Arabia Saudita: repressione, torture e armi

Comunicati di Amnesty International e il link a un articolo di Giorgio Beretta

La protesta di Amnesty di fronte all’ambasciata saudita a Roma nel 2015. Foto ripresa da Comune-Info

 

Il Papa arriva negli Emirati arabi uniti: l'”anno della tolleranza” è un’espressione priva di senso di fronte alla costante repressione.

comunicato di Amnesty International

Alla vigilia della visita di papa Francesco negli Emirati arabi uniti, Amnesty International ha ricordato la costante repressione della libertà d’espressione nel paese e ha chiesto al papa di segnalare alle autorità emiratine i casi dei difensori dei diritti umani in carcere.

“Il governo degli Emirati arabi uniti intende chiamare il 2019 “l’anno della tolleranza” e vuole usare la visita del papa come una prova di rispetto delle diversità. Ciò vuol dire che il paese è pronto a porre fine alla sistematica repressione di ogni forma di dissenso e di critica?”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International.

“Dal 2011 le autorità hanno sistematicamente ridotto al silenzio le voci critiche, come quelle degli attivisti, dei giudici, degli avvocati, degli accademici, degli studenti e dei giornalisti attraverso gli arresti arbitrari, le sparizioni forzate e la tortura”, ha sottolineato Maalouf”.

“Ci vorrà ben altro che una serie di incontri simbolici per nascondere questa drammatica situazione dei diritti umani. Gli squilli di tromba per la visita di papa Francesco non saranno ascoltati dai molti difensori dei diritti umani, tra cui Ahmed Mansoor, Nasser bin Ghaith e Mohammed al-Roken, che stanno scontando lunghe condanne solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione. Chiediamo a papa Francesco di parlare della loro situazione coi suoi interlocutori e di sollecitare il loro rilascio immediato e incondizionato”, ha proseguito Maalouf.

“Se gli Emirati arabi uniti vorranno seriamente intraprendere le riforme, dovranno abolire tutte le leggi e le prassi che perpetuano la discriminazione e rilasciare tutti i prigionieri di coscienza”, ha concluso Maalouf.

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Attiviste saudite in carcere, Amnesty chiede indagine indipendente

Torture e abusi sessuali contro un gruppo di attiviste dell’Arabia Saudita in detenzione arbitraria dal maggio 2018. E’ la denuncia di Amnesty International che ha ottenuto nuove informazioni che “richiamano quelle già ricevute lo scorso novembre e rendono urgentemente necessaria un’indagine indipendente”.
Secondo le testimonianze raccolte, dichiara l’organizzazione, 10 attiviste in difesa dei diritti umani sono state torturate, sottoposte ad abusi sessuali e a ulteriori maltrattamenti nei primi tre mesi di detenzione, quando si trovavano in un centro di detenzione informale in una località sconosciuta.

Leggi qui tutto l’articolo pubblicato su Redattore sociale.it

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Nuove denunce di torture e abusi sessuali sulle attiviste saudite in carcere. Amnesty International sollecita indagine indipendente

Amnesty International ha ottenuto nuove informazioni sulle torture e gli abusi sessuali contro un gruppo di attiviste dell’Arabia Saudita in detenzione arbitraria dal maggio 2018. Queste informazioni richiamano quelle già ricevute lo scorso novembre e rendono urgentemente necessaria un’indagine indipendente.

Secondo le testimonianze raccolte, 10 difensore dei diritti umani sono state torturate, sottoposte ad abusi sessuali e a ulteriori maltrattamenti nei primi tre mesi di detenzione, quando si trovavano in un centro di detenzione informale in una località sconosciuta.

A un’attivista è stato fatto credere per un mese che i suoi familiari erano morti. Due attiviste sono state costrette a baciarsi di fronte agli uomini che le stavano interrogando. A un’altra attivista è stata versata acqua in bocca mentre urlava per le torture. Altre ancora sono state torturate con le scariche elettriche.

“Siamo molto preoccupati per lo stato di salute di queste attiviste, che da nove mesi sono arbitrariamente detenute solo per aver difeso i diritti umani”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International.

