Respirando respirando

articoli di Pina Piccolo, Lucas Johnson, don Andrea Bigalli, Alessandra Ballerini, Donatella Di Cesare, Alessandro Ghebreigziabiher, Frei Betto e un video di Daniel Mercadante

 

 

Le proteste USA oltre le semplificazioni all’italiana – Pina Piccolo

L’esigenza di scrivere queste riflessioni su quanto si muove negli USA nasce per me da un profondo senso di frustrazione rispetto alle varie narrazioni che se ne fanno in Italia, e non solo nei canali dei media mainstream. Una mia prima strategia per affrontare il problema è stata quella di diffondere tramite Facebook una gran quantità di articoli e riflessioni provenienti da fonti statunitensi, ma ho trovato che pure queste sono soggette a una lettura attraverso una lente ideologica prettamente italiana.

Riflettendo sul fatto che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi è molto probabile che la situazione si evolva verso fasi diverse e di difficile interpretazione che sgorgano da questa prima scintilla e che, quindi, si presteranno a ulteriori travisamenti, credo che potrebbe essere utile da parte mia delineare certi aspetti che mancano nelle analisi messe in campo in Italia. Naturalmente non pretendo di essere esaustiva o di non prendere abbagli, ma penso che la mia lunga permanenza in quel paese e il mio contatto ininterrotto negli anni possa essere utile. Per facilitare un po’ le cose ho pensato di dividere queste riflessioni in quattro nuclei e di offrire nel testo i link a fonti statunitensi da cui prendo spunto.

  1. La specificità delle “proteste per George Floyd”

A pagare le conseguenze sociali ed economiche del Covid-19 sono state soprattutto le fasce più vulnerabili della società statunitense.

Le proteste e le rivolte legate al linciaggio pubblico di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis sono ormai in corso ininterrottamente da oltre due settimane su tutto il territorio statunitense, e hanno dato luogo a molte proteste di solidarietà su scala internazionale. Esse non sono l’ennesima reazione, forse un po’ più forte, alle uccisioni impunite di neri da parte della polizia, piuttosto segnalano un salto qualitativo nella lotta e nel livello di scontro negli USA. Segnano il punto di ebollizione non solo rispetto al razzismo e all’afrofobia, alla violenza e all’impunità che si manifesta in forma di brutalità poliziesca all’interno di un sistema altamente razzializzato, ma sono anche il risultato della confluenza di un certo numero di altri nodi che ne determinano la sua particolare forma rispetto a episodi di resistenza precedenti. Tra i fattori che confluiscono in questa lotta, i più importanti direi che sono:

  1. a) la crisi del Covid-19, con la mancata risposta da parte del governo e il fatto che a pagarne le conseguenzein termini di più di 100,000 morti sono stati gli strati più vulnerabili della società(tra la popolazione nera vi è stato un decesso ogni 2000 persone, per un totale di circa 23-24,000 persone su 100,000 morti complessivi, mentre la popolazione nera si attesta sul 13,4% della popolazione statunitense);
  2. b) la disoccupazione e le difficoltà economicheche sono conseguite al lockdown, con 40 milioni di nuovi disoccupati (il tasso più alto di disoccupazione dalla Grande Depressione) e sacrifici sempre a carico delle fasce già precariee a fronte della maniera spudorata in cui ne hanno tratto guadagno le banche e le mega aziende, proseguendo così la tendenza ad allargare ulteriormente la forbice tra le classi;
  3. c) la disaffezionedi larghe fasce della popolazione nei confronti delle classi egemonicheche dagli anni ’70 del Novecento hanno perseguito politiche neoliberiste, a prescindere dalla loro appartenenza al partito democratico o repubblicano. Quella che Cornel West identifica come la delegittimazione di politici, professionisti, università e media. Le politiche neoliberiste hanno avuto come conseguenza la distruzione degli ammortizzatori sociali, delle infrastrutture, di qualsiasi istituzione ereditata dagli anni del New Deal o sorta come concessione delle lotte degli anni ’60 e ’70 del Novecento che potesse proteggere le diverse classi di lavoratori. Al posto di queste pur tenui protezioni, a partire da Reagan, seguito da Clinton senza soluzioni di continuità, si è proceduto alla criminalizzazione di larghe fasce della popolazione, particolarmente neri, nativi americani, ispanici, seguito poi negli ultimi anni dalla criminalizzazione degli immigrati e dei richiedenti asilo. Mentre il Paese si deindustrializzava e la produzione si spostava verso l’Asia, negli USA si costruiva, in varie fasi, una sorta di nuova economia, un impianto di criminalizzazione e militarizzazione, cospicuamente razzializzato, quello che viene definito the prison industrial complex, che comprende la militarizzazione della polizia che si è vista dispiegata in queste ultime rivolte. Il tutto naturalmente si staglia anche contro il quadro della situazione internazionale in cui l’impero americano perde quota, pur proseguendo le sue politiche predatorie e di devastazione a livello internazionale e militarizzando lo stesso paese al suo interno, come messo in evidenza da Cornel West nella tavola rotonda di cui sotto.

