a prezzo di quali soprusi sulla popolazione).
Questo paese sprofondato nell’odio, suddiviso in mille micro-stati di fatto indipendenti, spartito tra milizie, ideologie confessionali e spartizioni di denaro e potere, era un tempo un paese certo pieno di problemi, ma che la popolazione avrebbe probabilmente voluto e potuto, con il tempo, affrontare da sola. “Governato”, a tredici anni dall’invasione a stelle e strisce, dalla fazione irachena più vicina all’Iran (gli sciiti) è esempio lampante del carattere politico proprio del mondo contemporaneo, dove il controllo sociale è impossibile se non a prezzo della parcellizzazione gangsteristica della società. La condiscendenza sostanziale, benchè velata, degli Usa verso lo stato islamico in Iraq è l’ultima testimonianza del fallimento delle forme classiche del loro dominio, forse la prima delle forme angoscianti che essa ha avuto e dovrà assumere. Daesh – come qui tutti lo chiamano – è l’ultimo argine e l’impresentabile elemento di dissuasione per l’influenza irachena di Teheran, e l’ennesimo regalo dei nostri governi a una popolazione che avrebbe potuto esserci amica.
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Kurdistan: chi appoggia il governo italiano?
Le condizioni delle centinaia di persone intrappolate nel quartiere storico di Sur, a Diyarbakir, dove edifici antichissimi, protetti anche dall’Unesco, sono stati distrutti dai carri armati turchi, sono disperate. “Non riusciamo più a respirare” sono gli ultimi dispacci inviati via twitter o wapp. A Cizre l’esercito spara anche agli sfollati che tentano di tornare nelle loro case, in una città ormai completamente rasa al suolo. I profughi non trovano pace neanche a Hakkari, dove le forze speciali sparano loro addosso. Non è la Siria, ma la Turchia: qui la guerra può andare avanti nel silenzio complice dell’Unione Europea, che ha troppi interessi nel difendere l’alleato turco membro della Nato, che la ricatta con i milioni di profughi pronti a sbarcare dalle sue coste sulle spiagge greche. Qui i curdi non sono “gli eroi” di Kobane, che hanno difeso le città siriane dall’espansione dello stato islamico, ma i “terroristi” del Pkk.
Peccato, però, che i combattenti di Kobane e quelli di Sur e Cizre siano proprio gli stessi: nel 2014 migliaia di giovani curdi delle città turche si riversarono a Kobane per combattere ed oggi, tornati nelle loro città, si trovano costretti a difendere famiglie e quartieri dalle brutalità del presidente Erdogan. Là coraggiosi partigiani e utili interlocutori sul terreno, per Europa e Usa, qui banditi che la Turchia può sopprimere con qualsiasi mezzo. Là protagonisti della “guerra al terrorismo”, qui “terroristi” a loro volta. L’ipocrisia di Europa e Stati Uniti non ha mai fine. Eppure, esiste un luogo dove i partiti curdi sono considerati senz’altro alleati, senza ambiguità e distinguo: è il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell’Iraq (Krg), il cui centro amministrativo e politico è Erbil.
Di prima mattina, a Erbil, ragazzi discretamente zarri rifiutano di considerare le sim card che stiamo comprando prodotti “iracheni”: “No Iraq, Kurdistan!”. Le loro esclamazioni non sono diverse dai giovani che ci hanno ospitato a Diyarbakir, che si rifiutavano di esprimersi in turco: “Fuck turkish, speak kurdish!”. La differenza è che, qui, i movimenti curdi di resistenza sono andati al potere. Un ministro del Krg non esita a dichiarare: “L’Iraq esiste soltanto sulle mappe. Non prendiamoci in giro. Come il finto esercito iracheno del partito al-Dawa [principale partito sciita basato nel sud, da anni al potere in Iraq, Ndr] non ha avuto interesse a difendere Mosul dall’Isil, perché è una città sunnita, così io non mi considero iracheno, sebbene purtroppo abbia ancora questa cittadinanza”. L’esercito di Baghdad e e i Peshmerga curdi continuano a scontarsi, seppur sporadicamente, nella contesa provincia petrolifera di Kirkuk, dove metà della popolazione è araba, metà curda.
Negli anni Sessanta e Settanta i curdi iracheni, guidati dal leggendario condottiero musulmano Molla Mustafa Barzani, ingaggiarono una terribile guerra contro l’Iraq, che condusse a migliaia di morti, profughi e deportati, ma il peggio doveva ancora venire: durante la guerra Iran-Iraq, negli anni Ottanta, e a margine dell’aggressione statunitense all’Iraq del 1991 (dopo la quale tanto i curdi quanto gli arabi sciiti insorsero contro Saddam), il governo di Baghdad compì un vero e proprio massacro contro la popolazione curda a nord, usando anche armi chimiche. Da tempo il partito Baath al potere aveva tentato di “arabizzare” le province curde, espellendo forzatamente migliaia di persone e insediando nel nord centinaia di migliaia di arabi; una politica non molto diversa da quella che lo stesso partito portava avanti, negli stessi decenni, in Siria, sotto la presidenza di Afez al-Assad.
Nel 1991, dopo i bombardamenti contro l’Iraq, gli Stati Uniti imposero una “no-fly zone” sulle regioni curde, che furono così liberate militarmente dal potere di Saddam Hussein. I due principali partiti curdi, il Pdk (partito democratico del Kurdistan) ereditato da uno dei figli di Mustafa Barzani, Massud, e l’Upk (unione patriottica del Kurdistan) sotto la guida del suo antagonista Jalal Talabani, si affrontarono alle elezioni del 1992 e, decretando i risultati un pareggio al 48%, si scontrarono per le montagne a colpi di kalashnikov. I Peshmerga (“coloro che guardano la morte negli occhi”, in curdo) da armata secessionista diventarono milizie di partito in conflitto tra loro. Nel 1998 Bill Clinton propiziò la stretta di mano di Massud Barzani e Talabani a Washington, e la spartizione del Kurdistan iracheno in zona gialla (Erbil e Duhok, sotto il controllo del Pdk) e zona verde (Suleimaniya, sotto il controllo dell’Upk).
Dopo l’invasione del 2003, durante la quale gli Usa delegarono all’Upk l’espulsione dei salafiti curdi di Ansar al-Islam verso l’Iran (da cui, ciononostante, sarebbero tornati), la costituzione irachena pilotata dagli Usa, nel 2005, sancì l’indipendenza delle tre province a maggioranza curda (lasciando contese molte altre aree a lingua “mista” nella vicina provincia di Niniveh). Da allora i leader dei due partiti sono diventati tra gli uomini più ricchi al mondo, gestendo in modo clanico e clientelare i pozzi petroliferi del Kurdistan, tra i più grandi del pianeta. Nelle compagnie petrolifere o del gas da loro fondate un gran numero di funzionari Usa occupano oggi posti di prestigio, assicurandosi rendite miliardarie. Non stupirà che anche l’Italia sia interessata ad appoggiare, se non i guerriglieri del Pkk che vivono a base di riso e kebab, e tengono testa all’alleato turco, questa oligarchia curdo-irachena che ha trasformato la guerra per la liberazione in un’occasione per il proprio arricchimento personale.
“Da una ragione, il Kurdistan iracheno, la cui popolazione non raggiunge i cinque milioni, si esportano 650.000 barili di petrolio al giorno. Un quinto di questa esportazione è nelle mani dello stato, eppure da mesi il governo dice di non avere i soldi per pagare dipendenti pubblici e insegnanti. Com’è possibile?” si chiede Rabun Maroof, portavoce dei parlamentari di Goran, partito d’opposizione attestato sul 25%. “Da quest’autunno continuano le proteste di ingeneri, medici, poliziotti e insegnanti senza stipendio a Erbil, Rania, Suleimaniya, Kirkuk” racconta il giornalista televisivo e attivista politico Ali Mahmoud, arrestato qualche settimana fa e liberato dopo una campagna pubblica che ha mobilitato anche il Kurdistan turco e iraniano. “Il problema è che nel Krg non esistono sindacati indipendenti, tutti i sindacati sono legati ai due partiti al potere. Formalmente c’è il diritto di manifestare, ma nella realtà i concentramenti vengono attaccati dalla polizia, e i lavoratori che parlano apertamente contro il presidente vengono immediatamente arrestati”.
Dopo il crollo del prezzo del petrolio e il dissesto finanziario dovuto ad una politica forsennata di “grandi opere” da parte del governo, in pochi anni il Krg è diventato un paese dove la gente non sa dove trovare i soldi per la cena, nonostante i prezzi bassi e l’enorme ricchezza naturale del territorio. Il governo Renzi, ciononostante, ha deciso di rafforzare l’intesa con Barzani e aumentare da 200 a 800 i soldati italiani di stanza a Erbil. Intende inoltre rafforzare la collaborazione con la costruzione di una diga a Kirkuk (lucrosa “grande opera” in terra straniera affidata ad un’impresa emiliana) a “protezione” della quale verrebbero stanziati altri 800 soldati. Avere militari sul terreno in un paese ricco ma travagliato come l’Iraq fa sempre comodo, e mantenere amicizie con autoritari petrolieri anche, poco importa se a spese di una popolazione oppressa.
Il mandato presidenziale di Barzani è scaduto nel 2013, anno in cui una risicata maggioranza parlamentare gli ha garantito due anni di estensione, «sebbene ciò fosse illegale, perché la scelta del presidente è demandata ai cittadini secondo la costituzione”, spiega Maroof. Il 20 agosto 2015 questa estensione è scaduta, e il nuovo parlamento non ne ha votata un’altra (peraltro esclusa dal secondo mandato). Allora? “Nulla, Barzani è sempre lì. Non è più legalmente, ma per lui e per il mondo è sempre presidente”. Il suo potere, non supportato né dal voto popolare né dal parlamento, si basa eslusivamente sulla forza bruta delle milizie Peshmerga a lui fedeli e sull’appoggio incondizionato che Usa, Inghilterra e Italia forniscono a una personalità che altro non è, nei fatti, che un dittatore militare.
Intanto le Ypg continuano a cercare una strada percorribile per la soluzione della guerra civile in Siria, conquistando sempre maggior territorio allo stato islamico, ma le Nazioni Unite non le invitano al tavolo dei negoziati, presieduto dal diplomatico italiano Staffan de Mistura (le cui «brillanti» capacità – per fortuna, peraltro – sono già state evidenti con la vicenda marò in India). A porre il veto è l’alleato turco, per cui le Ypg hanno la colpa di essere alleate del Pkk; dal quale, a differenza del Pdk, Unione Europea e Stati Uniti non hanno da trarre alcun interesse economico, così che può restare nella black list delle più pericolose organizzazioni terroristiche mondiali. La diversità all’interno del Kurdistan è tra chi lotta per la libertà in una società giusta e chi ha venduto la libertà al denaro e al potere; e sono questi ultimi i curdi che piacciono al governo Renzi. Per questo, e soltanto per questo, non sentirete mai parlare in Italia di queste cose, e molte vittorie di Pkk e Ypg contro l’Isis saranno attribuite a non meglio precisati «Peshmerga». Una fonte istituzionale curda che chiede di restare anonima confida: “Per tanti anni ci siamo chiesti perché tutti i giornalisti parlassero bene del Pdk; poi abbiamo scoperto che li pagavano. A Barzani i soldi non mancano, e ad ogni giornalista piace tornarsene a casa con qualche migliaio di dollari in più”.
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Makhmur: un’isola rossa nel deserto iracheno
La statale da Erbil scende verso il confine siriano, ad ovest; all’ultimo check point dei Peshmerga del Pdk, fedeli al presidente Barzani, i militari si dilungano al telefono con i nostri passaporti. Siamo al confine tra il Kurdistan e la terra di nessuno che lo separa dallo stato islamico, e oltrepassato il checkpoint i Peshmerga non assicurano protezione. Un segnale indica sulla destra il breve tragitto per Mosul, la più grande città controllata dall’Is. Una strada vuota, dove nessuno si immette: così appare, in Iraq, il «confine» del califfato. Poche ore prima, in quella città, un ragazzino di quindici anni è stato decapitato perché ascoltava “musica pop occidentale”; e se i Peshmerga di Barzani non si avventurano più in questa zona, nella desertica area di Makhmur, a difendere la popolazione è rimasto il Pkk: come altrove, in prima linea. Makhmur città è come un fantasma: edifici spogli o in costruzione, case disabitate, pochi bambini che giocano a calcio su una distesa di terra e detriti; ma oltrepassato il centro urbano, un check point del partito dei lavoratori del Kurdistan definisce il limite tra la città e il vibrante campo profughi che vi confina.
In una modesta abitazione una famiglia ci offre il té tra ritratti di Ocalan e dei martiti della guerriglia. Non appena il cortile si popola di abitanti del campo, siamo accolti con un misto di benvenuto e di accuse. “Non capisco perché l’Italia non fa qualcosa per aiutarci” dice un signore anziano, con l’aria di chi non si capacita di qualcosa che non riesce a comprendere. “In Europa c’è la democrazia: perché, allora, non aiutate i curdi, che lottano per la democrazia a loro volta?”. Non è soddisfatto delle nostre risposte circa il carattere poco disinteressato della politica estera italiana, e sembra convinto che attraverso noi un messaggio possa essere inviato da qui «all’Europa» – entità mitica, di cui si ha una percezione rarefatta – e magari possa eliminare un semplice fraintendimento tra persone lontane, che non sono ancora riuscite a capirsi.
Nel quartier generale del campo, dove il Pkk ha dislocato gli effettivi delle Hpg (unità di difesa popolare maschili) e Yja-Star (unità femminili), un combattente dice: “Vorremmo che le nostre relazioni con l’Italia fossero maggiormente continuative. Dev’essere un rapporto umano, per la vita delle persone; non come nel 1999, quando l’Italia ha tradito i curdi, consegnando alla Turchia Ocalan”. I militanti che gli stanno intorno arrivano da tutto il Kurdistan (Iraq, Iran, Turchia, Siria) e da tutto il mondo, dalla diaspora che ha portato i curdi in Europa, in Australia, in America. Una ragazza delle Yja-Star è interessata a comprendere la situazione politica italiana: “Non capisco perché in Italia, contrariamente a Spagna e Grecia, non ci sono state rivolte in questi anni; credo che il popolo italiano dovrebbe insorgere”. Quando chiediamo se questo panorama spoglio le faccia rimpiangere le montagne di altre parti del Kurdistan, risponde: “Anche il deserto è bello, quando c’è la guerriglia”.
Se questi scambi possono introdurre alla differenza tra Makhmur e gli altri campi profughi dell’Iraq e del mondo, la percezione di questa diversità è ancora ben lontana dalla realtà di una storia unica, quasi incredibile, così rara nella sua intersezione tra lotta, migrazione e persecuzione, e per il suo conflitto, in condizioni estreme, tra autonomia popolare e potere costituito. “La nostra migrazione dalla Turchia all’Iraq risale al 1993 – racconta un insegnante nella sede della municipalità del campo – quando la Turchia mise in campo la sua guerra contro il Pkk in Bakur [Kurdistan settentrionale, Ndr]”. L’esercito invase i villaggi delle province sud-orientali prossime all’Iran e all’Iraq e mise gli abitanti di fronte a una scelta: collaborare con i militari nella repressione del partito, essere uccisi o andarsene. “I villaggi furono incendiati, la gente perseguitata. In decine di migliaia scegliemmo l’esilio: tutti noi onoravamo il Pkk, i combattenti nascosti nelle montagne erano i nostri figli, i nostri padri, le nostre sorelle e i nostri fratelli. Tradire era impensabile”.
Oltrepassato il confine della provincia di Sirnak, i profughi giunsero nel Basur [Kurdistan meridionale in Iraq, Ndr], controllato a nord dalle milizie del Pdk di Massud Barzani, alleato di Stati Uniti e Inghilterra. L’esercito turco attraversò il confine e attaccò i profughi a Zakho, che chiesero allora all’Onu di riconoscere lo status di campo profughi al loro insediamento. La Turchia si oppose e l’Onu fece orecchie da mercante. «Fu necessario un mese intero di rivolta, anche nella forma di scioperi della fame, perché le Nazioni Unite ci promettessero di riconoscerci lo status di rifugiati». Ciononostante, dopo un trasferimento a Duhok, il riconoscimento delle Nazioni Unite non arrivò: stavolta a mettersi di mezzo furono i Peshmerga del Pdk, che nel 1992 avevano stretto un accordo a Dublino con la Turchia. I migranti si rimisero allora in marcia, fino a raggiungere la città di Bersine, dove ancora il Pdk impedì l’accesso all’Onu. Furono ancora scontri e rivolta, anche per l’assenza di acqua e cibo causati dell’isolamento imposto dai Peshmerga.
«L’Unhcr [Agenzia Onu per i rifugiati, Ndr] concesse nei mesi successivi un supporto davvero minimo, ma riuscimmo a costruire una scuola. Fu la prima volta, nella nostra vita, in cui potemmo organizzare delle lezioni in curdo”. Nel 1995 la Turchia invase nuovamente l’Iraq settentrionale (allora “no-fly zone” sotto l’ombrello Nato, dopo la guerra all’Iraq del 1991) per combattere il Pkk, e migliaia di nuovi profughi raggiunsero il campo di Bersine. Poche settimane dopo il Pdk circondò il campo e lo attaccò, facendo morti anche tra i civili. Le pressioni di Pdk e Turchia indussero l’Onu a sgomberare il campo e a programmare, nel 1996, la dispersione di tutti i suoi abitanti in zone separate e distanti tra loro. “Eravamo 15.000. In 9.000 rifiutammo. Ci stabilimmo senza copertura legale né protezione umanitaria nella piana di Niniveh, vicino Mosul. La zona era minata, molti morirono lungo il cammino. La Turchia ci bombardava dall’aria, i Peshmerga ci attaccavano da terra. Patimmo molti morti, ma eravamo tanti. È stato un momento difficile”.
Il Pdk tentò di spingere i profughi fuori dai confini del Kurdistan, verso le aree controllate dal governo iracheno, ma le truppe di Saddam Hussein li bloccarono, impedendo lo sconfinamento; finalmente, l’Onu convinse il governo a concedere un insediamento nel 1998, la cui gradevole collocazione fu individuata nel pericoloso e inospitale deserto a sud di Mosul: la zona di Makhmur. Il clima è freddo d’inverno e caldissimo d’estate, e la forte presenza di insetti velenosi e scorpioni causò diffuse malattie, soprattutto infantili, e numerosi casi di cecità tra gli adulti. Il campo, da allora, è in perenne rivolta contro tutto e tutti: profughi ribelli e maledetti, sfuggiti alle persecuzioni turche, arabe e della destra curda, hanno edificato in autonomia, in questi vent’anni, una piccola fortezza rivoluzionaria. “Abbiamo costruito queste case, queste scuole e questo municipio con le nostre stesse mani: nessuno ci ha aiutato. Non siamo supportati né dall’Iraq, né dal Krg né dalle Nazioni Unite. Le nostre nove comuni eleggono il parlamento cittadino e il consiglio comunale che abbiamo creato, nonostante non fosse previsto che ne avessimo uno”.
