Repressione nelle carceri latinoamericane

Mancano politiche di reinserimento dei detenuti, gli stati privilegiano il sistema punitivo e spesso sono gli stessi gruppi criminali a dettare le regole all’interno degli istituti di pena.

di David Lifodi

“Le carceri con il più basso indice di violenza tra i detenuti e dove minori sono gli episodi di violenza compiuti dagli agenti della polizia penitenziaria sono quelle controllate in gran parte dai reclusi”. A giungere a queste conclusioni è Gustavo Fondevila, docente argentino del Centro de Investigación y Docencia de México (Cide), uno dei maggiori studiosi delle tematiche carcerarie in America latina.

Ritenuta la zona del pianeta dove si verificano il maggior numero di omicidi su scala mondiale, l’America latina è nota per il problema del sovraffollamento carcerario, eppure, paragonando la situazione di Brasile, Argentina, Cile, Perù, El Salvador e Messico, Fondevila evidenzia che dove è maggiore il potere delle pandillas o delle bande criminali, per quanto possa risultare paradossale, avviene un minor numero di episodi di violenza. A sostegno della sua tesi i dati dell’Encuesta a Población en Reclusión de Latinoamérica. In Cile e in Argentina, la percentuale di detenuti che hanno subito violenze da parte della polizia oscilla tra il 14% e il 18% rispetto al Brasile e ad El Salvador, paesi dove non si supera il 2,6% e buona parte degli istituti penitenziari sono controllati dalla stessa malavita. Spiega provocatoriamente il docente del Cide: “Il governo criminale fa un uso della violenza più oculato rispetto al governo dello Stato”. Si tratta di un pesante atto d’accusa nei confronti dei governi, che spesso agiscono secondo una logica esclusivamente repressiva.

Ovviamente, la forte influenza delle pandillas non è necessariamente sinonimo della pacificazione carceraria, non a caso spesso giunge la notizia di violenti scontri tra bande rivali nelle carceri salvadoregne o brasiliane, ma nel caso in cui si debba far fronte comune contro il potere costituito, in questo caso gli stati tramite i loro agenti, si verifica un paradosso come quello del Cile, dove il tasso di omicidi si avvicina molto a quello europeo, ma è ben più alto all’interno delle prigioni. La pace sociale è garantita fin quando non arrivano all’interno del carcere detenuti di clan rivali. Fin quando ci sono reclusi appartenenti principalmente alla pandilla salvadoregna Salvatrucha – 13 non c’è alcun problema, ma la situazione diventa difficilmente gestibile se arrivano pandilleros di Barrio 18 e lo stesso accade in Brasile tra Primeiro Comando da Capital e il Comando Vermelho.

In generale, tuttavia, le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri latinoamericane restano infernali, a meno che i reclusi non siano uomini politici spesso finiti in cella per ragioni legate al narcotraffico o ex repressori dei regimi militari degli anni ’70-’80: in questi casi si può parlare di carcerati di lusso, come ad esempio l’ex senatore colombiano Juan Carlos Martínez, che celebrò la sua festa di compleanno invitando numerosi amici (paramilitari e narcotrafficanti) in cella. Non si tratta dell’unico privilegiato: i leader delle organizzazioni criminali dispongono anche di sale dove ricevere i visitatori, il televisore e addirittura saloni per le feste, come nel caso del Cárcel La Picota di Bogotá.

La ricercatrice messicana Elena Azaola, nel suo lavoro intitolato Situación de las prisiones en América Latina, sottolinea che in gran parte dei paesi sudamericani, come del resto altrove, mancano politiche dedicate al reinserimento dei detenuti nella vita civile e la giustizia assume spesso un ruolo esclusivamente repressivo, motivo per cui le carceri sono piene di condannati per reati minori per i quali non sarebbe necessario il carcere. In Venezuela ed El Salvador, ad esempio, la popolazione carceraria è assai superiore al numero massimo consentito. Nelle celle delle carceri salvadoregne, spesso si dorme su tre livelli: per terra coloro che sono appena arrivati, su un tavolo coloro che già da un po’ sono detenuti, infine su un’amaca, quasi a tetto, i reclusi più importanti. Inoltre, la mancanza di programmi di reinserimento nella società fa si che molti detenuti tornino di nuovo a delinquere, soprattutto coloro che escono dagli istituti penitenziari prima dei 30 anni. Sono significativi i costi che si accolla lo stato per ciascun detenuto. Soltanto per restare nel continente americano, se negli Stati uniti la spesa oscilla tra gli 80 e gli 85 dollari per ciascun recluso, la cifra diminuisce decisamente in paesi come il Messico ed El Salvador, dove non vengono superati, rispettivamente, i 12 e i 4 dollari.

In definitiva, l’assenza dello Stato, la sua attitudine esclusivamente repressiva e il proliferare del crimine organizzato rendono le carceri latinoamericane tra le peggiori al mondo. La prossima settimana questa Finestra latinoamericana si occuperà della situazione altrettanto drammatica delle recluse negli istituti penitenziari femminili.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

Un commento

  • Lavoro molto importante e da studiare con attenzione anche dopo la prima lettura;
    peraltro una “risposta” a chi vagheggia la “soluzione” di “mandare le persone detenute nel oro pase di origine” come se si potessero alleviare i problemi delle carceri italiane peggiorando quelle di altri paesi.

    Vito Totire

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