L’importanza della confluenza di tutti questi fattori per quanto riguarda le ultime rivolte viene sottolineata nella tavola rotonda organizzata da Amy Goodman il primo giugno 2020 per il programma radio Democracy Now, con interventi di Cornel West, Keeanga Yamahtta-Taylor e Bakari Sellers, attualmente tra i più importanti intellettuali, studiosi ed attivisti neri nel contesto statunitense.

  1. La leadership delle rivolte e il ruolo della Generation Z

Le proteste mostrano un importante coinvolgimento della Generation Z. Il cartello riporta la scritta: “Voi morirete di vecchiaia, noi di cambiamento climatico”.

Un aspetto rilevante che è forse difficile decifrare per chi segue le vicende statunitensi da lontano è legato alla composizione, leadership e rivendicazioni delle rivolte. Seppure molte delle proteste siano spontanee, vi è un orientamento, un’organizzazione interna che si manifesta chiaramente nelle parole d’ordine, i bersagli e le modalità di resistenza, anche se poi vengono agite in una varietà di modi. Al momento, a dare continuità è lo spirito della leadership nera formatasi particolarmente dopo le ribellioni di Ferguson e la nascita di Black Lives Matter in piena epoca Obama, una leadership che evidenzia il protagonismo di giovani donne in gran parte formate dallo spirito di intersezionalità, considerato che a fondarla nel 2013 sono state tre giovani donne nere nate agli inizi degli anni ’80 (Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi). In queste ultime manifestazioni si è evidenziato anche il protagonismo delle più giovani, con manifestazioni di migliaia di persone organizzate da diciasettenni – per esempio a San Francisco (nel quartiere Mission e sul Golden Gate), a Nashville, a Chicago e anche in piccoli centri in tutti gli Stati Uniti.

 

Questo non dovrebbe stupirci visto anche come in anni recenti sono stati i giovanissimi a muoversi e a prendere iniziativa su questioni di violenza e sparatorie nelle scuole perfino a livello di scuole elementari (ad esempio Naomi Wadler). Sempre all’interno dell’idea di militanza giovanile non possiamo dimenticare il protagonismo in tutto il mondo di ragazzi molto giovani su questioni ambientali e di cambiamento climatico, il tutto con una partecipazione multirazziale negli USA.

A proposito della leadership femminile, un altro fattore non trascurabile è l’aumento di accesso all’istruzione di grado superiore delle donne nere che nel 2020 ha sorpassato quello di altri raggruppamenti demografici pur non garantendo grandi miglioramenti a livello di lavoro e retribuzione.