Dall’agosto 2014 lo stato islamico ha attaccato il campo decine di volte con bombardamenti e incursioni di terra, ma non l’ha mai espugnato. «Siamo il target ideale per tutti i nemici dei curdi» dicono con rabbia e orgoglio. Sui muri si vedono le scritte in arabo del califfato, vergate con lo spray: «Potrebbero tornare in qualsiasi momento». «Abbiamo il Pkk a proteggerci – aggiunge un signore – ma quando Daesh attacca, tutti impugnamo i Kalashnikov e ci difendiamo”. Nessuno, nel mondo, sa di quest’isola ribelle in pieno deserto: “La produzione, il lavoro, la partecipazione politica sono regolate secondo il pensiero di Ocalan. Insorgiamo e ci rivoltiamo ad ogni necessità, per tutto il Kurdistan, siamo pronti ad insorgere in ogni momento, per Kobane come per Cizre, o per i nostri compagni in Iran”. Le donne del campo (la maggioranza) si sono organizzate nella Woman Academy e nella Scuola delle madri, dove apprendono l’un l’altra a scrivere, leggere, crescere i figli e far fronte ad ogni necessità. Sono parte dell’Ishtar, parlamento unito delle donne del Kurdistan. “Noi donne possiamo organizzarci, possiamo divenire autonome e potenti” dice una di loro. “C’è molto più rispetto per le donne qui a Makhmur che da voi in Europa. In Europa c’è solo lo spettacolo delle donne. Qui c’è uguaglianza – e rispetto”.
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Baracche, emigrazione e rancore: i cristiani in Iraq
“Qui gestiamo le cose secondo il ‘Gangman Style’: voi italiani dovreste saperne qualcosa”. Ilyas, una quarantina d’anni e un completo in giacca e cravatta celeste, ci tiene a pavoneggiare la sua pistola e si atteggia a piccolo boss di periferia per le strade disperate di Ankawa, antica città mesopotamica oggi declassata a banlieue di Erbil, capitale del governo regionale curdo (Krg) e meta di quasi tutti i cristiani fuggiti dalle città conquistate dallo stato islamico, tra giugno e agosto 2014. Ilyas ha ottenuto un posto invidiabile nelle istituzioni corrotte del Krg (“Non mi mancano i soldi, nè le armi”) e gestisce anche, ad Ankawa, una piccola attività commerciale. Bassam ha 25 anni ed è uno dei suoi tuttofare. È originario di un ricco quartiere residenziale alla periferia di Falluja, a ovest di Baghdad, dove si trovava nel 2003, quando in quella città scoppiò la prima rivolta contro l’occupazione anglo-americana dell’Iraq; un episodio che lui ricorda in modo diverso da tanti suoi coetanei musulmani.
“Da allora per noi cristiani sono iniziati i problemi. I salafiti [Corrente religiosa che chiede il ritorno al purismo islamico dei primi califfi, Ndr] hanno cominciato a introdurre per tutti il criterio Halal”. «Halal», aggiunge sprezzante Ilyas, non è semplicemente un modo di macellare la carne («Questo è ciò che dicono a voi, nel fottuto occidente»), ma ciò che è consentito e ciò che non lo è, in generale, secondo la legge coranica. Anche i cristiani di Falluja, secondo Al-Qaeda – racconta Bassem – dovevano conformarsi ai dettami del profeta, e le loro donne dovevano coprire i capelli fuori dalla propria abitazione. Bassem e la sua famiglia hanno lasciato per questo Falluja nel 2007, rifugiandosi prima a Baghdad, poi a Mosul: “I conflitti tra sunniti, sciiti e cristiani erano diventati troppo gravi, andarsene era l’unica soluzione”. Da Mosul, dove negli ultimi anni Al-Qaeda aveva, analogamente, commesso omicidi di cristiani, la sua famiglia si è poi trasferita a Karakosh, nella piana di Niniveh (tra Mosul e Erbil), dove i cristiani erano, fino al 2014, la quasi totalità della popolazione.
Nel giugno 2014 decine di migliaia di persone di fede cristiana lasciarono Mosul a causa dell’arrivo dell’Isis e trovarono rifugio per le strade di Karakosh. “Non avevano nulla, non avevano lasciato loro neanche i vestiti. Lo stato islamico li aveva spogliati di tutto prima di lasciarli partire”. Poi, il 6 agosto, sette razzi si abbatterono su Karakosh da Mosul, facendo qualche morto e alcuni danni materiali. “Io ero arruolato nei Peshmerga – dice Bassam – ma i miei superiori diedero l’ordine di evacuare subito la città”. I Peshmerga erano male equipaggiati, o troppo pochi? “Le armi c’erano – risponde – gli uomini pure. Ci doveva essere qualche gioco sporco di mezzo”. Il governo di Erbil decise che non era strategico difendere i cristiani di Karakosh, così come aveva deciso per gli ezidi di Singal appena sei giorni prima? Bassam, come tutti i profughi che abbiamo finora intervistato, si dice incline a pensarlo, ma Ilyas nega. Per sua stessa ammissione, vuole mantenere una posizione più sfumata verso le istituzioni barzaniane, da cui percepisce un lauto stipendio: “Non combatterono perché l’area è desertica, priva di alture, inadatta a uno scontro con un avversario ben armato”.
A lui, più che criticare il governo di Erbil, interessa attaccare la religione musulmana. Una signora velata e la sua bambina si affacciano al suo negozio chiedendo elemosina, ma lui le ignora con disprezzo: “Non vogliamo questa gente ad Ankawa. Che cosa hanno fatto, loro, ai miei fratelli di Mosul? Li hanno spogliati delle loro case e dei loro averi”. Andreus aveva 15 anni quando l’Is ha attaccato Karakosh: “C’è stata l’esplosione di un razzo e siamo andati a vedere. Abbiamo trovato due bambini morti” racconta sorridendo imbarazzato, come avesse visto un film che i genitori gli avrebbero proibito. L’anziano Bashar Yohanna ha una baracchetta sul lato opposto del marciapiede, in cui vende tè ai passanti; ci implora di fotografarla, pensando che ciò possa fargli pubblicità. “Ho capito che sarebbe successo qualcosa quando ho visto la gente che faceva scorte al Bazar. Poi i sacerdoti ci hanno detto che se la chiesa avesse suonato le campane a stormo, tutti avremmo dovuto lasciare la città”. Così accadde il 6 agosto, dopo i primi colpi di mortaio, mentre i miliziani dell’Is raggiungevano Karakosh incolonnati sui loro Toyota.
Bashar non trattiene le lacrime mentre ricorda le migliaia di persone incolonnate a piedi verso Erbil, gli ingorghi di auto, l’arrivo ad Ankawa e le persone accampate «come animali» attorno alla chiesa. Ricorda l’alternativa datagli al check point dai miliziani dell’Isis: avrebbe consegnato loro tutto, “oppure si sarebbero presi le mie quattro figlie”. I profughi sarebbero stati sistemati alcune settimane dopo in dieci campi allestiti ad Ankawa dal Krg, tra cui Ankawa2, dove vivono 5.500 persone, circa 1.200 famiglie stipate in 1.040 prefabbricati. Ibrahim, originario di Bartella, un altro villaggio della piana di Niniveh ora in mano al califfato, si occupa della gestione del campo con solo altre nove persone, per conto di «Pérè Emmanuel», grazie a cui ha studiato dai padri domenicani a Mosul. Ci accompagna in mezzo alla distesa immensa di container identici tra loro ammassati l’uno affianco all’altro, composti ciascuno da due stanze per dormire e un stanzino per i servizi igenici.
La chiesa del campo è stata costruita dagli abitanti addizionando diversi prefabbricati e ponendo sopra essi un tetto a spiovente. La messa viene celebrata in aramaico e tradotta in arabo, e il rito scelto, poiché nel campo maggioritario, è quello siriaco ortodosso; tuttavia, vi partecipano anche cristiani caldei e della chiesa orientale assira. “Nonostante tra noi vi siano persone di confessione orientale, siriaca, caldea e ortodossa, apparteniamo tutti al popolo assiro, e la nostra lingua è l’aramaico, la lingua di Gesù. Parliamo arabo per la strada, con gli arabi e i curdi, ma in famiglia usiamo sempre l’aramaico”. Gli assiri dominavano la Mesopotamia settentrionale nel XXV secolo a.c., con capitale Niniveh. Furono conquistati quasi duemila anni dopo, e divennero gli abitanti sottomessi dell’Assiristan persiano. Dopo la conquista alessandrina subirono l’influenza culturale greca, per divenire popolazione contesa ai confini tra impero romano e persiano, fino alla conquista musulmana, a cui arrivarono già convertiti in massa al cristianesimo.
Mantennero in maggioranza questa religione, ma dovettero pagare una tassa ai califfi, come previsto nel Corano, a causa della loro mancata conversione. Dopo la caduta dell’Impero Ottomano questa discriminazione venne meno in Iraq, ma le conquiste dello stato islamico hanno tentato di riportare la situazione allo stato precedente. In qualità di “emiro”, poco prima di autoproclamarsi califfo, Al-Baghdadi arrivò a Mosul il 6 giugno 2014. “Una settimana dopo, dopo la preghiera del venerdì, dai minareti fu detto che, in ottemperanza al dettato coranico, i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa o affrontare la morte”. Al-Baghdadi chiese una riunione con i vescovi di Mosul per affrontare la questione, ma questi rifiutarono di incontrarlo. Tutti i cristiani partirono il giorno stesso per le città della piana.
Nowel, vecchio dirigente scolastico, era uno di loro. Ci fa sedere sullo spazio davanti al suo container, dove l’intera famiglia si sforza di allestire uno spazio accogliente, offrendoci dell’acqua e del tè. «Le milizie di Daesh, una volta entrate a Mosul, hanno vergato su tutte le case cristiane, in alfabeto arabo, la «N» di «Nazareni» (termine utilizzato dai musulmani, spiega il sindaco di Ankawa, per denotare i cristiani)». Questo segno, dice Nowel, era preludio alla confisca delle abitazioni. «Come potevamo fidarci? Al-Baghdadi aveva annunciato che i cristiani sarebbero stati rispettati, ma appena i suoi miliziani hanno preso il controllo della città i funzionari cristiani hanno smesso di percepire tanto lo stipendio quanto i regolari razionamenti di cibo. Quando se ne sono usciti con la storia della tassa, ce ne siamo andati». Sulla strada per Karakosh la sua famiglia incontrò il check point dello stato islamico dove venne derubata di soldi, oro e fedi matrimoniali; a cento metri di distanza si trovava il check point dei Peshmerga, che li fecero entrare a Karakosh e, dopo che anch’essa fu attaccata, nel Kurdistan.
Bassam dice che non c’erano problemi con i musulmani prima dell’arrivo dell’Isis, ma Ilyas cerca palesemente di storpiare la traduzione, capovolgendo il senso della sua risposta. Nowel afferma che non c’erano mai stati attriti tra comunità cristiana e musulmani, sebbene alcuni gruppi organizzati attaccassero i cristiani di tanto in tanto, ma Ibrahim interviene a correggerlo: «Non è così. In ogni musulmano c’è un grande Daesh: il dettato coranico impone all’umanità intera di riconoscere Mohamed come ultimo profeta». Appare chiaro che i leader della comunità cercano di dare alla contrapposizione che si è creata in Iraq una curvatura religiosa e identitaria, ma la popolazione non sembra percepire spontaneamente questo bisogno. Nowel protesta alle parole di Ibrahim, si mette a urlare: non accetta, benché profugo, di affermare che tutti i musulmani sono uguali, come vorrebbe Ibrahim. La moglie tenta di intervenire, ma nessuno la ascolta; il figlio, Silwan, interviene contro il padre: «Se un musulmano crede davvero, deve agire come Daesh. Soltanto i musulmani meno rigorosi ci rispettano».
«Non è un problema di arabi o curdi, nè di sunniti o sciiti: i musulmani sono così. Quando sono deboli stanno tranquilli, ma appena si sentono forti vogliono imporre a tutti la loro fede» dice Ibrahim mentre ci accompagna all’uscita del campo: «Quelli come Nowel, a Mosul, avevano la grana, lavoravano per lo stato: per questo vogliono far pensare che Daesh sia un fenomeno isolato nella società islamica». Anche lui, come Nowel, concorda nel dire che il presidente del Krg Barzani ama i cristiani e il Kurdistan è oggi ospitale verso di loro. «Le cose, però, possono velocemente cambiare. Ti faccio un esempio: un amico curdo si è rifiutato di stamparmi dei santini l’altro giorno, nonostante fare stampe sia ciò che gli dà da mangiare. Il rifiuto per gli altri ce l’hanno dentro». Dal 2003 a oggi, i cristiani in Iraq sono passati da 1.600.000 a 300.000, di cui l’85% vive ormai nel Kurdistan, spiega Surut Al-Makdici, unico parlamentare Krg dei «Discendenti della Mesopotamia», una delle liste assire in Iraq. «Vogliamo protezione militare internazionale per i cristiani. Non possiamo andare avanti così. L’Europa ci deve aiutare, deve mandare più soldati, più armi».
Papa Francesco doveva visitare Ankawa a ottobre, ma ha rinunciato per motivi di sicurezza: «Ha fatto male» dice Al-Makdici «Dovrebbe sapere che la sua sicurezza non deriva dagli eserciti, ma da Dio». William, giovane attivista vicino al partito, non ha dubbi su chi potrebbe attivare una protezione efficace per i cristiani: «La Russia». Spiega come per lui la questione sia nazionale prima che religiosa: occorre difendere la minoranza assira, tanto in Siria quanto in Iraq. In Siria, spiega, le milizie assire Sotoro sono al momento divise in due fazioni: una, quella originaria, combatte con il Pyd e le Ypg; un’altra, che si è staccata, è fedele al governo siriano. Queste divisioni si ripercuotono qui, alcune centinaia di chilometri più a est, sulle complesse affiliazioni politiche che dividono la comunità di Ankawa, già frammentata, sul piano religioso, da tante diverse tradizioni e riti cristiani. «Gli americani sono venuti qui per prendersi i soldi, e così faranno tutti» dice dal canto suo Ilyas, ostentando cinismo. «Siamo noi, fin dall’antichità, i padroni di questa terra: non i russi, nè gli americani, non i curdi, nè gli arabi» aggiunge in un volo pindarico. «Chiunque manderà dei soldati qui, in ogni caso, non lo farà certo per i miei occhi azzurri».
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Il Pkk in Iraq: “Pronti a combattere l’Isis in tutto il mondo”
Raggiungiamo la città di Makhmur attraverso la strada statale che collega Erbil, nel Kurdistan iracheno, con la provincia di Niniveh, formalmente sotto il controllo del governo di Baghdad. La strada è piena di check-point dell’autorità regionale curda, dove i Peshmerga del Pdk, partito al potere in quest’area, ci fermano svariate volte e ci fanno scendere dall’auto per dei controlli. Giunti a trenta chilometri da Erbil, i Peshmerga non ci sono più. Sulla nostra destra una strada deserta conduce a Mosul, città sotto il controllo dello stato islamico. Laggiù, nel giugno 2014, il leader dell’Isil Al-Baghdadi ha dichiarato il califfato, instaurando sul territorio che da qui si spinge fino a Raqqa, in Siria, lo stato islamico.
Poco oltre, sulla nostra sinistra, la città di Makhmur appare come un’isoletta fantasma in mezzo al deserto, caratterizzata da abitazioni spoglie e prive di vita, abbandonata da molti dei suoi abitanti. Oltre il centro abitato si trova il check-point del Pkk, che ha preso il controllo dell’area da quando – come già avvenuto nella non distante città di Singal – i Peshmerga del Pdk hanno mostrato di non prendere le difese della popolazione civile, quando hanno avuto luogo incursioni e bombardamenti dello stato islamico. Subito oltre il centro abitato si trova il campo profughi di Makhmur, dove vivono migliaia di curdi. È la prima linea tra stato islamico e resto del mondo, dove a fronteggiare direttamente l’Isis sono le donne (Yja-Star) e gli uomini (Hpg) del Pkk.
Dopo un tè di benvenuto con la popolazione del campo, i pick-up delle Hpg vengono a prenderci e ci portano al quartier generale per la protezione del campo profughi, a pochi chilometri dal monte Karacho, a sud, sotto il controllo del Pkk. Il comandante Heval Jamal Andok (in foto più in basso – che si assicura che scriviamo anche “Heval”, in curdo “compagno”) si siede con noi sotto il sole per un’intervista.
Quali sono i principi che ispirano il vostro partito?
Abbiamo un’eredità socialista, che parte da Marx per arrivare a Lenin. Combattiamo per una società socialista. Il socialismo è il nostro primo interesse. L’Unione Sovietica, quale principale esperienza storica socialista, ha tuttavia a suo tempo commesso degli errori. In quell’esperienza l’ideologia è stata controllata dallo stato; non è stata usata per la gente, ma per lo stato. Per questo stiamo cercando di rafforzare questa ideologia cambiandola, perché se vogliamo costruire una società libera dobbiamo progettare un vero socialismo, un socialismo umano, che non sia per lo stato.
Il Pkk è nato per essere il partito dei curdi, ma in realtà altro non è che un movimento umano per una società democratica. Questo è quello che vediamo oggi in Rojava: autonomia e autogoverno, presa in carico dei problemi collettivi, gestione autonoma della società. Il Kurdistan, d’altra parte, è un luogo in cui vivono molte nazionalità diverse; per questo il nostro partito si batte per un sistema in cui le diverse nazionalità possano convivere in modo democratico e rifiuta ogni sistema basato sulla prevalenza o sul dominio di una nazione sulle altre (è il caso, ad esempio, dell’attuale sistema politico turco). Siamo contro l’idea di una nazione che rappresenti una sola identità e una sola storia.