“Le autorità saudite hanno più volte dato prova di non voler proteggere i detenuti dalle torture e di non avere intenzione di indagare sulle denunce di tortura. Per questo chiediamo all’Arabia Saudita che gli organismi indipendenti di monitoraggio sui diritti umani siano fatti entrare nel paese e possano visitare le attiviste detenute”, ha aggiunto Maalouf.

Nel novembre 2018 Amnesty International aveva rivelato che numerosi attivisti in prigione da maggio, tra cui diverse donne, erano stati ripetutamente sottoposti a scariche elettriche e a frustate; a seguito di queste torture, avevano difficoltà a camminare o a rimanere in piedi. Le nuove testimonianze riguardano sempre lo stesso gruppo di detenuti.

Un mese dopo, Amnesty International aveva scritto alle autorità saudite chiedendo che gli organi indipendenti di monitoraggio sui diritti umani, compresi i meccanismi sui diritti umani delle Nazioni Unite e la stessa Amnesty International, potessero incontrare i detenuti. Finora non è arrivata alcuna risposta.

In compenso, il ministero saudita per l’Informazione aveva respinto le accuse come “prive di fondamento”. La Commissione per i diritti umani, di emanazione governativa, e l’ufficio della Procura avrebbero nel frattempo visitato le detenute per indagare sulle loro denunce.

“Chiediamo alle autorità saudite di rilasciare immediatamente e senza condizioni tutte le persone imprigionate per aver difeso pacificamente i diritti umani. Chiediamo inoltre che organi indipendenti di monitoraggio sui diritti umani indaghino sulle denunce di tortura per accertare in modo imparziale i fatti e identificarne i responsabili”, ha concluso Maalouf.

Ulteriori informazioni

Le attiviste e gli attivisti per i diritti umani arbitrariamente arrestati nel maggio 2018 restano in carcere senza accusa e privi di rappresentanza legale.

A dicembre alcune attiviste – tra cui Loujain al-Hathloul, Eman al-Nafjan, Aziza al-Yousef, Shadan al-Anezi e Nour Abdulaziz – sono state trasferite dalla prigione Dhahban di Gedda alla prigione al-Ha’ir della capitale Riad.

Samar Badawi e Amal al-Harbi restano detenute a Gedda. Nassima al-Sada, arrestata nel giugno 2018, si trova nella prigione al-Mabahith di Damman.

Le altre attiviste in carcere sono Mayaa al-Zahrani, Abir Namankani, Ruqayyah al-Mharib e Hatoon al-Fassi.

Tra gli attivisti ancora in carcere figurano Abdulaziz al-Mish’al, Mohammad al-Rabe’a, Khalid al-Omeir (in passato già imprigionato per le sue attività in favore dei diritti umani) e Mohammad al-Bajadi, membro fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici.

A dicembre è stato rilasciato il noto avvocato Ibrahim al-Modeimigh, ma non si conoscono le condizioni del rilascio.

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SENZA DIMENTICARE CHE ARABIA SAUDITA E ALTRI PETROL-STATI USANO LE ARMI COME SI PUO’ LEGGERE NEL COMUNICATO QUI SOTTO E NEL LINK ALL’ARTICOLO DI GIORGIO BERETTA (nota della “bottega”)

Yemen, Amnesty International: Le armi fornite dall’Occidente agli Emirati arabi uniti finiscono nelle mani delle milizie.