Crediamo sia necessario un movimento mondiale per il socialismo. È necessaria una rivoluzione mondiale. La radice dei problemi non è nazionale né umanitaria, è economica. Dobbiamo vivere bene, una vita bella e felice. La logica dello stato è che esso è necessario, imprescindibile per la convivenza umana, ma questo è falso. Lo stato non può vivere senza la gente, mentre la gente può vivere benissimo senza lo stato. Noi combattenti delle Hpg e delle Yja-Star non siamo soltanto soldati, siamo in primo luogo militanti politici. Il nostro interesse non è uccidere, il nostro desiderio è vivere con gli altri e condurre una vita serena e felice, come afferma il nostro comandante Abdullah Ocalan.
Sappiamo che le Hpg e le Yja-Star stanno affrontando dei combattimenti in Iraq, in primo luogo contro lo stato islamico. Può dirci qualcosa in merito?
Combattiamo Daesh in Rojava, a Singal e a Makhmur. Daesh è un gruppo barbaro e selvaggio, nemico dell’umanità. Decapitano la gente e sono ostili alle donne. Nella nostra ideologia la donna è al primo posto perché è la fonte della vita. Obiettivo reale di Daesh è impadronirsi del petrolio e venderlo ai molti stati – perché sono tanti – che fanno affari con questa organizzazione. Hanno attaccato il campo profughi di Makhmur perché sanno che i profughi di Makhmur sostengono il Pkk. In generale Daesh ha tentato di invadere il Basur [Kurdistan meridionale nel nord dell’Iraq, Ndr] per fare una guerra ai curdi.
Va detto anche che Daesh ha rapporti con la Turchia, per questo attacca Makhmur, che da sempre è stato attaccato dalla Turchia perché i rifugiati che ci vivono provengono dal Bakur [Kurdistan settentrionale nella Turchia sud-orientale, Ndr] e hanno dovuto oltrepassare il confine iracheno perché attaccati dall’esercito turco. Il comportamento della Turchia è questo, in generale. Quando Daesh ha attaccato Kobane, la Turchia lo ha appoggiato. Le Ypg-Ypj, che hanno difeso Kobane, non hanno mai attaccato la Turchia, eppure la Turchia oggi le attacca.
La Turchia non vuole che le Ypg controllino il suo confine con la Siria perché vuole che Daesh continui a controllarne almeno una porzione, in modo che possa ottenere il suo canale di passaggio con il mondo esterno. Anche il governo Assad vuole controllare alcune postazioni. Lice, Cizre, Sur, Nusaybin [città del Bakur sotto attacco da parte del governo turco, Ndr] dimostrano che la Turchia si comporta come Daesh, hanno lo stesso comportamento e la stessa ideologia.
Avete avuto degli scontri con lo stato islamico, qui a Makhmur?
Ne abbiamo avuti diversi. Ad esempio l’8 agosto scorso Daesh ha attaccato il campo. L’area a sud di Mosul, dove si trova Makhmur, è controllata dal Pdk [il partito del presidente del Governo regionale curdo, Massud Barzani, Ndr], ma si sono ritirati e hanno lasciato campo libero a Daesh, non hanno difeso i civili di Makhmur. Lo stato non protegge le persone, e il Pdk fa propria la logica dello stato. Abbiamo evacuato la città e il campo profughi, quindi i nostri distaccamenti sono scesi dal monte Karacho, che potete vedere qui poco più a sud, e abbiamo combattuto Daesh per tre giorni con la collaborazione dell’Upk [Unione Patriottica del Kurdistan, Ndr]. Durante questa battaglia abbiamo avuto tre caduti. Inoltre un giornalista curdo, Denis Firat, è stato ucciso da Daesh sulla montagna.
A causa di queste incursioni da Mosul adesso abbiamo questo presidio fisso delle Hpg e delle Yja-Star qui, nel campo di Makhmur. Daesh può tornare ad attaccare qui in ogni momento, anche adesso potrebbe arrivare; per questo c’è bisogno della nostra presenza. È lo stesso ruolo che svolgiamo a Singal e a Kirkuk. È una decisione del nostro partito quella di dispiegare distaccamenti del Pkk in queste città irachene, altrimenti manterremmo le nostre postazioni soltanto in montagna. Il Pdk ha ampiamente dimostrato di non voler o non essere in grado di difendere i civili, quindi la nostra presenza in alcune città del Kurdistan iracheno è necessaria.
Il Pkk ha combattuto e si trova in prima linea a Kirkuk. Forse presto ci sarà un’operazione per prendere Mosul e il Pkk è pronto a contribuirvi. Mosul è una città molto importante per la storia dell’umanità. Daesh ha distrutto la cultura a Mosul, le sue rovine antichissime. Siamo pronti a combattere Daesh a Mosul. Voglio dirvi una cosa molto importante: noi siamo pronti a combattere Daesh in ogni parte del mondo, non soltanto in Kurdistan.
L’Iraq è stato invaso, nel 2003, dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e successivamente occupato da questi stati (cui se ne aggiunsero altri, tra cui Italia, Polonia, ecc.). Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia hanno ancora dei soldati di stanza a Erbil. Qual è la posizione del Pkk nei confronti degli eserciti stranieri che operano in Iraq?
La nostra linea politica è di non prendere le parti di nessuno stato, mai. Soltanto se uno stato ci attacca siamo costretti a difenderci, e allora ci troviamo in guerra con quello stato. Quando questi stati invaderanno il nostro Kurdistan, li combatteremo. Sono stati capitalisti. Nel 2003 [quando il Pkk già aveva in Iraq il suo quartier generale, sul monte Qandil, Ndr] non avevamo alcun rapporto o contatto con gli Stati Uniti e il Regno Unito. Tra noi e loro esistono differenze ideologiche: sono stati capitalisti. Quando, però, c’è un problema di vite umane da salvare, come oggi contro Daesh, possiamo mettere in piedi con queste forze una forma di coordinamento tattico.
Quale pensate che sia il ruolo delle potenze occidentali in medio oriente?
Il sistema capitalista è in crisi, per questo cercano di risolvere i loro problemi qui in medio oriente, cercando di cambiare i governi e i confini secondo i loro interessi, dividendo le persone. Queste potenze ragionano secondo l’ideologia dello stato-nazione, questa è la ragione della loro presenza qui. Usa, Francia, Gran Bretagna e altri sono oggi in medio oriente perché vogliono il petrolio. Questa è la terza guerra mondiale.
Anche molte organizzazioni o Ong vengono qui, come gli stati, dicendo che devono salvare l’umanità, ma in realtà sono qui per portare avanti i loro interessi nazionali. Lo stesso vale per le Nazioni Unite: dicono di proteggere le persone, ma cosa stanno facendo a Sur, a Cizre, per proteggere i curdi che vengono in queste ore massacrati dal governo turco? Nulla. È tutto un fatto di interessi economici, è per questo che hanno arrestato la nostra leadership. Solo interessi economici, nessuna umanità. È per i propri interessi che la Germania e l’Italia hanno contribuito all’arresto di Abdullah Ocalan diciassette anni fa.
Di recente, decine di soldati turchi sono morti in Turchia, molti dei quali in due separati attacchi esplosivi, uno nei pressi di Lice [rivendicato dal Pkk, Ndr], nella provincia di Diyarbakir e uno ad Ankara, nella capitale della Turchia. Sappiamo che il Pkk non è coinvolto nell’attacco di Ankara del 17 febbraio, che è stato rivendicato dai Tak (Falchi Curdi per la Libertà). Qual è la vostra posizione rispetto a queste azioni?
Questi attacchi sono il risultato della crudeltà del governo turco, che ha ucciso centinaia di persone e distrutto i quartieri di intere città. I curdi non possono stare a guardare, hanno provato a rispondere a questo attacco, in cui addirittura i corpi dei civili morti vengono bruciati dalle forze speciali turche, che incendiano anche le loro case. Esiste il diritto del popolo curdo a rispondere a tutto questo. I curdi devono proteggersi combattendo Daesh come tutti gli altri loro nemici.
Esistono molte organizzazioni per la liberazione del Kurdistan, ad esempio esistono anche i Tak. Non esiste relazione militare tra il Pkk e i Tak. Ciò che ci accomuna è semplicemente il fatto di essere curdi. Ci sono anche molti altri gruppi che agiscono per il Kurdistan. Tanto i Tak quanto il Pkk attaccano soltanto obiettivi militari in Turchia, non i civili (come invece sta facendo il governo turco). I Tak hanno diritto di proteggere i curdi. Il Pkk ha diritto di proteggere i curdi. Il Pdk, l’Upk, Goran [partito d’opposizione nel Kurdistan iracheno, Ndr] hanno diritto di difendere i curdi.
In questo momento, in Palestina, una nuova Intifadah deve far fronte a svariate forme di attacco da parte dell’esercito israeliano. Qual è il messaggio del Pkk ai palestinesi, in questo momento difficile?
Il Pkk non è soltanto un partito curdo, si concepisce come universale, non vuole combattere soltanto per i curdi, ma per chiunque. La rivoluzione palestinese è nel nostro cuore, l’abbiamo sempre appoggiata e sempre lo faremo. La nostra lotta è la stessa, il nostro nemico è lo stesso. Sono nel nostro cuore.
Quale messaggio volete mandare al mondo dal deserto dell’Iraq?
L’ammirazione per il Pkk è in tutto il mondo e non ha confini, perché la nostra pratica è la stessa che troviamo ovunque in questo pianeta: cercare un vita e una società migliori. Non è facile essere guerriglieri nelle Hpg e nelle Yja-Star: bisogna cambiare vita. Imbracciamo i fucili perchè dobbiamo proteggerci. In tanti ci dicono: “Abbandonate la lotta armata, riponete le armi”. Non possiamo: abbiamo bisogno delle armi; perché questa è la realtà del Pkk: quel che diciamo, facciamo.
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Singal, Iraq: il Pkk nella città fantasma
Singal era una città di 500.000 abitanti nel nord dell’Iraq, abitata prevalentemente dalla comunità ezida, una popolazione di lingua curda che professa una religione diversa da ebraismo, cristianesimo e islam e affonda le sue radici nell’antica cultura zoroastriana. Oggi è disabitata e almeno per metà un cumulo di macerie, ed è attarversata soltanto dalle diverse foze armate che ne contendono il controllo: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da un lato, assieme alle Ybs (unità autonome ezide), e i Peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), forza di destra e conservatrice, dall’altro. I due movimenti politici, da sempre avversi politicamente nella storia del Kurdistan (l’uno votato alla trasformazione comunistica dei rapporti sociali, l’altro alla protezione della società tradizionale clanica in un orizzonte capitalista), trovano in questa città il loro punto più teso di confronto politico.
Singal è stata invasa dallo stato islamico il 3 agosto 2014. I Peshmerga del Pdk hanno abbandonato la cittadinanza al suo destino senza combattere, ritirandosi prima ancora che miliziani raggiungessero il centro abitato. Gran parte della popolazione è stata ammassata in fosse comuni e trucidata, o assassinata per le strade mentre cercava di fuggire. Migliaia di donne e minori sono stati ridotti in schiavitù e/o deportati, e sottoposti ai peggiori abusi fisici e psicologici. Migliaia sono state le persone che hanno preso la via dei monti a nord della città, ostacolati dai Peshmerga (per ragioni tuttora non chiare) e protetti da poche decine di guerriglieri del Pkk scesi dalle montagne, dove non pochi sfollati hanno trovato la morte per la fame e gli stenti. Anche le Ypg siriane hanno dato il loro contributo, aprendo un corridoio verso il confine con il Rojava. Oggi decine di migliaia di ezidi vivono in campi profughi allestiti in Turchia e nel Kurdistan iracheno. Ancora attendono inutilmente di tornare nelle loro case, e in molti hanno scelto la via dell’emigrazione clandestina verso l’Europa, attraverso il mare che separa la Turchia dalla Grecia.
A partire dall’autunno 2014 il Pkk ha cominciato ad inquadrare e addestrare migliaia di profughi ezidi nelle unità per la difesa di Singal, le Ybs (da non confondere con le Yps, unità curde che difendono le città del Kurdistan in Turchia, e con le Ypg, che difendono il Rojava). Il Pkk e le Ybs hanno quindi iniziato una lunga guerra riconquistando i villaggi sulle montagne e spigendosi verso il centro abitato, dove hanno preso possesso prima di alcuni edifici, poi di alcuni quartieri. Nel frattempo in città le prigioniere e i prigionieri ezidi spesso riuscivano a sottrarsi al controllo dell’Is fuggendo a piccoli gruppi verso la montagna. A fine ottobre 2015 è stato lanciato l’attacco finale per liberare Singal, ma Pkk e Ybs sono state bloccate lungo la strada che scende dalle montagne dai Peshmerga del Pdk, le cui forze erano state nel frattempo ricostituite con volontari ezidi, sempre dipendenti dal governo di Erbil. La ragione di questo atto fu che il Pdk, alleato del presidente turco Erdogan, non voleva che Singal fosse liberata prima delle elezioni turche del 2 novembre, ciò che avrebbe potuto provocare un maggior successo dell’Hdp, importante partito turco vicino al Pkk.
Dopo il 2 novembre, gli Stati Uniti (grande burattinaio del presidente del Krg e del Pdk Barzani) hanno dato l’ok per l’offensiva dei Peshmerga da nord, che sono giunti nella città già controllata in parte da Pkk e Ybs (contrariamente ad alcune ricostruzioni, le Ypg del Rojava non hanno mai partecipato ai combattimenti per la riconquista di Singal, ma hanno svolto soltanto un ruolo di protezione umanitaria per i profughi nell’agosto 2014). Gli Stati Uniti hanno bombardato la città contribuendo a provocare la ritirata verso Tel Afar dei miliziani superstiti dello stato islamico. Il 13 novembre 2015 le bandiere del Pkk e delle Ybs hanno cominciato a sventolare su alcuni edifici prima controllati dall’Is, quelle del Pdk su altri. Il presidente Barzani ha dichiarato, dopo pochi giorni, che il Pkk e le Ybs erano “forze di occupazione” a Singal, pretendendone un ritiro che non è avvenuto. Da allora tra guerriglia e Peshmerga c’è una tesa convivenza a pochi metri di distanza, con il Pkk/Ybs che controlla il nord della città distrutta e disabitata, il Pdk che controlla il sud. Permane la presenza simbolica di alcune decine di poliziotti e soldati del governo di Baghdad, in parte ezidi. Il territorio montuoso a nord di Singal è in gran parte controllato da Pkk e Ybs, mentre le principali comunicazioni stradali con il nord del Kurdistan iracheno sono controllate da check-point dei Peshmerga.
Il parlamento del gopverno regionale del Kurdistan iracheno (Krg) ha chiesto la formazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Singal nell’agosto 2014, che è stata negata dalla presidenza del Kurdistan e dal governo. I media mainstream internazionali hanno mentito fin dal primo giorno, e continuano a mentire oggi, sulla situazione a Singal, per proteggere l’immagine internazionale del presidente Barzani, grande petroliere alleato di Europa e Stati Uniti. Radio Onda d’Urto e Infoaut intendono con questo e altri reportage contribuire a un’informazione autonoma su uno degli eventi più tragici della storia recente.
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Le prigioniere sfuggite a Daesh: «Nessuna tortura ci è stata risparmiata»
Nel campo profughi di Duhok vivono 4250 persone, 700 famiglie stipate in 900 container. Qualcuno del posto la definisce “una piccola Iraq”: all’interno del campo, infatti, vivono musulmani, cristiani, turcomanni e ezidi.
(la foto, del campo profughi di Duhok, è tratta dal web)
Dopo aver visitato il campo incontriamo diverse famiglie di ezidi che vivevano a Singal, ad oggi non più sotto il controllo dello stato islamico.
La stanza in cui sedevamo per terra, sopra grandi cuscini colorati, lentamente si svuota e nella saletta rimaniamo in pochi: io, tre donne, il medico che traduceva e una bambina.
Queste tre donne sono state per sei mesi torturate e violentata dall’Isis. Iniziamo chiedendo di raccontare la loro storia, così dopo un po’ di silenzio una delle signore, la più anziana, prende parola: “Una volta catturate ci hanno diviso uomini e donne, degli uomini non abbiamo più saputo nulla. Arrivate in questa prigione ci hanno nuovamente divise in tre gruppi: giovani, nubili e anziane”. Una volta divise, spiega, venivano smistate nelle varie stanze e lì iniziavano le prime torture psicologiche, intente a terrorizzarle ed umiliarle. Le bambine sopra i dieci anni venivano separate dalle madri e messe in stanze singole dove venivano violentate ripetutamente. La donna che siede accanto alla signora più adulta ci guarda e con un mezzo sorriso ci dice che in questi sei mesi gli uomini dello stato islamico hanno fatto di tutto, nessuna umiliazione o violenza è stata risparmiata. Durante la detenzione spesso gli uomini di daesh arrivavano nelle stanze, puntavano le loro pistole nelle teste delle donne e le minacciavano di morte “Ora ti ammazziamo!” gridavano con la pistola piantata nella testa delle prigioniere e poi iniziavano a ridere. Quasi nessuna donna è mai stata uccisa, i loro corpi servivano vivi. L’intervista assume una forma molto narrativa in cui le donne raccontano quello che hanno vissuto in sprazzi di ricordi.
La signora più adulta racconta che nella stanza a fianco la sua c’era una bambina di dodici anni, ogni mattina per sei mesi gli uomini di daesh sono entrati e l’hanno violentata fino alla sfinimento, fino a farle perdere la forza anche di urlare.
Prende parola poi la signora che in braccio ha sua figlia e ci dice “Ogni giorno speravamo di morire pur di non stare lì, speravamo nell’arrivo della morte per smettere quest’atroce sofferenza”. Lei ha provato a fuggire due volte, la prima volta è scappata una notte quando gli uomini di daesh erano occupati fuori dalla città, racconta d’aver sbagliato strada e di aver camminato per ore a vuoto. Dopo giorni di cammino, racconta di aver attraversato villaggi vuoti, di essere entrata nelle case per procurarsi del cibo ed infine di aver incontrato degli uomini che dicevano di essere musulmani. Questi uomini l’hanno ospitata in casa, le hanno offerto del cibo e delle bevande mentre le facevano raccontare quello che aveva subito. Questi hanno poi avvertito gli uomini di daesh che arrivati in quella casa l’hanno presa e riportata in prigione. La seconda volta invece è riuscita a scappare e dopo ore di cammino ha incontrato degli ezidi che l’hanno soccorsa e sono tornati indietro a prendere le altre donne.
Raccontano come spesso alle madri veniva proposta la libertà, dicevano loro “Puoi scegliere: ti liberiamo subito ma tua figlia resta qui”. Come se questa possa essere considerata una scelta.
Gli uomini dello stato islamico avevano una lista con tutte le donne tenute prigioniere, questa lista conteneva il nome, il cognome, l’età e il credo religioso della detenuta. Una di loro mi dice “Non volevamo più lavarci né guardarci allo specchio. Non volevamo essere belle perché le più belle erano le più torturate”.
Ancora oggi non dormono bene, raccontano infatti come quello che è successo in quei mesi non potrà mai essere dimenticato.
Il fenomeno dell’Isis, fatto da fanatici fondamentalisti che le potenze occidentali supportano e utilizzano per giustificare la loro presenza in Medio Oriente, ha lasciato in queste terre segni che difficilmente potranno essere cancellati.
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Stato Islamico: quale verità? Voci di profughi in Iraq
“Se non ci fosse consenso per Daesh, Daesh non esisterebbe” dice un compagno curdo nel nord dell’Iraq. “Perchè la gente di Mosul non si ribella, non insorge? Perchè a molti di loro va più che bene”. Facciamo notare che in Siria molti combattenti di Daesh provengono dall’estero: Uzbekistan, Kazachstan, Cecenia. “Ci sono, ma non sono la maggioranza; la maggioranza sono siriani”. Difficile immaginare, d’altra parte, una forza composta da alcune migliaia di militanti, per quanto violenti e bene armati, che possa controllare una città come Mosul in Iraq, con oltre un milione di persone, se fosse da tutti, indistintamente, malvoluta. La verità è che otto anni di terribile occupazione angloamericana (e italiana), succeduta dal potere dispotico di un governo corrotto e predatorio installato a Baghdad, hanno prodotto uno stato di disperazione tale, nelle province sunnite settentrionali di Al-Anbar e Niniveh, da far apparire, a gran parte della popolazione, le milizie di Al-Baghdadi il male minore.
I racconti dei sopravvissuti all’arrivo dell’Is, ormai profughi in altre città dell’Iraq, delineano un quadro ambiguo, dove il califfato appare anche un “mostro provvidenziale” per le potenze regionali e internazionali. Fallito il brutale tentativo americano di addomesticamento degli iracheni, il paese è finito nelle mani di un partito, Al-Dawa (sciita), vicino all’Iran. La secessione sostanziale del Kurdistan del presidente Barzani, che dal 2014 ha cacciato (anche a costo di scontri armati) l’esercito di Baghdad dai suoi territori, ha rappresentato un contrappeso favorevole agli interessi opposti all’Iran: Turchia e Arabia Saudita a livello regionale, Stati Uniti ed Europa a livello globale; e che le province arabe di Anbar e Niniveh diventassero sostanziale terra di nessuno, e guadagnassero autonomia di fatto dal governo centrale, non è stato stato visto come un fatto di per sé negativo. Di questa sorta di non belligeranza politica tra Is e Occidente, secondo una strana logica di “drole de guerre”, quasi tutti i profughi fuggiti dal califfato sembrano convinti.
“Avevamo le armi per combattere e i Peshmerga curdi erano presenti in forze nel nostro villaggio; ma si sono ritirati, e ci hanno detto di fare altrettanto” racconta Hussein, un medico ezida nel campo profughi di Dawodya, provincia di Duhok (Kurdistan iracheno settentrionale). Con i suoi 4.205 profughi, tutti provenienti dall’Iraq, i suoi 99 prefabbricati e le sue 621 famiglie ezide, arabe, curde e torcomanne, il campo è, di fatto, un Iraq in miniatura. Diviso in “quartieri” secondo affinità linguistiche o religiose, che travalicano ampiamente nel sociale e nel personale, è comunque – dicono i suoi amministratori, che esibiscono dietro ogni scrivania il ritratto del presidente Barzani – “una piccola isola di pacifica convivenza e rispetto reciproco”. “Ho cercato di fuggire a nord, ma i Peshmerga mi hanno fermato a un posto di blocco” continua Hussein. “Eravamo migliaia. Solo dopo alcune ore, mentre i miliziani di Daesh sparavano sulla folla e ci inseguivano per tutta la zona, i Peshmerga sono fuggiti e siamo potuti fuggire anche noi”.
Le scene raccontate dai fuggiaschi a Dawodya o a Erbil sono le stesse che riferiscono quelli di Batman, nel Kurdistan turco, o i cristiani fuggiti da Karakosh e Mosul, oggi riparati ad Ainkawa: né l’esercito iracheno, né i Peshmerga del Pdk hanno affrontato Daesh. Un profugo di Makhmur scoppia a ridere quando gli rivolgiamo questa domanda: “Daesh non combatte mai quando entra nelle città: entra in centri ormai disertati dalle forze rivali, e combatte solo quando viene attaccato”. Popolazioni stremate, strati proletari pronti a sottomettersi a qualunque gang pur di sopravvivere, gente oppressa da decenni, che non aspetta altro che l’amministrazione della vita torni ai consigli della sharia che da secoli gestiscono le controversie nelle loro città: è lo sfondo sociale su cui si è inserito in questi due anni lo stato islamico con i suoi convogli di pick up incolonnati sulle autostrade, contro cui molti arabi sunniti, al di là delle opinioni politiche, hanno ritenuto di non aver voglia, motivo o possibilità di combattere.
Majid è arabo sunnita, ma viene da Singal, città a maggioranza ezida. Non ha ritenuto di dover restare e appoggiare i nuovi invasori. “Avevamo visto in TV quel che avevano fatto nelle altre città: uccidevano i soldati e i poliziotti, e mio fratello è poliziotto. Inoltre avevamo parenti a Qamishlo [in Siria, Ndr] che ci avevano detto per telefono: arriveranno e diranno di non voler fare del male a nessuno, poi inzieranno a uccidere poliziotti e soldati”. Sahid è torcomanno, di Mosul. Quando gli chiediamo la sua confessione religiosa, si spaventa: siamo tutti uguali, dice preso da una specie di panico: sunniti o sciiti, non fa alcuna differenza. Come quasi tutti i turcomanni di Mosul, è sciita: una fede che verrebbe rispettata da Baghdad in giù, ma che nel nord dell’Iraq può creare solo problemi. “Quando i quartieri ovest di Mosul sono stati occupati da Daesh abbiamo deciso di andarcene. Ci avrebbero ucciso tutti per la nostra religione” confessa.
Giura che il governo di Mosul, prima dell’arrivo di Daesh, era ottimo, che non c’era alcun problema. Nei quartieri ovest in cui viveva, spiega un altro uomo – padre di famiglia arabo ma cristiano – stava anche la gente più facoltosa, tra cui molti cristiani e curdi. Il lato est, oltre il Tigri, è la parte della città dove vivono le masse diseredate arabe musulmane, ci dice: lì, nei primi giorni, l’Isis ha imposto il suo potere, per poi giungere sull’altro lato, dove la gente è fuggita all’impazzata. Nonostante la rapidità della conquista della città, sarebbe sbagliato pensare che il potere salafita sia giunto dal nulla: “Io non andavo più a Mosul dal 2004, nonostante a volte ne avessi bisogno per ottenere dei documenti” racconta Hussein; “Ben prima di Daesh i salafiti erano pronti ad aggredirci o ucciderci se solo ci vedevano per strada. Perchè avrei dovuto andare in un posto così?”; e i cristiani di Ainkawa, per la maggior parte assiri, raccontano delle tasse che i salafiti pretendavano dalle famiglie non musulmane ben prima dell’invasione dell’Isis.
“Non c’era Daesh, ma c’era Al-Qaeda [che già aveva preso il nome “Stato islamico in Iraq”, Ndr]. Hanno sempre assassinato cristiani a Mosul, ma non credere che con gli sciiti vada meglio: alcuni di loro hanno ucciso un cristiano a Baghdad, l’altro giorno, perché vendeva delle birre”. Jabal è ezida, ha una buona istruzione e insegna nel campo dal mattino alla sera tutti i giorni, per 140 dollari al mese; implora una raccomandazione per lavorare come traduttore presso i giornalisti occidentali. Tutti gli danno ragione quando dice che le minoranze, in Iraq, avrebbero bisogno di protezione internazionale: “Basterebbero dieci soldati dall’Europa per proteggere Singal” dice un uomo turcomanno dall’altro lato del prefabbricato in cui siamo seduti, evidenziando il carattere mitico che qui, nel bene o nel male, assume l’immagine della forza militare straniera.
La richiesta di forze straniere va di pari passo con la protesta ingenua per il loro comportamento: “Ho visto con i miei occhi un aereo Usa sorvolare un convoglio di Daesh e aspettare che tutti i miliziani fossero in salvo prima di colpire il furgone vuoto” afferma il Mukhtar ezida del campo. Hussein gli fa eco: “Per sette giorni Daesh ha massacrato, stuprato e terrorizzato a Singal e dintorni. Soltanto dopo gli americani hanno iniziato a bombardare”. Racconta la fuga sulle montagne, la morte di un suo anziano conoscente per fame: era rimasto nascosto nella sua casa, in un villaggio abbandonato, e nessuno l’aveva visto, ma tutto attorno c’erano soltanto miliziani. “L’occidente è potente, può controllare il mondo: perché non può sconfiggere Daesh?” chiede furente un signore torcomanno, concludendo con la tipica frase: “Fanno tutto per il petrolio”. Un ragazzo sui vent’anni interviene: “Non dovete chiederci queste cose, i rapporti tra Daesh e l’America. Siamo gente senza educazione, non possiamo comprendere la politica. Io ho dovuto lasciare Mosul, è due anni che non vado a scuola”.
Chi ricostruirà la verità, le responsabilità personali e politiche, gli eventi e il contesto? I testimoni appaiono traumatizzati e impauriti, regolarmente preoccupati che le loro risposte possano innescare processi o conseguenze che non riescono a controllare. Da un lato, hanno timore a raccontare le loro storie; dall’altro, vorrebbero che esse provocassero come per magia benefici evidenti e immediati, e per questo non di rado sembrano soltanto in parte sinceri, come fossero impegnati ad aggiungere o sottrarre particolari che ritengono rilevanti, al fine di produrre a loro volta una narrazione senza chiaroscuri, dove tutto dev’essere semplice e coerente su dove sta il bene e dove sta il male. Testimonianze già raccolte dalle Ong occidentali, dal governo curdo, dalle Nazioni Unite e che ciononostante, in questa forma schietta, non hanno mai raggiunto le pagine dei nostri quotidiani: le popolazioni dell’Occidente devono a loro volta restare all’oscuro, percepire l’Iraq come un mondo incomprensibile da cui emerge soltanto una barbarie incontrollata, che può giustificare imperscrutabili tempistiche di guerra.
Le testimonianze di questi profughi raccolte dai poteri locali e internazionali, con mezzi ben più potenti e capillari di qualsiasi organo d’informazione indipendente, saranno filtrate da molteplici interessi e dalle coscienze sporche di centinaia di istituzioni, prima di finire sul tavolo di qualche ricercatore isolato e lontano, magari a sua volta preoccupato – come spesso accade – di non urtare questa fazione o quel governo. Con il tempo, l’inquinamento dei fatti e la loro organizzazione storico-concettuale, funzionale a questa o a quella narrazione della storia, prevarrà. La verità sulle conquiste dello stato islamico rimarrà per lo più sepolta nei giorni caotici dell’estate 2014, in cui tanto i politici di Baghdad quanto quelli di Erbil decisero di lasciare migliaia di città e villaggi al loro destino – con gli Stati Uniti a sorvolare dall’alto, senza intervenire. Fu geopolitica, calcolo cinico e assestamento di interessi regionali, o autentica insurrezione islamista, secessione di un pezzo di terra secondo la legge del corano e di Dio?
Appare chiaro – né sussiste contraddizione – che fu entrambe le cose; e a farne le spese furono queste persone, obbligate a vivere in tende o baracche con cinquanta o con meno dieci gradi, vittime dei razionamenti alimentari, delle paludi di fango e del vuoto di giornate vissute negli spazi aperti di cieli e montagne che paiono loro, tuttavia, prigioni. Sono tutti, senza quasi eccezione, impazienti di prendere una qualsiasi barca per l’Europa, una qualsiasi via lontano da qui; e non ritengono rilevante che forse moriranno nell’Egeo, saranno picchiati sotto il filo spinato macedone o stipati in gabbie dai poliziotti francesi a Calais. Questa storia se la vogliono lasciare alle spalle a tutti i costi, e a loro poco cambierà che cosa, un giorno, scriveranno gli storici. “Soltanto il Pkk ci ha aiutati, quando scappammo da Singal” dice Hussein. Jamal parla sottovoce, mentre passiamo in una via stretta tra due caravan: “Vorrei che a Singal governassero le Ypg”. Lo dice con aria circospetta, temendo che qualcuno del personale del campo lo possa sentire: “Sono gli unici che aiutano le persone per il solo fatto che sono persone”.
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Un migrante siriano: “Avevamo iniziato noi la rivoluzione”
Turchia e Unione Europea hanno appena siglato l’accordo sul blocco dell’emigrazione clandestina verso l’Europa, che darà il via anche a migliaia di rimpatrii forzati. Nelle settimane scorse migliaia di migranti hanno continuato a raggiungere le coste europee dal medio oriente. Non di rado si tratta di migranti siriani, per lo più musulmani (anche se non solo). Il ritratto di queste persone varia dalla rappresentazione pietistica del “profugo” che scampa al massacro e perciò potrebbe essere accolto, a quella cinica che vede in esso un lavoratore in cerca di salario, che quindi deve essere respinto, fino a quella che vede i migranti musulmani come barbari che distruggeranno la “nostra” civiltà. Come sempre accade, però, la realtà è più complessa di tutte queste semplificazioni.
Abbiamo intervistato uno di loro, uno che, come molti, ha lasciato la Siria a causa della guerra, e si trova in uno dei paesi “di transito”: nel suo caso è il Kurdistan iracheno, come altri sono inizialmente in Turchia, o in Libano. Come tanti migranti che sono ancora in medio oriente ha un titolo di studio, problemi di lavoro e di permesso di soggiorno. Rivendica la sua partecipazione ai processi politici che hanno innescato l’attuale crisi regionale, ed è consapevole dei rischi che corre chi decide di partire per l’altra sponda del mediterraneo, ma è pronto a correrli. Una vicenda come migliaia di altre, diversa da ciascuna delle altre, ma che può contribuire a restituire uno spicchio di concretezza all’umanità che si mette in viaggio da oriente a occidente, all’altezza del 2016.
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Tu sei siriano, ma vivi a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nato e cresciuto a Damasco in una famiglia di origine palestinese, anche se della vicenda palestinese non so molto, è un legame che la mia famiglia ha perso con il tempo. Sono arrivato a Erbil due anni fa per giocare in una squadra di calcio locale. Il calcio è la mia passione e la mia professione, anche in Siria ero calciatore. Francesco Totti è uno dei miei idoli. Ho cercato di farmi comprare da una squadra irachena per evitare il servizio militare in Siria, a causa della guerra. Se sei studente universitario, in Siria puoi chiedere il rinvio. Io ero studente in ingegneria alimentare e atleta universitario, quindi ho potuto chiedere il rinvio, ma quando ho finito l’Università non era più possibile.
Come ti sei trovato in Iraq?
Insomma… La squadra di calcio per cui giocavo mi pagava pochissimo, ben sapendo che avevo bisogno del contratto per rinnovare il permesso di soggiorno, e che per me l’obbligo di ritornare in patria avrebbe significato combattere. Dopo un anno e mezzo, il mio contratto non è stato rinnovato e mi sono ritrovato disoccupato. Per me è stato un duro colpo, in primo luogo perché per me lo sport è tutto, mi basta stare una settimana senza giocare e vado fuori di testa; in secondo luogo perché entro pochi giorni mi vedevo già a combattere in una guerra in cui non credo.
Perché non ci credi?
Non ha più niente a che fare con il modo in cui era iniziato. Un evento così grande, in cui ora sono coinvolte molte fazioni siriane e stati mondiali, era iniziato da un evento molto piccolo. Cinque anni fa, in Siria, era tutto tranquillo. Unica cosa: accadevano tumulti in Tunisia e in Egitto, e da noi si sapeva. Era il 2011. Un giorno, tre ragazzini di una scuola di Dera, una scuola media superiore, hanno scritto sulla lavagna a mo’ di sfregio, durante un cambio d’ora: “Non ci piace il presidente”. I professori sono andati su tutte le furie per questo episodio, che come vedete era davvero ridicolo, una cazzata.
Hanno chiamato la polizia, che ha portato i tre ragazzi in prigione e li ha torturati: hanno strappato loro le unghie dalle mani! I genitori di questi ragazzi erano sconvolti e si sono recati sia a scuola, sia alla polizia per chiedere scusa, per dire che non sarebbe successo mai più, ma che li lasciassero liberi. Sapete qual è stata la risposta? Andate a fare altri figli, perché questi non li rivedrete più.
Queste persone, le famiglie dei ragazzi, erano persone molto chiuse, molto tradizionali. Hanno fatto un gesto che per loro era estremamente difficile: si sono tolti le kefiah dal capo e le hanno posate sulla scrivania dell’ufficiale di polizia. Per loro, nella loro mentalità, era il segno massimo di prostrazione verso l’autorità, un’umiliazione completa, la sottomissione senza compromessi alla polizia. Hanno ripetuto, dopo questo gesto: “Vi preghiamo, rilasciate i nostri figli. Vi chiediamo perdono per ciò che hanno fatto, e vi giuriamo che non succederà più”. La risposta è stata nuovamente: fate nuovi figli, perché questi non li rivedrete.
La storia è girata su facebook e duecento persone vicine alle famiglie si sono radunate sotto la stazione di polizia, per chiedere la liberazioni dei ragazzi. Un manifestante è stato ucciso dalla polizia. Per questo fatto, il giorno dopo erano mille e la protesta si era estesa a Homs, dove ne hanno uccisi due. La situazione era ancora recuperabile per il governo. Sarebbe bastato destituire il capo della polizia di Dera, come chiedeva la gente, ma non lo fecero perché aveva un grado di parentela molto stretto con il presidente Assad. Così si giunse a 500.000 persone in piazza. A quel punto Assad, che è un uomo davvero furbo, ha creato Daesh, in modo da poter dire: ecco, vedete, l’opposizione in Siria è Daesh. Ma non era vero, le cose erano andate come vi ho detto.
Tu hai partecipato alle manifestazioni?