Al termine di un’indagine basata su fonti open source Amnesty International ha denunciato oggi il crescente pericolo legato alla cessione alle milizie che combattono in Yemen di armi fornite agli Emirati arabi uniti da stati occidentali.
Deviando illegalmente e irresponsabilmente le consegne ricevute, gli Emirati arabi uniti sono diventati il principale fornitore di veicoli blindati, sistemi di mortaio, fucili, pistole e mitragliatrici a milizie presenti in Yemen che compiono crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani in modo del tutto impunito.
“Mentre Usa, Regno Unito, Francia e altri stati europei sono giustamente criticati per le forniture di armi alla Coalizione a guida saudita e l’Iran è implicato nella fornitura di armi al gruppo armato huthi, lo Yemen sta rapidamente diventando un porto franco per le milizie sostenute dagli Emirati arabi uniti”, ha dichiarato Patrick Wilcken, ricercatore su armi e diritti umani di Amnesty International.
“Le forze armate emiratine ricevono armi per un valore di miliardi di dollari dagli stati occidentali e da altri fornitori solo per deviarle a milizie operanti in Yemen che non rispondono a nessuno e sono note per commettere crimini di guerra”, ha aggiunto Wilcken.
“La proliferazione di questi gruppi armati ha conseguenze disastrose sulla popolazione yemenita, che già ha subito migliaia di morti a causa degli attacchi aerei e che a milioni patisce la fame come conseguenza della guerra”, ha proseguito Wilcken.
I gruppi armati destinatari finali di questi loschi traffici – tra cui i “Giganti”, la “Cintura di sicurezza” e le “Forze di elite” – sono addestrati e finanziati dagli Emirati arabi uniti ma non rispondono ad alcun governo. Alcuni di loro sono stati accusati di crimini di guerra, anche nel corso della recente offensiva contro la città portuale di Hodeidah e nella gestione del sistema di prigioni segrete nel sud dello Yemen.
Secondo dati disponibili, da quando nel marzo 2015 è iniziato il conflitto dello Yemen, stati occidentali e altri hanno fornito agli Emirati arabi uniti armi per un valore di oltre 3,5 miliardi di dollari. Si tratta di armi pesanti convenzionali (come aerei e navi militari) così come di armi leggere, piccole armi, loro componenti e munizioni.
Nonostante le gravi violazioni dei diritti umani attribuite agli Emirati arabi uniti e alle milizie alleate, numerosi stati hanno recentemente fornito armi alle forze emiratine. L’elenco comprende Australia, Belgio, Brasile, Bulgaria, Corea del Sud, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Stati Uniti d’America, Sudafrica e Turchia.
Dall’analisi sulla battaglia di Hodeidah, Amnesty International ha tratto la conclusione che veicoli blindati e altre forniture dirette agli Emirati arabi uniti sono ormai ampiamente usate dalle milizie.
Un’ampia gamma di veicoli blindati equipaggiati con mitragliatrici forniti dagli Usa (tra cui i modelli M-ATV, Caiman e MaxxPro) è finita nelle mani delle milizie i “Giganti”, la “Cintura di sicurezza” e la “Forza di elite Shabwani”.
Mitragliatrici leggere Minimi di produzione belga, con ogni probabilità destinate agli Emirati arabi uniti, sono a loro volta in possesso dei “Giganti”. L’elenco delle armi usate dalle milizie pro-Emirati a Hodeidah comprende mitragliatrici Zastava MO2 Coyote di produzione serba e il sistema di mortaio da 120 millimetri montato su veicoli blindati denominato Agrab, di produzione singaporeana. Gli Emirati arabi uniti sono l’unico stato dell’area ad acquistare questo sistema combinato d’arma.
In altre zone dello Yemen, gli Emirati arabi uniti hanno direttamente addestrato e finanziato le milizie, tra cui la “Cintura di sicurezza” e le “Forze di elite”, che dirigono una serie di centri segreti di detenzione chiamati “siti neri”.
Amnesty International e altre fonti hanno documentato le responsabilità di queste milizie nelle sparizioni forzate e in altre violazioni dei diritti umani che si verificano in quei centri, tra cui torture con scariche elettriche, il waterboarding (semi-annegamento), le sospensioni dal soffitto, le umiliazioni sessuali, l’isolamento prolungato, le squallide condizioni detentive e l’inadeguatezza delle forniture di cibo e acqua.
Le milizie sostenute dagli Emirati arabi uniti che gestiscono i “siti neri” usano fucili di fabbricazione bulgara e veicoli blindati made in Usa.
Molti degli stati che continuano a fornire armi agli Emirati arabi uniti sono parte del Trattato globale sul commercio di armi. Alcuni hanno ulteriori obblighi legali ai sensi delle normative dell’Unione europea o delle leggi nazionali, che vietano di trasferire armi che potrebbero essere usate per compiere crimini di guerra. Continuando a inviare armi agli Emirati arabi uniti, nonostante le numerose prove sul loro uso per commettere crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani, questi obblighi vengono completamente aggirati.
Amnesty International chiede a tutti gli stati di interrompere le forniture di armi a tutte le parti coinvolte nel conflitto dello Yemen fino a quando vi sarà il rischio concreto che esse potranno essere usate per compiere o favorire gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani. Danimarca, Finlandia, Norvegia e Olanda hanno recentemente annunciato la sospensione delle forniture agli Emirati arabi uniti.
“Con l’approssimarsi del prossimo giro di negoziati sulla pace in Yemen, gli stati fornitori di armi devono riflettere seriamente su come i loro trasferimenti stiano continuando ad alimentare, direttamente o indirettamente, crimini di guerra e altre gravi violazioni dei ditti umani. La proliferazione di milizie sostenute dagli Emirati arabi uniti ma che di fatto non rispondono ad alcuna autorità sta peggiorando la crisi umanitaria e pone una crescente minaccia nei confronti della popolazione civile yemenita”, ha sottolineato Wilcken.
“Solo pochi paesi hanno fatto la scelta giusta fermando l’invio di armi nel devastante conflitto dello Yemen. Gli altri dovranno farlo presto, altrimenti dovranno assumersi la loro parte di responsabilità per il costo devastante che questi miliardi di dollari di armi stanno facendo pagare alla popolazione civile dello Yemen.”
Roma, 6 febbraio 2019
L’indagine “When arms go astray: Yemen’s deadly new threat of arms diversion to militias” è consultabile qui.