Sono sceso in piazza anch’io quando la polizia ha ucciso un mio amico. Non esiste che un giorno c’è un tuo amico e il giorno dopo non c’è più, senza alcun motivo. C’erano manifestazioni enormi, cose di massa. Poi ho visto che cominciavano a spuntare gruppi armati… Me ne sono subito allontanato, non era una cosa che faceva per me.
Pensi che ci siano state anche cause più profonde dell’episodio dei tre ragazzi?
Forse c’era qualcosa più grande di noi, e noi non lo sappiamo; ma per come lo abbiamo vissuto noi, è stato molto semplice, il governo aveva esagerato. La Siria, per me, era veramente un paese felice. Stavamo bene, avevamo gratis le migliori università del medio oriente, assistenza sanitaria efficiente e gratuita, prezzi molto bassi, qualità ottima del cibo. Non era come qui in Iraq, dove ogni momento salta la corrente e dai rubinetti non arriva acqua potabile. Dai nostri rubinetti arrivava acqua fresca di qualità ancora superiore a quella imbottigliata.
Avevamo una buona produzione industriale, in tutto il medio oriente si compravano i vestiti prodotti ad Aleppo. L’unica cosa, e lo sapevano tutti, era che nessuno doveva toccare il presidente. Era come un patto prestabilito tra Assad e il popolo: i siriani stavano bene e non erano toccati né dai problemi del Libano o della Palestina, né dalle guerre che hanno devastato l’Iraq; in compenso, però, dovevano sapere che la poltrona di presidente era sua e basta. I fatti di Dera hanno rotto questo equilibrio, perché le famiglie dei ragazzi avevano chiesto scusa, si erano umiliate di fronte alla polizia, eppure erano state trattate con disprezzo.
Tutte queste fazioni che sono sorte? Il coinvolgimento internazionale?
Questo è venuto dopo. Come dicevo, noi non possiamo sapere, né possiamo escludere, che gli americani abbiano iniziato a dare armi, che si siano introdotti interessi stranieri nella nostra rivolta. Ma è stato un passaggio successivo alla nostra mobilitazione, almeno per come lo vedo io. Oggi ciò che è rimasto è una guerra che spero finisca il prima possibile, perché sta soltanto distruggendo la Siria. Appena finirà, tornerò nel mio paese, perché è un paese bellissimo.
Ora, però, sei qui in Iraq, e sei mesi fa hai perso il lavoro.
Sì, e questo ha provocato in me una dura crisi esistenziale. Avevo deciso che, piuttosto che combattere in Siria, sarei andato in Europa clandestinamente, attraverso la Turchia e la Grecia. Mi sono trovato senza punti di riferimento, in una situazione oscura, ho cominciato a farmi molte domande sul senso della vita. Ho comprato dei libri di filosofia pensando questo mi potesse aiutare, ma è stato ancora peggio.
In che senso?
E’ stata un’esperienza così brutta che ho difficoltà persino a parlarne, ne ho ancora paura adesso. Per tre mesi ho letto Aristotele e altri filosofi e ho cominciato a prendere in considerazione l’idea che Dio non esistesse: per me la vita stava perdendo completamente di senso. Se Dio non esiste, non c’è una spiegazione al mondo. Ho letto di varie teorie filosofiche ma non offrono mai delle prove, ad esempio si limitano a dire “il mondo è iniziato con il big bang”, ma non spiegano che cosa ha causato il big bang. Al tempo stesso provocano dei dubbi circa la religione che mi hanno fatto stare veramente male. Immagina che significa crescere dando per scontato che il senso del mondo è nella parola di Dio, che esistono il bene e il male, che c’è un’altra vita dopo questa e che la morte non è la fine di tutto – e improvvisamente dubitare di tutto questo.
Come è andata a finire?
Sono caduto in un enorme sconforto. Il peggiore dei filosofi che ho incontrato, quello che mi ha fatto stare più male, è stato Karl Marx. Quel tizio dice delle cose… Non voglio neanche pensarci. Per fortuna ho avuto il conforto di mio fratello minore, che è una persona veramente forte. Mi ha aiutato a uscire da quei tre mesi in cui avevo anche cominciato a bere e a passare le notti con delle ragazze. Mio fratello si era appena laureato in fisioterapia in Siria e mi aveva raggiunto, mi ha riportato sulla via della fede. Da allora sto bene, ma mi sento ancora un po’ frastornato.
Grazie all’aiuto e alla compagnia di mio fratello ho anche trovato un lavoro in un centro commerciale. Ho un incarico direttivo in un supermercato, dove posso sfruttare le mie competenze universitarie, anche se, essendo sempre stato un atleta, mi manca l’esperienza. Mi hanno anche offerto un posto pagato meglio a Bassora, nel sud dell’Iraq, ma rifiuterò: non voglio trovarmi nella stessa situazione da cui sono fuggito.
A Bassora non c’è la guerra.
In teoria. Io sono sunnita, e laggiù i sunniti non sono ben visti; magari mi ucciderebbero dopo neanche un mese, come faccio a saperlo? Nel supermercato di Bassora della mia catena qualche mese fa un lavoratore ha un ucciso un collega.
Era sunnita?
No, entrambi sciiti.
Per questione religiose?
No, politiche. Gli sciiti hanno le loro fazioni e i loro partiti, e c’è sempre violenza. La nostra azienda ha spiegato che saremmo inseriti in un compound residenziale proprio di fronte al supermercato dove lavoreremmo, ma questo non annullerebbe i rischi. L’omicidio di cui parlavo prima è avvenuto sul luogo di lavoro. Inoltre non capisco che vita sarebbe stare sempre chiuso in casa per paura della gente: io voglio guadagnare, ma voglio anche vivere, altrimenti non ha senso. Qui ho anche ricominciato a giocare regolarmente a calcio, organizzo pure partite di basket con i curdi più simpatici che ho trovato qui. Insomma, sto meglio, e spero che la guerra in Siria finisca presto, per poter tornare.
Che cosa pensi dell’Iraq?
È un paese incredibile. Per l’aria che si respira, per questa atmosfera strong. Questa gente non ha mai avuto pace.
Prima del 2003, forse.
Neanche: prima del 2003 c’era l’embargo, e qui in Kurdistan c’era la guerra tra i curdi [Guerra civile del 1992-1998 tra Pdk e Upk, Ndr]. Prima ancora la guerra del 1991, le rivolte curde e sciite, e prima la guerra con l’Iran. Questo paese non ha mai avuto pace ai tempi di Saddam Hussein, né dopo. Per questo qui c’è questa tensione, la gente ha sempre avuto problemi, c’è sempre stata violenza. Guarda come tutti qui si comprano macchine grandi, Ford, Toyota o Nissan, perché hanno bisogno di qualcosa di strong per sentirsi forti e proteggersi dall’ambiente che li circonda.
Cosa pensi del Kurdistan iracheno?
Questa è gente che veniva sterminata sulle montagne e conosceva soltanto povertà e guerra, e la cui leadership nel 2003, improvvisamente, si è trovata ad essere ricca. Si sono trovati ad usare l’immensa quantità di petrolio del Kurdistan, ad essere multimiliardari. Il paese che hanno costruito adesso ha molti problemi economici, la gente sta male. L’economia è legata esclusivamente al petrolio, e appena si abbassa il prezzo del petrolio, le finanze del paese crollano.
Questo è anche dovuto alla scarsa lungimiranza dei leader curdi. Non hanno costruito un’economia, una produzione, delle fabbriche; hanno basato tutto solo sul petrolio, hanno costruito grandi hotel e centri commerciali. Questo sarebbe dovuto venire dopo, dopo lo sviluppo di un’economia vera; invece il Kurdistan importa i prodotti dalla Turchia, dalla Giordania, dal Libano, dal Qatar, e quintali di serie televisive idiote dall’India. Non esporta nulla se non petrolio. A chi governa il Kurdistan fa comodo avere un popolo di soli consumatori, ingannati dalle pubblicità dei centri commerciali, ma non è un buon investimento per il futuro.
Questo paese, come il tuo, è lacerato da conflitti che mettono al centro l’identità religiosa. Cosa ne pensi?
È molto negativo. Ci dovrebbe essere rispetto reciproco. I cristiani sono diversi da noi perché credono che Gesù sia risorto, e perché aggiungono a Dio anche il Figlio e lo Spirito Santo; tutto qui. Se ci pensi, è nulla. In Siria abbiamo sempre vissuto mescolati, io stesso sono stato sul punto di sposare una cristiana, mio zio lo ha fatto a sua volta. Qui in Iraq è diverso, purtroppo. Tutti i cristiani sono confinati ad Ainkawa, e ci sono conflitti tra sciiti e sunniti. Io sono sunnita, so come il conflitto con gli sciiti duri da quattordici secoli, e per me molti aspetti del credo sciita (in particolare la tendenza all’autoflagellazione) sono assurdi; ma gli scontri tra musulmani dovrebbero finire, come sono finiti quelli tra cristiani.
In materia religiosa ci dovrebbe essere totale libertà, almeno fino a che non si danneggiano gli altri. Se esco per strada nudo, creo un problema; ma se esco con i pantaloni più o meno attillati, non faccio male a nessuno. Personalmente non apprezzo le donne che vanno al lavoro vestite come se andassero a una festa, ma è una loro scelta, così come quella di portare il velo; semmai credo che chi porta il velo debba coprirsi davvero, non usarlo come un articolo alla moda; ma se non lo vuole usare, non lo deve usare. Per questo credo anche che la Francia sbagli a vietare il velo nelle scuole, così come sbaglia la Siria a impedire ai cristiani di portare collane con il crocifisso durante il servizio militare. Sono tutte limitazioni sbagliate della libertà.
Hai toccato un argomento molto delicato: le donne e la loro libertà. Quando ti sposerai, permetterai a tua moglie di lavorare?
Sì, lo permetterò. Solo, non in posti come il mio supermercato: là gli uomini sono pazzi, non hanno rispetto; sono pronti a rivolgere la parola a una collega, senza curarsi se è sposata o no. In Siria non ci sarebbe questo problema, ma purtroppo qui in Iraq c’è troppa gente che non sa come comportarsi. Però ci sono «respect companies», aziende che si dotano di una propria etica aziendale e fanno più attenzione al rispetto che alle donne è dovuto sul luogo di lavoro. Dal momento che io rispetterò mia moglie, vorrò che lavori in una di queste aziende; ma è una sua scelta se lavorare o no.
Un’ultima domanda: cosa pensi di ciò che viene chiamato “Occidente”?
Penso che gli Stati Uniti, e soprattutto il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, siano i posti dove sarebbe meglio emigrare, dove l’economia è migliore e c’è più reddito, più lavoro. L’Europa non è agli stessi livelli, sebbene magari sia più bella da vedere e abbia più storia. L’Italia e la Grecia, ad esempio, sono paesi dove non si vive bene, dove c’è crisi economica; questo è risaputo. Per questo tutti, se vanno in Europa, vogliono raggiungere la Danimarca, l’Olanda, la Svezia, l’Inghilterra.
Il problema è che c’è tanta ignoranza; così come da voi molti pensano che noi siamo tutti come Daesh (anche se ammetto che abbiamo delle responsabilità per questo), così qui la gente pensa che l’Europa sia il paradiso, ma non è vero. Bisognerebbe viaggiare, vedere di persona, non fidarsi delle televisioni. Questo è difficile. So che un giorno, forse, dovrò decidere di emigrare in Europa. Allora avrò grandi difficoltà.
Non hai paura di finire annegato in mare, come tanti migranti in questi mesi?
No, non ho paura. Se avrò scelta, eviterò di correre questo rischio; ma come sappiamo, a volte la scelta non c’è.
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Le donne curde iraniane: “Aspettatevi la nostra rivoluzione”
Quando eravamo a Istanbul, i compagni della rivista Demokratik Modernité ci avevano avvertito: presto sentirete parlare delle compagne e dei compagni curdi iraniani tanto quanto oggi si parla del Rojava. Payman Viyan e Rozerin Kemanger sono i portavoce del Kjar (Congresso della società delle donne libere del Kurdistan orientale), e ci rechiamo a Suleimaniya per intervistarle. Qui, nel Kurdistan iracheno meridionale controllato dall’Upk, i movimenti della sinistra curda hanno una limitata agibilità. Il Kjar è un tentativo di riunire, in Iran e nel Kurdistan iraniano, tutte le donne decise a lottare contro “il razzismo, le discriminazioni di genere nelle diverse strutture sociali, il governo, il patriottismo e il nazionalismo, la religione, la scienza e la concezione patriarcale”. [Rojhelat.info]
Il Kjar agisce in tutto l’Iran, sebbene il suo centro di irradiazione sia il Rojhelat, “l’Oriente”, ossia quello che i curdi considerano l’est del Kurdistan, oggi compreso entro i confini iraniani (nel nord-ovest del paese). I curdi che vivono in Iran sono tra i cinque e i sei milioni; storicamente, sono gli unici ad aver proclamato (anche se per pochi mesi, prima di essere duramente repressi) uno stato indipendente, la Repubblica di Mahabad (1944). Le donne curde che animano questo congresso agiscono in sintonia con il Kodar (Congresso della libera società democratica del Rojhelat) e con il Pjak. Il Pjak è il Partito della vita libera in Kurdistan, creato nel Rohjelat nel 2004, di cui tanto Peyman quanto Rozerin fanno parte.
Dalla sua fondazione, come Kodar e Pjak, il Kjar fa parte dell’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) assieme al Pkk del Bakur-Basur e al Pyd del Rojava, e ai rispettivi congressi popolari Dtk e Tev-Dem, che hanno un corrispettivo curdo-iraniano nel Kodar. Il Kjar, come il Pjak, è dotato delle proprie forze armate e non partecipa al processo elettorale, considerando illegittimo il Consiglio dei guardiani della rivoluzione della Repubblica Islamica dell’Iran, che filtra l’ammissibilità delle liste elettorali. Assieme al Pjak, il Kjar è considerato organizzazione terroristica dall’Iran e da altri stati del medio oriente e del mondo. Ci sediamo con Peyman e Rozerin in un caffé e rivolgiamo loro alcune domande.
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Potete dirci qualcosa su come è nato il vostro movimento, sul vostro progetto politico e le vostre idee?
Rozerin: Siamo due militanti del Kjar. Il primo congresso del Kjar si è tenuto nel 2014. Prima esisteva il Yjrk (Donne unite del Kurdistan orientale). La differenza è che, se il Kjar mantiene un particolare radicamento tra le donne curde, si rivolge a tutte le donne dell’Iran. In Iran vivono molte comunità linguistiche: azeri, curdi, arabi, persiani, turcomanni; dal momento che all’interno di tutte queste comunità le donne fanno fronte a gravi problemi, il Kjar intende dare voce alle donne di tutte queste comunità, a tutte le donne che vivono in Iran.
La politica del governo iraniano non è accettabile. Il personale politico delle attuali istituzioni è composto da esponenti di tutte le comunità, ma impone un potere oppressivo alla società iraniana. Le donne del Kjar hanno un diverso orientamento politico e sono una grande opportunità per il Kurdistan. In passato le donne curde iraniane erano focalizzate sostanzialmente sul Rojehlat, ma oggi sono attive in tutto il Kurdistan. Come donne curde abbiamo un grande potenziale in Iran, ma il regime non ci permette di avere accesso alla vita pubblica. Il coordinamento del Kjar è composto da nove donne. Non sono soltanto le donne del Pjak che animano il Kjar, anche altre; anche quelle vicine a movimenti curdi come il Pdk-Iran e Komal possono partecipare se lo desiderano. La nostra base è Qandil [area montuosa dell’Iraq orientale, al confine con l’Iran, Ndr], ma la nostra azione si dispiega su tutto il Rojhelat e su tutto l’Iran.
Come vivete lo scontro con il regime iraniano?
R: La maggior parte delle donne iraniane accettano la politica del regime, ma è perché non hanno alternative. Per questo molte donne giungono al suicidio, anche pubblico, dandosi fuoco. Il Kjar intende offrire un’alternativa alle donne iraniane. Siamo dotate delle nostre forze armate, le Hpj, che contano migliaia di combattenti sulle montagne; esistono diverse commissioni del congresso, ad esempio per le giovani, per gli aspetti medici, per quelli diplomatici e per le relazioni esterne. Abbiamo anche il settore sociale, che si chiama “Salva te stessa”. Il Kjar si rapporta con il Kodar (Congresso della libera società democratica del Rohjelat), anche se il Kodar è composto da donne e uomini, il Kjar soltanto femminile. Ciò che ci avvicina al Kodar è la comune ideologia, ossia il pensiero di Abdullah Ocalan.
Le combattenti del Kjar sono un esempio per tutto il mondo. Ciononostante, subiamo una dura repressione da parte del governo iraniano. Diversi compagni e compagne del Pjak e del Kjar hanno subito la pena capitale, di recente, in Iran: ad esempio Shirin Alamhvli, Ferzad Kaman, Ferhad Vakili, Ali Heyder. Sono stati uccisi nonostante non facessero parte della nostra ala armata, ma fossero semplicemente militanti politici. Le loro esecuzioni sono avvenute nel 2010.
La compagna Zeyneb Celaliyan è in prigione dal 2008 e ha gravi problemi di salute, ma il governo non accetta di permettere che possa avere le cure di cui ha bisogno. Zeybeb è accusata di essere parte del Pjak, ma noi non lo accettiamo, Zeybeb è una donna impegnata nella politica, non una guerrigliera. Esiste una campagna estesa a tutto il mondo, portata avanti anche in Europa e negli Stati Uniti per la sua liberazione, anche con raccolte di migliaia di firme, ma il governo ha al contrario inasprito le sue condizioni di detenzione. Zeyneb è un grande esempio per tutte le donne, per la libertà. La capacità di resistenza che sta dimostrando è enorme. Inutili sono stati i tentativi del governo di ottenere da lei una dissociazione dal nostro movimento.
I nostri combattimenti con l’esercito iraniano sono frequenti. Zilan Pepula è stata la prima martire del nostro movimento femminile quando, nel 2006, si chiamava ancora Yjrk. L’idea che ci anima è continuare sempre, tutti i giorni, non fermarsi mai; ma dobbiamo dire che il governo ha la stessa tenacia.
Quali sono i principali problemi delle donne iraniane?
R: Il governo non vuole che le donne siano attive; le vuole a casa, lontane da ogni attività sociale o politica: è un’ideologia pensata per gli uomini; l’identità islamica viene usata per gli uomini contro le donne. Nelle famiglie iraniane, attualmente, le donne possono lavorare soltanto con il permesso del marito.
Ci sono diversi casi di cronaca che mostrano quale sia la situazione che viviamo. Una donna, Rihani Jabari, è stata condannata a morte e uccisa per essersi difesa dall’aggressione di un uomo, che è culminata con la morte dell’aggressore. E’ successo a Mahabad. Farinaz Kosteiani è stata aggredita da un albergatore che ha tentato di stuprarla, e per sfuggirgli si è gettata dal quarto piano, uccidendosi. L’aggressore non è mai stato processato e il governo ha detto che il problema era della donna.
Su un piano diverso e meno cruento, sono note anche limitazioni per quanto riguarda l’abbigliamento.
R: In Iran non potremmo mai vestirci normalmente, come facciamo qui, nel Kurdistan iracheno. Dobbiamo uscire sempre velate, soltanto il volto può restare scoperto.
Mettete in piedi anche dei progetti per l’indipendenza economica delle donne?
R: C’è un progetto importante su questo, ed è legato al settore sociale del Kjar, cui abbiamo accennato.
Quali altre attività organizzate?
R: Alle donne è proibito cantare in Iran; questo non è accettabile, quindi organizziamo anche attività culturali. Le donne curde non possono parlare la loro lingua, quindi organizziamo attività linguistiche. Le donne hanno un diritto naturale a esercitare un ruolo importante nella vita sociale, ma il governo reprime ed elimina questo diritto.
Un altro nostro importante sforzo riguarda la lotta nel resto del Kurdistan. Le donne di Kobane e del Rojava sono un grande esempio per noi, per questo molte donne curde d’Iran, ed anche molte persone, davvero tante, da tutto l’Iran sono andate a combattere in Rojava. La ragione è che crediamo nelle istituzioni che il Rojava sta costruendo e ci riconosciamo, come detto, nel pensiero di Apo [Abdullah Ocalan, Ndr].
Abbiamo avuto molte martiri in Rojava: Amir Karimi, Ilam Kehor, Dicle Selmas, Rojan Urumije, Uiyar Maku solo per citarne alcune. Uiyar Maku era anche una cantante molto nota in Iran, potete cercare le sue canzoni su youtube.
Quando avete avuto gli ultimi combattimenti significativi con l’esercito iraniano?
R: Nel 2011 l’Iran ha bombardato il monte Qandil in Iraq, tentando di indebolirci, e ci sono state anche incursioni di terra, ma la battaglia è stata a noi favorevole. Ci sono stati scontri armati e bombardamenti anche entro i confini iraniani. Da quella volta l’Iran ha valutato diversamente la forza della nostra organizzazione e non ci sono stati più attacchi, ma siamo pronte a difenderci se sarà necessario.
Un articolo su Wikipedia dice che un rappresentante del Pjak è volato a Washington, alcuni anni fa, per carcare l’appoggio degli Stati Uniti. E’ vero?
E’ un’assoluta falsità. Noi siamo indipendenti e non abbiamo relazioni con nessun governo, compreso quello degli Stati Uniti. Combattiamo contro il governo iraniano, ecco tutto. Nessuno del Pjak è mai andato a Washington. Wiki dice che il Pjak è un piccolo gruppo, ma come può un piccolo gruppo combattere l’Iran? La pagina è palesemente stata creata dal governo. L’Iran ha paura di noi, per questo usa questa propaganda; è tipico delle dittature mentire per screditare il proprio avversario.
In questo momento il medio oriente vede la presenza più o meno massiccia di truppe europee, statunitensi, russe. Qual è il vostro giudizio su questo tipo di presenza?
Peyman: I curdi esercitano un ruolo importante nel medio oriente, quindi tante potenze straniere vengono qui, ma soltanto per i loro interessi. L’esempio più evidente del genere di ruolo che queste forze hanno in questa regione sono stati gli accordi di Sykes-Pikot dopo la prima guerra mondiale, che hanno ridisegnato stati e confini secondo l’agenda europea. Nulla di buono può venire dalla presenza o dall’azione di queste forze.
Adesso gli Stati Uniti sono spaventati dall’evoluzione del fenomeno Daesh, soltanto per questo svolgono un’azione aerea, ma sono i curdi che combattono sul terreno. Se davvero avessero a cuore il destino dei popoli, oggi dovrebbero intervenire per fermare il massacro in Bakur, cosa che non avviene; eppure, se c’è un attentato ad Ankara, tutti si preoccupano e tirano fuori il problema del «terrorismo».
Noi chiediamo: che cos’è ciò che sta facendo il governo turco in Bakur, se non terrorismo? Per le forze speciali anche il feto nel grembo di una donna incinta è terrorista, perché curdo. Se esiste una forza reale, oggi, in medio oriente, ed è la gente che combatte e lotta nelle quattro parti in cui il Kurdistan è diviso. Questa è forza.
Ora, improvvisamente, Stati Uniti e Iran sono diventati amici, ma tutto questo non riguarda le popolazioni dei due paesi: i rispettivi governi se ne fregano delle popolazioni. Ciò che esprime forza reale in questo momento sono le donne e gli uomini che combattono Daesh in Kurdistan. Nessun reale aiuto può venire dalle forze straniere. La gente in Iran soffre. Nel frattempo, in Bakur e Rojava c’è la guerra. Il governo iraniano ha molta paura che ciò possa accadere anche nel Rojhelat.
Che cosa pensate dell’idea proposta da Ocalan, di istituire una forma di convivenza basata sul «confederalismo democratico»?
P: E’ ciò che stiamo facendo in Rojehlat, è ciò per cui esistiamo politicamente. Stiamo costruendo il confederalismo democratico e l’autonomia democratica nel Kurdistan iraniano, attraverso il congresso generale e quello delle donne. Progettiamo scuole in lingua curda o nelle lingue native di altre popolazioni iraniane, esattamente come accade in Bakur e Rojava. E’ un inizio, un progetto, e la repressione è forte: ma noi cominciamo questo processo.
Credete che ci sarà una rivoluzione in Iran?
Rozerin: Certo! Questo è sicuro. Bisogna solo vedere quando. Il governo ha molta paura di ciò che può accadere in Rojhelat. Stiamo solo aspettando… ma voi aspettatevi la nostra rivoluzione.
Siete molto determinate. Non credete che lo stato iraniano sia troppo forte per permettere una cosa del genere?
R: Non potete neanche immaginare che cosa il Rojava ha messo in moto nel Rojhelat…
Nel corso di questo viaggio abbiamo incontrato anche donne palestinesi, a loro volta impegnate in una dura lotta di liberazione. Volete mandare loro un messaggio da donne curde iraniane che combattono per la libertà?
Peyman: Lottiamo per la libertà di tutte le donne e di tutti i popoli, le donne palestinesi lottano per la loro libertà, sono combattenti e sono martiri. Combattono per aumentare il proprio potenziale, la propria libertà e il proprio potere. La loro è una lotta vittoriosa. Hanno diritto a vivere una vita libera, e in ogni caso noi crediamo nel potere popolare, e la lotta che hanno costruito negli anni Cinquanta e Sessanta in Palestina è un’eredità importante per tutti da questo punto di vista.
Quando diciamo questo non intendiamo rigettare Israele, ma Israele deve dare al popolo palestinese il potere che gli spetta. Non sentiamo ostilità nè per la popolazione palestinese, nè per quella israeliana. Tutte le persone e tutte le idee possono trovare un luogo dove vivere. Sono i governi che sbagliano, non i popoli. Ci auguriamo che queste persone possano trovare la pace.
Per concludere, potete dirci come siete arrivate a questa scelta rivoluzionaria, che cosa vi ha spinto ad abbracciare un sentiero così bello ma pericoloso?
Peyman: Da adolescente vivevo in Rojhelat e vedevo ogni giorno qual era la violenza che il governo iraniano imponeva alle donne. Quando ho letto i libri di Apo e ho conosciuto le idee della guerriglia, ho deciso di andare a combattere in montagna anch’io. Avevo 17 anni. Adesso sono undici anni che svolgo la mia attività politica per quest’organizzazione in Iraq.
Rozerin: Per me un fattore scatenante sono state le notizie riguardanti le esecuzioni capitali. Ogni volta che vengo a sapere che qualcuno è condannato a morte, ne soffro. Quando sono venuta a conoscenza delle idee di Abdullah Ocalan, all’università, ovviamente per vie nascoste, ho pensato di avere un grande potenziale, di avere in me una grande forza per combattere le dittature, e che per me sarebbe stata una grande opportunità iniziare a combattere, e adesso non smetterò mai: combatterò per sempre.
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Singal: quel che i peshmerga (non) dicono
Nota: Questo reportage è stato realizzato alcuni giorni prima dell’operazione per la liberazione di Mosul, che coinvolge anche la città di Tel Afar, da parte delle forze autonome di Pkk e Ybs e di quelle statali dei peshmerga e dell’esercito di Baghdad. Tutti i nomi, ad eccezione di quello di Massud Barzani e quello di Kasim Shesho, sono nomi di fantasia]
A un’ora di viaggio da Duhok, nell’Iraq settentrionale, il tassista si ferma e parcheggia la macchina ai limiti del deserto. “Devo pregare – dice – perché andiamo a Singal”. Conquistata dallo stato islamico nel 2014, liberata dal Pkk e dalle unità di liberazione ezide (Ybs) nel 2015 e occupata dai peshmerga del Pdk (partito al potere nel Kurdistan iracheno) nello stesso periodo, la città è linea del fronte con i miliziani di Daesh, punto più intenso del conflitto politico in Kurdistan e scenario allucinante dell’orrore prodotto dalle politiche delle superpotenze. Costeggiando il confine con la Siria, avvicinandoci ai monti da cui la città prende il nome, i segni delle violenze dei miliziani salafiti si presentano ai nostri occhi: villaggi distrutti, case bombardate, insediamenti abbandonati. I check-point dei peshmerga si fanno sempre più frequenti, producendo un’atmosfera di guerra, la cui intensità aumenta procedendo verso sud.
Sono calate le tenebre e saliamo da nord sulla montagna dove i villaggi ezidi (nome di una rara confessione religiosa sincretica, diversa tanto dal cristianesimo quanto dall’islam, e per questo da sempre perseguitata) sono trasformati da quasi due anni in grandi baraccopoli. Pareti di compensato, tetti di lamiera, fuochi, lampade ad olio: così vivono le persone che hanno dovuto fuggire dalle loro case, inseguite da fanatici che intendevano sterminarle o ridurle in schiavitù con la scusante della loro diversa religione; un destino che, a molti loro concittadini, è stato in effetti (ed è tuttora) riservato. Queste sono le famiglie tradite dal generale dei peshmerga Kasim Shesho (anch’egli ezida, ma fedele al Pdk di Massud Barzani) che, per ragioni tutt’altro che chiare, ordinò alle proprie truppe di ritirarsi prima dell’arrivo dell’Is, dopo aver per giorni rassicurato la popolazione e averla (secondo diverse testimonianze) disarmata quasi totalmente.
È freddo, sebbene sia marzo inoltrato: in queste zone semi-desertiche, calde di giorno e fredde di notte, enormi slums seguono la forma dei rilievi, con la gente che si stringe in piccoli ripari debolmente illuminati e bambini che scorrazzano per strade buie assieme ai cani. Due distese di luci si notano a valle: Singal a ovest e Tel Afar a est, città ancora in mano allo stato islamico. In mezzo, la linea del fronte; ancora più a est, Mosul, capitale irachena dell’Is, ormai circondata da forze avversarie. La catena montuosa su cui viaggiamo, ribattezzata “Sinjar” dopo la lunga e inesorabile colonizzazione araba del Kurdistan meridionale, scende per tornanti ripidi che conducono alla città.
È la strada da cui scesero incolonnati i mezzi del partito dei lavoratori del Kurdistan nell’agosto 2014, quando accorsero a difendere la popolazione rimasta intrapolata tra la città e la montagna, dove non pochi furono i morti per la fame e gli stenti.
Ai limiti della città compaiono i colori delle Hpg (unità militari del Pkk) e i guerriglieri in caratteristici abiti curdi. Qualche isolato più avanti gli Asaysh – polizia del Pdk – ci accompagnano nel loro ufficio per l’identificazione di rito. Il Kurdistan iracheno è l’unico “stato” presente qui, e controlla la burocrazia degli accessi. Tutto è sottoposto a rigide procedure militari: la città è disabitata, soltanto le diverse forze armate che se ne spartiscono il controllo possono, ad oggi, attarversarla o farla attraversare: dal Rojava, sono le Ybs ezide alleate del Pkk ad avere un sostanziale controllo delle strade; dal Kurdistan iracheno, i peshmerga. A sentire i media internazionali, soltanto questi ultimi (alleati di Stati Uniti ed Europa) sono presenti qui, dopo aver “liberato” da soli la città. Il ruolo e la presenza di Pkk e Ybs è censurato e misconosciuto: reali combattenti della prima e dell’ultima ora contro lo stato islamico, ma indipendenti da qualsiasi governo e animati da idee rivoluzionarie, secondo la narrazione embedded imposta al mondo (che ogni giornalista sa di dover seguire a puntino) non dovrebbero, in effetti, neanche esistere. [La stessa censura incontra in queste ore il ruolo di Pkk e Ybs nella battaglia di Mosul, Ndr].
Gli Asaysh di Barzani non la pensano diversamente. Indagano sulle ragioni del viaggio, si accigliano alle domande sulla guerriglia, vorrebbero rendersi “ospitali” imponendoci la loro asfissiante presenza. Prendiamo posto, invece, in una delle tante case semidistrutte e abbandonate (ma non da topi e zanzare) che sarà difesa nella notte da Heder, ragazzo ezida di ventitré anni, che pure ha avuto il tempo di sposarsi e fare quattro figli. Di pochissime parole, l’aria perennemente triste e spiritata, vive con la famiglia in uno dei tanti campi profughi costruiti dal Pdk a Duhok e, disoccupato, veste qui la divisa dei peshmerga. “Neanche mi pagano. Siamo tutti volontari. Faccio dieci giorni qui e dieci al campo, alternativamente”. Due grosse esplosioni squarciano il silenzio, facendo tremare i vetri di tutta la città: lo stato islamico ha fatto esplodere due autobomba in un villaggio vicino. Seguono colpi di mortaio. La casa di Heder si trova in uno di quei villaggi, ancora in mano all’Is; non sa chi ci sia dentro, né se sia ancora in piedi.
Gli chiediamo se aveva dei rapporti con le persone che gli hanno fatto questo, con le popolazioni arabe dei villaggi circostanti. Sì, è la stringata risposta. Non hai più visto nessuno di loro, da allora? “No”. Difficile descrivere il suo sguardo perso nel vuoto, sprofondato forse in cose che non vuole o non può spiegare. Il 3 agosto 2014 centinaia di arabi della zona accompagnarono i miliziani dell’Is nella loro incursione, compiendo in prima persona ogni genere di crimine sui propri vicini di casa. Gli ezidi rifugiati nella provincia di Duhok ci hanno detto che i rapporti, prima di quel giorno, erano “normali”. Difficile comprendere cosa significhi. “Era gente cui dicevamo ‘Buongiorno’ ogni mattina” ci hanno spiegato, palesemente abituati all’incredulità degli interlocutori. Per chi, come Heder, è stato arruolato nelle strutture gestite da Barzani, non ci deve esser stata molta scelta su quale divisa indossare; ma ha combattuto anche a contatto con Pkk e Ybs, perché faceva parte delle unità che hanno attaccato dalle montagne. Sono brave persone, gli chiediamo? “Sì, sono brave persone”.
Il mattino seguente, durante la colazione al quartier generale, un alto ufficiale si abbandona a qualche confidenza: “Mi sono diplomato all’accademia militare di Saddam a inizio 2003. Pochi mesi dopo ho iniziato a lavorare per l’intelligence americana. Il generale che mi diede il diploma è in prigione ancora oggi”, ridacchia. Anche lui è ezida; tutti i peshmerga di Singal sono ezidi ormai: è l’unico modo per mantenere in vita questo corpo militare nella zona, dopo il tradimento del 2014. “Non ci possiamo fidare dei curdi” dice Khalis, un commilitone di Heder. Il presidente Barzani ha sostituito i curdi musulmani con volontarii ezidi prelevati dai campi, e li ha mandati a combattere sotto la stessa bandiera che li aveva fatti massacrare due anni fa; oltre che, incredibilmente, sotto lo stesso comandante, Kasim Shesho. Nessun mezzo d’informazione ha mai raccontato, né racconterà, tutto questo. Il perché lo spiega l’alto ufficiale: “Questo è un film. L’America è il regista”.
Non è una teoria della cospirazione. La direzione delle operazioni è prerogativa degli Usa. “Non vi chiedete perchè non attacchiamo Tel Afar? Basterebbero due ore per chiudere questa vicenda”. La politica globale odierna si progetta in termini di governance: ha tempi dilatati. L’Is è un fenomeno pericoloso, ma provvidenziale per porre un freno all’influenza iraniana sull’Iraq, dopo che gli sciiti del sud hanno occupato le istituzioni del nuovo stato. Gli Stati Uniti non lo rimpiazzeranno fino a che non sarà pronto un ceto politico in grado di guidare nuove, fedeli istituzioni sull’area che esso controlla. Questo è il work in progress statunitense alla fine del mandato Obama; e questo giustifica ogni attesa. Il terrore instillato dall’Is, d’altra parte, non può che indurre le popolazioni ad essere più collaborative (leggi: sottomesse). Sono equilibri militari ed energetici mondiali: e che milioni di persone restino intrappolate tra folli sevizie e decapitazioni dispiace, penseranno a Washington, ma il governo del pianeta – il suo dominio – è una scienza complessa.
Ecco allora Heder riempire con Khalis le ore vuote della vita da caserma, scambiare messaggi con la moglie e aspettare un ordine dall’altro capo del mondo per provare a riprendersi casa sua; poi, spera, il suo servizio nei peshmerga gli frutterà un lavoro, se non la morte. Perchè Barzani non ha difeso Singal, gli chiediamo? “Non lo so”: sente il termometro della domanda, ma sembra anche trovarla ridondante. Ci accompagna in mezzo alle rovine, alle case squartate, ai palazzi crollati; ha l’aria di camminare come se fosse in un limbo. Entriamo nei quartieri controllati dal Pkk. Le ragazze dell’Yja-Star (unità femminili del partito) si precipitano fuori dalla loro base, per capire chi è il soldato che ha deciso di avventurarsi fin lì da solo, a piedi, nonostante l’uniforme che indossa. Lui le saluta senza scomporsi, lo sguardo sempre perso nel vuoto. Loro rientrano, ridendo un po’ stupite. Non è che un ragazzo di Singal, avranno pensato, la cui vita è stata stritolata da strategie incomprensibili e lontane, finita in mezzo a scontri a cui avrebbe preferito non partecipare, e protagonista suo malgrado di un “film” che non avrebbe mai voluto vedere.