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Marina: ancora affari di guerra in Arabia Saudita

di Giorgio Beretta

Una fregata parteciperà alla fiera delle armi negli EAU e farà tappa in Arabia. Paesi per i quali il Parlamento Ue chiede l’embargo sulle armi.

Leggi qui l’articolo pubblicato su Osservatorio Diritti.

 

Redazione
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Un commento

  • La Bottega del Barbieri

    ARABIA SAUDITA: INIZIATO IL PROCESSO NEI CONFRONTI DI 11 ATTIVISTE. TRA I CAPI D’ACCUSA, “ESSERE IN CONTATTO CON AMNESTY INTERNATIONAL”

    Amnesty International ha definito “una preoccupante escalation della repressione” il processo, iniziato presso un tribunale della capitale Riad, nei confronti di 11 attiviste saudite per i diritti umani.
    Alcune delle imputate sono accusate di aver promosso campagne per i diritti delle donne e aver chiesto la fine del sistema del guardiano maschile. Altre devono rispondere del “reato” di aver contattato organizzazioni internazionali – tra cui Amnesty International -, organi d’informazione e gruppi di attivisti.
    “Queste accuse sono l’ultimo esempio di quanto le autorità saudite usino il sistema giudiziario e la legge per ridurre al silenzio le attiviste pacifiche e impedire loro di occuparsi della situazione dei diritti umani nel paese. Il processo è un’ulteriore macchia sulla drammatica situazione dei diritti umani e dimostra come le riforme tanto promosse dalle autorità siano parole vuote”, ha dichiarato Samah Hadid, direttrice delle campagne di Amnesty International sul Medio Oriente.
    “Le attiviste sotto processo sono tra le più coraggiose donne che difendono i diritti umani in Arabia Saudita. Non solo sono state diffamate dagli organi d’informazione filo-governativi per il loro pacifico lavoro in favore dei diritti umani, ma hanno anche subito orrende violenze fisiche e psicologiche in carcere. Sollecitiamo le autorità saudite ad annullare queste oltraggiose accuse e a rilasciarle immediatamente e senza condizioni”, ha concluso Hadid.
    Ulteriori informazioni
    Le attiviste sotto processo sono Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan, Aziza al-Yousef, Amal al-Harbi, Ruqayyah al-Mharib, Nouf Abdulziaz, Maya’a al-Zahrani, Shadan al-Anezi, Abir Namankni, Hatoon al-Fassi e un’altra persona di cui non è noto il nome. La prossima udienza è prevista il 27 marzo.

    Amnesty International continua a chiedere alle autorità saudite di rilasciare immediatamente e senza condizioni le attiviste. In attesa del loro rilascio, le autorità saudite dovranno consentire alle imputate di avere un avvocato di loro scelta e ai rappresentanti diplomatici di assistere alle udienze.

    Amnesty International ha infine rinnovato la sua richiesta di inviare osservatori indipendent i in Arabia Saudita per indagare sulle denunce di torture e abusi sessuali fatte dalle detenute.

    Roma, 13 marzo 2019

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