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Ezidi, Ezidistan: non esistono “popoli buoni”
(Vedi anche qui sopra: “Singal: quel che i perhmerga (non) dicono”)
[Nota: Pochi giorni dopo la realizzazione di questo reportage, le unità ezide Ybs, assieme al Pkk, hanno preso parte ai combattimenti per la liberazione di Tel Afar e Mosul, nei pressi di Singal, cui partecipano anche peshmerga ed esercito di Baghdad. I nomi degli intervistati ezidi sono nomi di fantasia].
Rani fa irruzione nella stanza e chiede se qualcuno lo vuole accompagnare alla linea del fronte: lo stato islamico ha appena colpito le trincee con venti razzi, tra cui alcune armi chimiche, e otto di essi hanno raggiunto diversi quartieri della città. È farmacista, uno dei pochi civili autorizzati a stare a Singal, a supporto delle unità peshmerga che contendono il controllo dei quartieri al Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan) e alle Ybs (unità ezide per la liberazione di Singal, ad esso alleate). Lungo la strada si aggiunge Johnatan, operaio statunitense originario della Pennsylvania, arrivato a dicembre, dice, per ristrutturare le vetrate di alcuni edifici. “L’Is bombarda la città soprattutto in giornate novolose come questa, o di notte: con la scarsa visibilità i jet statunitensi hanno bisogno di circa mezz’ora per individuare e colpire le postazioni di lancio”. Un lasso di tempo relativamente breve, che spiega il carattere poco accurato, perché affrettato, dei lanci dello stato islamico, che in tutta la giornata non hanno causato neanche un ferito.
Le carcasse dei razzi hanno lasciato strane macchie sul suolo, che secondo Rani sono prova dell’arricchimento chimico del loro contenuto. Un infermiere, nel vicino ospedale, mostra una scheggia che gli è entrata in camera poche ore prima. La strada per il fronte dura cinque minuti in auto. Rani ci presenta ai peshmerga dietro una trincea fatta di sacchi sabbia, che sa di prima guerra mondiale; dall’altro lato le linee dell’Is, distanti circa quattro chilometri; in mezzo, la larga distesa della terra di nessuno. L’armamento dei peshmerga è leggero – bombe a mano, kalashnikov – ma lungo la strada abbiamo incrociato due o tre enormi mortai nuovi di zecca (alcune parti ancora incelofanate) che gli ufficiali non sanno o non vogliono dirci chi abbia fornito al governo regionale del Kurdistan. Saranno spostati a breve sulle montagne e colpiranno le linee nemiche per circa due ore, durante la notte.
“Sono stato insignito del comando di questa truppa perché sono a capo di uno dei più potenti clan ezidi della città”, dice un uomo anziano con il capo coperto da una lunga kefiah. “Non chiedetemi se muoveremo verso Tel Afar, o quando sarà sferrato l’attacco a Mosul: queste sono cose che decidono gli americani”. Più che in strategia militare, è ferrato in chiaroveggenza: “Per noi ezidi i sensi sono fonte di verità, come per i cristiani la bibbia, per i musulmani il corano. Il genocidio di due anni fa era stato profetizzato dai nostri uomini di religione”. Previsto o no, quello del 2014 è stato il settantacinquesimo genocidio subito dalla popolazione ezida nella sua storia. Antico culto di origine zoroastriana, basato originariamente sul culto del sole, lo ezidismo è divenuto nel tempo una religione monoteista in cui la divinità è attorniata da figure angeliche, una delle quali talvolta in dissenso, talvolta in obbedienza con il messaggio divino. Cristiani e musulmani, nel corso dei secoli, hanno per questo talvolta accusato gli ezidi di politeismo, talaltra di satanismo (l’angelo ribelle sarebbe analogo al demonio biblico).
Dopo la presa di Mosul, nel giugno 2014, lo stato islamico occupò Singal, seminando il panico tra la popolazione. Massacri, stupri di massa, fosse comuni, riduzione in schiavitù e deportazione (e conversione forzata) di migliaia di donne e bambini seguirono lo shock dell’invasione del 3 agosto, in seguito alla quale in migliaia si rifugiarono sulle montagne fuggendo in auto o a piedi. I più fortunati incrociarono i militanti del Pkk e delle Ypg, che li trassero in salvo; molti altri trovarono la morte per fame e per sete, sotto il caldo torrido, dopo giorni di isolamento sulle catene montuose. Benché, per ragioni prettamente politiche, si sia evitato di parlarne sui grandi mezzi d’informazione, gli ezidi incolpano di questo evento non soltanto gli arabi (molti abitanti dei villaggi vicini supportarono l’Is nel massacro) ma anche i curdi: il presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, Massud Barzani (alleato di Stati Uniti ed Europa, e perciò intoccabile dai media), ordinò infatti ai peshmerga di stanza a Singal di ritirarsi senza combattere, lasciando improvvisamente indifesa la popolazione.
Il comandante, a sorpresa, non si sottrae alla domanda sulle responsabilità del Pdk di Barzani nell’eccidio. La risposta è in parte sibillina: “Quando un partito vuole diventare grande, cosa sono per esso migliaia di morti?”. Gli ezidi – come gli armeni, o gli assiri – hanno vissuto molte volte, nella loro storia, non soltanto l’indifferenza, ma la violenza delle tribù musulmane curde. “La nostra lingua è il curdo – spiega Rani – ma non possiamo dirci curdi. I curdi sono musulmani: non c’è differenza tra loro e gli arabi, quando si tratta di attaccare gli ezidi, o di farli massacrare”. Chiediamo al comandante cosa pensa del Pkk, che intervenne ad aiutare la popolazione durante il massacro di due anni fa. La risposta non potrebbe essere più diretta: “Il Pkk è un grande pericolo per il nostro popolo. Insegnano ai nostri ragazzi che Dio non esiste. Sono come Daesh: Daesh veste le prigioniere ezide come se fossero arabe, il Pkk veste le combattenti curde come fossero ezide”.
Il riferimento è alle Ybs, unità partigiane promosse dal Pkk subito dopo il massacro del 3 agosto. Migliaia di sfollati furono inquadrati e addestrati sulle montagne per riconquistare la città e salvare i prigionieri nel centro abitato. Per un anno le Ybs, assieme al Pkk, hanno combattuto nella periferia nord della città, e infine l’hanno liberata il 13 novembre del 2015 (poche ore prima gli attacchi dell’Is a Parigi) mentre anche le nuove unità peshmerga di Barzani (riqualificate con soldati provenienti dalle famiglie ezide dei campi profughi della provincia di Duhok, amministrati dal Pdk) entravano in città e prendevano possesso del suo costone sud-occidentale. Come spesso accade in questi casi, i detrattori accusano le Ybs di non essere unità autenticamente “ezide”, ma un mero “prestanome” del Pkk; e che un partito laico e d’impostazione socialista come il Pkk possa essere malvisto da alcuni, nella comunità ezida (ad esempio da un capoclan come il comandante peshmerga) non è una sorpresa: la cultura dei perseguitati fa proprie, qui, concezioni reazionarie dell’organizzazione sociale, incluse poligamia, endogamia e una rigida divisione della società non solo in classi, ma addirittura in caste.
Se le illazioni che abbiamo raccolto sulla lapidazione delle donne che intendevano abbandonare la comunità ezida, o sull’ostracismo verso quelle violentate (anche dall’Is) non hanno trovato conferma evidente, tutti gli ezidi da noi intervistati – nel Bakur come nel nel Basur – hanno confermato che è rigorosamente vietato, tanto per l’uomo quanto per la donna, sposare qualcuno che appartenga a un’altra religione, e addirittura ad un’altra casta in seno alla comunità. Sembra che il primo divieto affondi le sue “ragioni” tanto in preoccupazioni sociali (il progressivo regresso demografico ezida: la popolazione conta oggi poco più di un milione di appartenenti, la metà dei quali a Singal) quanto cultuali (la religione possiede tratti esoterici, conosciuti soltanto dai membri della comunità). “Qualcuno dice che esistono ezidi che hanno sposato persone di un’altra religione, o senza Dio – racconta Rani – ma io non lo credo. Forse quelli che sono emigrati in Europa possono averlo fatto, ma non quelli che sono qui. Avrebbero i loro problemi…”.
Gli ezidi, ci hanno spiegato i profughi provenienti da Singal a Dawodiya, sono una popolazione tradizionalmente interessata alla scienza: non è difficile trovare tra loro medici, scienziati, poliglotti. È un’altra ragione dell’odio delle altre comunità, convinte che gli ezidi si ritengano superiori (un po’ come si dice degli ebrei). Ciononostante anche medici, scienziati e comandanti sul fronte non esitano a fare proprie credenze a dir poco surreali: “I miei sensi – continua, consapevole di essere intervistato, l’inconsueto militare – mi dicono che presto una catastrofe naturale si abbatterà sul genere umano, e questo sarà un segno; dopo questo segno, tutti i musulmani del mondo si coalizzeranno contro gli ebrei, e li stermineranno; allora tutti i cristiani si coalizzeranno contro i musulmani, e li stermineranno, così che il mondo resterà popolato soltanto da cristiani ed ezidi”. Bell’immagine (si fa per dire); ma appare comprensibile che, se è vero che degli atei non c’è traccia né prima né dopo, in queste apocalittiche preveggenze, secondo alcuni il Pkk farebbe meglio a stare lontano da Singal. “Non andate a intervistarli – si premura di ammonirci il comandante – vi uccideranno”.
Quando Singal, da città liberata, è divenuta contesa, il Pkk ha condannato l’annessione di essa (formalmente appartenente all’Iraq) al Kurdistan di Barzani, sostenendo che la popolazione ezida avrebbe dovuto poter praticare forme di autogoverno e divenire una realtà federale, lo “Ezidistan”, piccolo tassello del nuovo medio oriente che i guerriglieri curdi immaginano secondo linee sussidiarie e confederali. Quando chiediamo a Rani, una volta abbandonato il fronte, perchè sostenga i peshmerga nonostante il tradimento di Barzani nel 2014, sfiora la crisi di pianto: maledice il presidente dicendo che adesso, dopo aver messo in prima linea gli ezidi, rifiuta di inserirli a tutti gli effetti nella catena di comando del governo, in perseverante segno di disprezzo. “E’ un musulmano: i musulmani non cambieranno mai. Ho studiato all’Università di Duhok, in Kurdistan, ed è stato terribile: gli studenti curdi non hanno mai smesso di emarginarmi, perché ero ezida”. Perchè non sostieni il Pkk, le Ypg, che sembrano diversi? “Sono curdi pure loro. Non possiamo fidarci. Ma non scrivete il mio vero nome sul reportage [precauzione che abbiamo preso, Ndr]: se i peshmerga scoprono che dico che gli ezidi non sono curdi, ci mettono un attimo ad arrestarmi”.
La sorte non poteva essere più ironica, terminata la conversazione: a fermarci per un controllo mentre Rani ci accompagna a casa è un furgone delle Ybs ezide: il farmacista, noto per essere collaboratore dei peshmerga, ha sconfinato nel settore avverso. Si scusa visibilmente impaurito, con deferenza e imbarazzo, prima di essere lasciato andare con un sorriso. “Vedete? È la mia città, ma sono meno di un turista”. Ezidi arruolati o allineati con forze politiche opposte si fronteggiano nella loro Singal, lungo le faglie di una contrapposizione curda (Pkk contro Pdk). Tuttavia, nello sradicamento e nella contaminazione non sempre troviamo i germi della sofferenza. L’ateismo che i clan ezidi temono dal Pkk è curdo ma non musulmano, come il socialismo che ispirò i primi militanti attorno a Ocalan fu turco ma non kemalista, e il marxismo che ne ispirò i tratti ebbe origini russe e antenati tedeschi, sebbene nessuno in questa catena avesse pensato, o agito, libero dal tradimento verso la propria identità o tradizione. In ogni oppresso si annida anche la figura dell’oppressore. Non esistono popoli uniti perché non esistono popoli buoni. L’uguaglianza delle donne, l’amore libero da imposizioni, la società libera dai clan sono idee che oggi si aggirano a Singal – grazie al fantasma del Pkk.
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Singal: trasfigurazioni della guerriglia
Il sole è appena sorto su Singal quando attraversiamo la distesa di rovine dei quartieri settentrionali. Una forma si staglia sul tetto di un edificio a quattro piani, talmente immobile da non sembrare umana: invece è una compagna seduta per il turno di guardia, con il mitra a tracolla. Appena sente il nostro richiamo, si alza in piedi e scende ad aprirci la porta sul cortile. Nel giro di cinque minuti, siamo circondati da un folto gruppo di ragazze delle Yja-Star, le unità armate femminili del Pkk. Nessuna di loro parla altra lingua se non il curdo e il turco, ma sono felici di offrirci un té. L’atmosfera che emanano queste donne è difficile da spiegare: è come se l’aria stessa fosse donna, nei luoghi che hanno impregnato della loro presenza. Poco dopo, due furgoni si fermano lungo la strada: scende Aged, comandante delle Ybs, le unità ezide formate nel 2014 per liberare e proteggere Singal.
Due ragazzi delle Hpg (unità maschili del Pkk) vogliono a tutti i costi caricarsi i nostri zaini sulle spalle, mentre percorriamo all’inverso la stessa strada della città. Ci conducono al quartier generale del partito dei lavoratori del Kurdistan, dove prendiamo posto in una luminosa sala, gradevolmente ornata di divani e tappeti – sebbene a Singal, devastata da anni di guerra, non esista edificio dove non scorrazzi anche qualche topolino. Offrono patatine fritte appena cucinate, morbide e calde, e una bibita. (Chi scrive può testimoniare che le patatine del Pkk di Singal non hanno davvero eguali, al netto di qualsiasi simpatia politica o pregiudizio: neanche quelle celeberrime di Shake Shek, su Madison Square a Manhattan – luogo peraltro infestato non da topi, ma dai ratti – reggono il confronto). Tra i giovani che passano attraverso la stanza c’è chi rivendica i propri successi nei combattimenti con l’esercito turco, mentre molti sono i nomi dei loro coetanei caduti di cui tengono le foto appese ai muri o nei portafogli, a fianco di quelle del comandante prigioniero, Abdullah Ocalan, o dei primi “martiri” del partito (così i caduti vengono chiamati in medio oriente, senza necessario riguardo per la religione).
Le zone controllate dal Pkk sono separate da quelle del Pdk, il partito curdo di destra guidato da Massud Barzani, da lunghe barricate realizzate con detriti, automobili, grosse lamiere. Sugli edifici sventolano le bandiere rosse e gialle del Pkk e delle Hpg, altre con il volto di Ocalan. Poco lontano, nel quartiere delle Ybs, sventola la bandiera delle unità ezide. Tra le strade distrutte spuntano gli ingressi dei tunnel costruiti dai miliziani dell’Is per muoversi nella città e salvarsi dai bombardamenti quando, fino allo scorso autunno, abitavano questi edifici. Nelle stanze giacciono ancora i loro materassi, i loro letti, le loro bustine di neskafé usate e le loro stoviglie, ormai arrugginite. Hanno anche dovuto lasciare delle armi, durante la ritirata. Visto il potenziale considerevole dell’equipaggiamento militare dello stato islamico (che è derivato in parte dagli appoggi forniti da Turchia, Stati Uniti e paesi del Golfo alle “opposizioni” siriane, di cui l’Is era parte, in parte dalla conquista di Mosul in Iraq), la sottrazione di parte di esso da parte del Pkk preoccupa il suo naturale nemico, la Turchia. C’è chi sostiene, non a caso, che la presenza fluttuante e vagamente misteriosa di un migliaio (si dice) di soldati turchi nel nord dell’Iraq, formalmente per “addestrare” i peshmerga del Pdk, serva in realtà a scongiurare la possibilità che il Pkk sposti le armi sequestrate all’Is da Singal verso il suo quartier generale sui monti Qandil, al confine con l’Iran, utilizzando le strade tra Mosul e Zakho, dove non a caso i soldati turchi sono posizionati.
Di tanto in tanto, incrociamo peshmerga a piedi che si aggirano a gruppetti due due o tre. Fingono di fare semplici passeggiate, ma la loro presenza nel settore del Pkk è una provocazione: con queste incursioni, vogliono dimostrare che il settore del Pkk non esiste e che il loro partito ha il controllo completo della città. I peshmerga possono contare dell’appoggio politico degli Stati Uniti, che non hanno alcun interesse a permettere un radicamento ulteriore del Pkk in Iraq (già presente sui monti delle province di Duhok e Suleimaniya, oltre che nella provincia di Niniveh a Singal e Makhmur, e infine nell’importante città petrolifera di Kirkuk, a nord di Baghdad, dove si coordina con l’Upk di Jalal Talabani, partito curdo-iracheno antagonista del Pdk). Gli Stati Uniti furono registi della dilatazione temporale dell’avanzata del Pkk e delle Ybs a Singal contro l’Is (i peshmerga bloccarono questa avanzata a ottobre), per permettere che, una volta superata la delicata boa delle elezioni turche (2 novembre), fossero anche i peshmerga a occupare Singal, grazie al loro supporto aereo e ai loro bombardamenti.
Nuovi veicoli giungono a prenderci per ulteriori spostamenti. A un’ora di auto dalla città, procedendo sulle mulattiere della montagna a nord, giungiamo, accompagnati dalle Ybs, in un loro presidio militare: i distaccamenti di uomini e donne, come sempre nella guerriglia curda, sono separati e indipendenti. I combattenti ezidi (parte dell’antichissima comunità religiosa sincretica che popola Singal) sono qui mescolati a compagni turchi, curdi, arabi, turcomanni. Lungo i monti dell’Iraq e della Turchia sud-orientale, fino alla catena montuosa Zagros in Iran, i rilievi della Mesopotamia sono attraversati da questo incredibile esercito libero, multilingue e socialista, dove l’idea di solidarietà internazionale si trasfigura, in latitudini dove le nazioni furono create dall’Europa, nella convivenza di religioni e lingue, storie e antichissime culture cui i confini disegnati dall’Europa imposero e impongono un’artificiale disciplina, ostile alla contaminazione e al viaggio, e il potere degli uni sulla vita degli altri.
I curdi, per eccellenza vittima sacrificale della configurazione di quei confini, si sono fatti polo attrattore per tutti coloro che non intendono rifiutarli in nome dell’islam, ma della “democrazia” (che per ora qui significa: potere popolare). Hanno come preso su di sé, in qualche modo, il compito storico di negare i confini invidibili che attraversano le loro monragne e attraversarli contro i divieti di tutti i governi, rendendo possibile ai rivoluzionari d’oriente di entrare in formazioni autonome, in cui la vita e la politica sono radicalmente opposte a quelle organizzate dai diversi regimi. Non a caso, tutti gli stati della regione hanno maturato accordi, per tutto il Novecento e negli ultimi quindici anni, che permettono continui sconfinamenti militari degli uni sul territorio degli altri, tolleranili nella misura in cui sono volti a combattere il comune nemico: il Pkk, o “terrorismo”. La Turchia bombarda continuamente le postazioni del Pkk in Iraq, l’Iran lo ha fatto a più riprese; e il Pdk, in passato (fino agli anni Ottanta) vittima delle stesse persecuzioni, collabora talvolta, dagli anni Novanta alla repressione (soprattutto turca) del partito dei lavoratori.
Ciononostante, l’umore nelle file delle Ybs è a dir poco eccellente. Il comandante, un uomo con gli occhiali e la kefiah sul capo, non smette di scherzare sulle diverse origini nazionali dei suoi compagni: come sempre – ma in una forma mai offensiva – a farne le spese maggiori sono i militanti arabi, bersagli dei più frequenti scherzi (ridere bonariamente dei compagni arabi, provenienti da una popolazione “cattiva” e numerosa, tradizionalmente coinvolta in fenomeni di oppressione verso minoranze mediorientali, sembra avere nelle file della guerriglia una funzione politica importante: da un lato di ammonizione permanente, sebbene nascosta, della cultura nazionalista araba e dei suoi lati più oscuri; dall’altro di sfogo catartico, nello scherzo, della tensione che opprime la psicologia degli arabi, come dei loro vicini, in questi anni pesanti).
Della brigata fa parte anche Serhildan, giovane azero: la sua popolazione è turcofona, ma vive fuori dai confini della Turchia, nell’Azerbaigian, tra la Georgia e l’Armenia, a nord dell’Iran. “Il mio paese faceva parte dell’Urss, ma se ne è staccato dopo gli eventi del 1991. Io sono sempre stato socialista, ho sempre letto e apprezzato Marx e Lenin, ma quando ho letto Ocalan, per me è stata un’illuminazione: otto mesi fa mi sono unito al Pkk, poi sono stato inquadrato nelle Ybs”. La pluralità culturale delle unità di guerriglia, dove accanto ai militanti curdi (del Pkk) e ezidi (nelle Ybs) combattono giovani di tutte le provenienze, è uno degli antidoti che il movimento armato usa contro il nazionalismo particolaristico o la degenrazione identitaria, che potrebbero altrimenti dilagare sotto la pressione delle situazioni di guerra. Serhildan dice di aver trovato, nel pensiero del comandante curdo, una critica del sistema sovietico priva di cedimenti alle ideologia capitaliste, oltre che un programma credibile per una nuova formula di convivenza in medio oriente. Saluta dicendo che, quando ci sarà il comunismo e potrà uscire dalla clandestinità, aggiungerà i compagni di Infoaut e Radio Onda d’Urto su facebook.
Mahmud, cecchino momentaneamente prestato al ruolo di autista, ci carica su un altro mezzo e ci conduce ancora oltre, ormai nel cuore della notte, in aree montuose di cui ci sfugge completamente la collocazione e la geografia. Non tiene a far mistero delle sue doti di soldato. Originario del Bakur, ha partecipato alla resistenza del quartiere Sur, a Diyarbakir, in Turchia, nelle file delle Yps (unità di protezione civile) e alla conquista di Singal, dove dice di aver ucciso dieci miliziani dello stato islamico, nelle file delle Ybs. La sua visione politica è quella del militante tutto d’un pezzo, abituato alla pratica della guerra e alla purezza della vita semplice della guerriglia: da una parte ci sono Turchia, il Pdk e Daesh; dall’altra Pkk, Ybs e Ypg. Fine della storia. Non esita ad affermare che, in generale, tende a fidarsi solo dei curdi, e neanche di tutti. Per lui i peshmerga sono un tutt’uno con l’Is, li accusa di avere venduto Singal e di essere amici di Erdogan (“il nuovo Hitler”); ne parla con totale disprezzo. Ne ha anche per i suoi compagni ezidi: “Quella gente mi sembra un po’ tonta a volte: ancora con queste favole sull’esistenza di Dio, ancora con questa barbarie delle differenze tra l’uomo e la donna…”.
Ferma il mezzo all’improvviso, nel buio più fitto, e ci mostra una distesa luminosa poco distante. “Foto” continua a dire; ci fa scendere e la raggiungiamo a piedi: si rivela essere un cimitero e mausoleo per tutti i caduti della guerriglia, uno dei luoghi più importanti di tutto il Kurdistan. Ragazzi delle Ybs e del Pkk spuntano come fantasmi dalla notte, ansiosi di accompagnarci lungo le scalinate illuminate da alti lampioni, ai cui lati giaccioni le tombe dei martiri delle diverse organizzazioni: Hpg e Yja-Star (Bakur e Basur), Ybs-Ybj (Ezidistan), Ypg-Ypj (Rojava). I graffiti delle bandiere di ciascuno di questi movimenti di liberazione sono dipinti su pavimentazioni di pietra, che declinano verso il basso seguendo l’andamento piramidale della grande costruzione, decorata da sculture, iscrizioni, simbologie. Al vertice un enorme schermo luminoso si staglia nel buio della montagna, mostrando il volto di Ocalan, sorridente, e quelli di decine di caduti della guerriglia dai suoi inizi ad oggi. Quando ci svegliamo in un altro luogo, il mattino dopo, l’atmosfera luminosa all’orizzonte, attorno ai giovani ezidi che scaldano le uova e prendono il tè, circondati da distese erbose su cui si aggirano galline e pascolano le caprette, fa contrasto con la memoria recente di quel luogo misterioso, dove l’onore è tributato, tra le montagne, ai combattenti di queste organizzazioni controverse o illegali, perseguitate o represse, ancora inafferrabili, per ora vincenti.
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Lo Stato Islamico a Mosul: Il racconto di una famiglia irachena
Kamal Eliah Suleyman e Fatim Jounis Majid sono una coppia cristiana di Mosul (lui cattolico, lei ortodossa, i figli prendono la confessione religiosa dal padre), che oggi vive a Ainkawa, periferia nord di Erbil, con le figlie Diana e Malak, dove praticamente l’intera comunità cristiana irachena si è rifugiata dopo gli eventi degli ultimi due anni. La loro famiglia ha radici profonde a Mosul, che affondano in un lontano passato retrocedendo di generazione in generazione. La condizione economica benestante da cui provengono ha loro permesso di evitare i campi profughi della cittadina cristiana, e affittare un appartamento. Lo zio di Kamal è stato ucciso nel 1979 dal partito Baath nel villaggio di Soria, mentre il fratello è stato ucciso a Mosul, nel 2007, da Al-Qaeda in Iraq.
La loro testimonianza, personale e soggettiva come tutte quelle che stiamo raccogliendo, offre uno sguardo sui conflitti socio-religiosi di questi anni in una delle città più grandi, antiche e importanti del medio oriente, prima e dopo l’invasione Usa, lo sprofondamento settario dell’Iraq, l’instaurazione dello stato islamico.
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Siete una famiglia araba, irachena e cristiana, che ha abitato a Mosul da generazioni. Come ricordate i tempi di Saddam Hussein?
Bei tempi. Era un buon governo, non c’erano problemi con i musulmani, la vita si svolgeva regolarmente. C’erano problemi economici dovuti all’embargo, ma era normale, ed erano problemi uguali per tutti. Guadagnavamo solamente uno o due dollari al mese, questo era il reddito medio, ma con i prezzi dell’epoca ci si viveva bene. Mosul era anche una città molto economica, i prezzi erano bassi, ciononostante le merci e il cibo erano di buona qualità e c’era la piena occupazione. Una delle città migliori in Iraq.
Come avete vissuto l’invasione statunitense del 2003?
Fu uno schock per tutti, anzitutto perché non si aveva alcuna idea di cosa sarebbe accaduto a quel punto. Ciononostante, dopo un anno di invasione le cose stavano meglio che sotto Saddam, voglio dire, nel primo anno di occupazione le cose andavano discretamente, è dopo che sono iniziati i problemi, ed è iniziato a comparire lo stato islamico [Ndr: L’intervistato non si riferisce a un gruppo politico specifico, come si comprenderà anche dal seguito, ma ad organizzazioni che, pur non detenendo il potere politico, iniziavano a detenere un potere sociale.] Non c’erano più regole allora, non c’era tranquillità: la nostra opinionje è che cellule islamiche si muovessero nell’ombra.
Le cose sono degenerate nel 2005, quando ci sono state le prime elezioni politiche e si sono presentati diversi partiti di ispirazione islamica e per di più diversa (sciiti, sunniti). A quel punto sono iniziate le divisioni settarie e si è cominciato a percepire qualcosa che prima non c’era, ossia l’identità islamica, che prima era meno importante in Iraq, anche perché l’intelligence di Saddam Hussein era molto precisa e non lasciava spazio allo sviluppo di queste tendenze.
Come si esprimevano queste “tendenze”?
Al-Qaeda e Ansar Al-Sunna [Organizzazioni politiche salafite che furono i prodromi dello stato islamico negli anni Duemila. Non è chiaro se l’intervistato abbia una nozione precisa dell’identità e differenza politica di questi gruppi, Ndr] hanno cominciato a taglieggiare i commercianti, a estorcere soldi nel quartiere cristiano, Al-Sukan: tutti i commerci pagavano. È a quel punto che mio fratello è stato ucciso da questa gente, perché sirifiutava di pagare; era il 2007. Un anno dopo, nel 2008, sono esplose delle bombe nelle case di cristiani.
Secondo voi, qual era il supporto che questi gruppi avevano nella città?
È difficile dirlo. Potrei dirti che erano appoggiati dal 20%, o dal 25%, ma il problema è che non è facile quantificare in questi termini il loro ascendente sociale. Nella comunità musulmana, quando qualcuno prende l’iniziativa e dice di agire in nome dell’Islam, chi gli è attorno è come se sentisse un richiamo, il richiamo dell’Islam.
Come è evoluta la situazione?
Nel 2008 ci sono state nuove elezioni e per questo nuove tensioni, e già allora i primi cristiani hanno cominciato ad andarsene, anche perché iniziavano ad avvenire rapimenti ai nostri danni, spesso a scopo economico. Sono iniziati anche gli omicidi degli uomini di chiesa, come il vescovo della città, che è stato decapitato, poi il prete Rashid o Farah, ucciso da Al-Qaeda.
Poco dopo, nel 2011, è arrivato il momento critico, ossia il ritiro delle forze d’occupazione statunitensi e britanniche e lo strapotere del governo Al-Maliki.
Al-Maliki ha distrutto l’Iraq. Da quando lui ha esercitato il potere, ciascuno si è sentito soltanto più parte del proprio gruppo confessionale. La seconda divisione dell’esercito iracheno, quella che era di stanza a Mosul (e che si sarebbe ritirata senza combattere nel 2014) era completamente sciita.
Cosa è accaduto quando l’Isil è entrato a Mosul?
Quando lo stato islamico è entrato a Mosul era il 5 giugno 2014, soltanto la polizia lo ha affrontato per due o tre giorni, sul lato destro del fiume. Il lato destro del fiume Tigri delimita la parte orientale della città, dove è situata la città vecchia. La popolazione curda e cristiana di Mosul era principalmente stanziata nella parte occidentale, sul lato sinistro del fiume; la parte nuova e anche più ricca. Nessuno ha aiutato la polizia mentre fronteggiatava Daesh, l’esercito non è intervenuto e, quando la polizia ha finito le munizioni, è scappata sul lato sinistro, e con lei molta altra gente che ci viveva. A questo punto, però, il governo diceva di non uscire dalla città.
Per quel che ne sapete, i poliziotti che hanno cercato di opporsi erano sunniti o sciiti?
Anche la polizia era in maggioranza sciita.
Ritenete che il governo non abbia difeso Mosul?
Certo che no, ma non era la prima volta. Voglio dire: dal 2007, fino a oggi, a Mosul esplodevano autobombe nel mezzo di tre check-point. Come avevano fatto a passare tra tre check-point?
Intendete dire che il governo di Baghdad era coinvolto?
Certo che era coinvolto. Le autobombe esplodevano persino nelle chiese.
Cosa è accaduto dopo che l’Isil ha messo in fuga la polizia nella città vecchia?
I miliziani passsati sul lato sinistro, allora siamo tutti andati via dalla città. Era il 9 giugno. È stato un ingorgo enorme, abbiamo impiegato 17-19 ore in auto per fare la strada fino a Erbil, per la quantità di automobilisti e pedoni che c’erano in marcia lungo la strada. Inoltre, la nostra auto si è rotta e abbiamo dovuto lasciarla a lato della strada e continuare a piedi fino al check-point di Erbil. È stato un giorno difficile…
Quindi non avete visto quel che è accaduto nei giorni successivi?
No, non eravamo più a Mosul. Sappiamo che lo stato islamico ha sequestrato degli uomini di chiesa e li ha rilasciati in cambio di un riscatto. Però da due giorni dopo, tra l’11 e il 14 giugno, sentendoci al telefono con i nostri conoscenti queste erano le notizie dalla città: potete tornare, lo stato islamico ha tolto i suoi check-point, non ci sarà problema, potrete vivere come prima, è soltanto un nuovo governo.
Che cosa avete fatto allora?
Confortati da queste notizie, siamo allora tornati in città, tutta la famiglia. Effettivamente non c’era nessun problema o controllo, anzi i miliziani di Daesh all’ingresso in città ci hanno detto prego, tornate pure nella vostra città. C’era anche un cartello: “Lo stato islamico vi dà il benvenuto”. Siamo stati in città quattro giorni circa, il tempo di riparare l’auto che si era rotta.
Il problema è che la città era diversa, la gente era diversa. In tanti avevano le barbe lunghe, e tutti portavano i pantaloni tirati su fino al ginocchio [Regola imposta dallo stato islamico per supposte ragioni di igiene, Ndr]. Decidiamo di tornare a Erbil.
Dopo circa venti giorni, un vicino di casa di Mosul (musulmano sunnita) mi chiama per avvisarmi che i miliziani hanno sfondato la porta di casa mia. Dice che lui ha loro chiesto che stesse accadendo, e loro hanno detto che stavano facendo un controllo per verificare che la casa fosse disabitata, ma lui sapeva che le cose non stavano così.
Allora sono ripartito per andare a vedere cosa accadeva, anche stavolta non c’erano check-point di Daesh lungo la strada; era il 3-4 luglio. I vicini e la gente di zona mi hanno confermato che i miliziani erano entrati in casa mia. Allora sono andato a una “sede” ufficiale di Daesh, che era a cento metri, e ho parlato con un miliziano, tale Abu Shaam, che parlava con accento di Mosul. Di fronte alla mia richiesta di spiegazioni, ha risposto: “Mi dispiace, siamo entrati per un controllo. Tu sei cristiano, sei mio fratello. Ti ripareremo la porta”.
Poi cos’è successo?
Dopo un’ora altri miliziani arrivano nella mia casa e dicono che l’emiro Abu Salaam mi vuole vedere nell’ufficio di Daesh. Per prima cosa mi chiede quale sia la mia religione e commenta: “Ah, sei nazareno. [“Nazrani” è il termine spregiativo con cui taluni musulmani denotano i cristiani, Ndr] Che cosa vuoi?”. Ho detto loro che ero stato fuori città per trovare dei parenti e che, tornato, avevo trovato la porta danneggiata. Lui allora mi ha chiesto: “Perchè sei tornato? Non hai paura? Non sai che questo è lo stato islamico, e tu sei nazareno?”.
Io ho detto che nel corano è scritto di non fare del male ai cristiani, ma lui mi ha interrotto dicendo: “Taci, nazareno. O ti converti all’Islam, o paghi la tassa prevista per chi non lo fa, o lasci tutte le tue cose qui e te ne vai. Altrimenti ti uccidiamo”. Ha aggiunto di lasciargli il mio numero di cellulare, perché se mi fosse stato concesso di tornare, mi avrebbe chiamato. Ho detto che ormai era sera ed era un problema partire. Ha detto che il mattino dopo non voleva più vedermi in giro. Ho lasciato tutto nella casa e sono partito alle quattro del mattino con un taxi. Pochi giorni dopo, il 18 luglio, il califfo ha reso noto che tutti i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa speciale o morire, e tutti i cristiani rimasti hanno lasciato la città.
Da allora vivete qui, ad Ainkawa. Volete mandare un messaggio all’Europa?
È l’ultimo messaggio: salvate i cristiani del medio oriente, qui non c’è più nulla per noi. A Mosul abitano milioni di persone e, nella situazione che ormai si è creata, come faccio a sapere di tutte queste persone chi è con Daesh, chi è con me? Che speranza c’è per i miei figli qui, a Erbil? L’Europa deve lasciarci entrare, Daesh non ci ha lasciato nulla. Turchia e Libano non danno visti. L’Italia, la Francia non sanno cosa sta accadendo qui? Non abbiamo soldi, ci hanno preso tutto, cosa asspettano a farci intrare in Europa? Qui non c’è futuro per noi.
Abbiamo visto troppi massacri: noi, i nostri padri, i nostri nonni. Non vogliamo più stare qui. È iniziato millequattrocento anni fa, quando a Najaf [Città dell’Iraq meridionale, oggi santa per l’Islam, Ndr] c’erano 1.500 chiese [sic], e continuano a spingerci sempre più a nord. Amiamo tantissimo Mosul, ma o ci mandano dei soldati a proteggerci, oppure non abbiamo scelta: dobbiamo andarcene. Perchè ci fate stare come degli idioti in Giordania, in Libano, in Turchia? Se andiamo in Giordania per due o tre anni i figli non potranno studiare, saremmo considerati diversi, come un problema per quel paese, non troveremo lavoro. È ovvio che dobbiamo venire in Europa.
Abbiamo ripreso i reportage dalla rete: un lavoro straordinario, quello che i giornalisti dei media italiani presunti grandi… si guardano bene dal fare. L’IMMAGINE E’ DI ZEROCALCARE; in “bottega” abbiamo parlato dei suoi reportage a Rojava qui «Kobane Calling»: in viaggio con Zerocalcare e qui Piangere e ridere, in modo convulso (db)