In una esercitazione militare di qualche anno fa, Il Pentagono aveva previsto per il 2025 l’entrata in scena di questa categoria, la Generation Z (che comprende i nati tra metà anni 1990 e metà anni 2010), e aveva quindi programmato vari scenari e cosa fare per domare le proteste che questo gruppo avrebbe senz’altro messo in campo. È interessante leggere le qualità che gli analisti del Pentagono attribuiscono a questa generazione, specialmente in relazione a quelle precedenti. Smentendo però le previsioni, questo indocile gruppo di giovani è arrivato sulle scene con ben cinque anni di anticipo, spiazzando un po’ chi di dovere.

Molti di loro provengono sia da esperienze di attivismo contro il razzismo che da iniziative per l’ambiente, contro le sparatorie nelle scuole, etc., e sono rodati in proteste caratterizzate da una partecipazione multirazziale e molto aperta su questioni di genere, cosa che le distingue da movimenti di resistenza precedenti. La Generation Z ha grande dimestichezza con la tecnologia (basti pensare alle manifestazioni descritte negli articoli in cui le organizzatrici si sono conosciute tramite Twitter e hanno usato quello strumento per organizzare), sono sicuri di essere tecnologicamente più preparati dei genitori e dei nonni (“OK, Boomer”). Per quanto riguarda i giovani neri, molti dei ragazzi e delle ragazze sono cresciuti all’epoca degli otto anni della presidenza Obama, per cui a livello di aspirazioni sembrava ci fosse maggiore spazio e legittimità identitaria. Sennonché già in quegli anni, e sicuramente in quelli successivi, la base materiale si è tutt’altro che adeguata alle loro aspettative, cioè, come prospettiva si sono trovati davanti da un lato hanno il prison industrial complex, un ulteriore deterioramento delle condizioni economiche, delle politiche degli alloggi che li vede sempre più marginalizzati a causa della gentrificazione, costretti a vivere in aree di grande inquinamento (basti pensare all’acqua avvelenata di piombo di Flint).

In tutto questo però non sono l’unico gruppo a risentire della morsa e degli effetti del neoliberismo, tutta la generazione, a prescindere dal colore della pelle, ha aspettative di vita minori di quelle della generazione dei genitori. In questi anni, sia per questioni domestiche che internazionali, gli USA si sono rivelati essere, come dice Cornel West nella tavola rotonda, “a failed social experiment” che è arrivato però adesso all a sua ora della verità. Sempre in relazione alle condizioni di vita, la studiosa Keeanga Yamahtta-Taylorparla della condizione di “death by despair” che affligge una grande fetta della popolazione e si esprime in suicidi, dipendenza da oppioidi (the opioid epidemic) e alcolismo.

  1. Vari gradi di cooptazione esterna

Per Tamika Mallory, focalizzarsi sui saccheggi distoglie l’attenzione dal razzismo sistemico e dal suprematismo bianco, che sono alla radice delle rivolte.

Sebbene queste proteste segnino un punto di ebollizione, esiste anche la continuità con movimenti e fasi precedenti che tendevano a manifestarsi attorno ad argomenti singoli. Ad esempio, nelle ribellioni contro Trump organizzate subito dopo la sua elezione è stata messa in campo la questione di Antifa, che ora il governo cerca di manipolare per dividere i moderati e i manifestanti meno collaudati dai gruppi con una prospettiva più radicale, e seminare divisioni tra i partecipanti neri alle proteste e quelli bianchi insinuando che questi ultimi siano infiltrati, quindi attribuendo a loro i saccheggi di cui verranno sicuramente incolpati i neri e insistendo che le manifestazioni debbano limitarsi a cortei che non minaccino in alcun modo la proprietà privata. A questo proposito è esemplare un intervento di Tamika Mallory, tra le coordinatrici della Women’s March del 2017 e del 2019, che contestualizza in un sistema più ampio di capitalismo ed imperialismo le responsabilità del concetto di saccheggio e il fatto che focalizzarsi su di essi distoglie l’attenzione dal razzismo sistemico e dal suprematismo bianco che sono alla radice delle rivolte. Queste riprese realizzate la notte del 30 maggio a Minneapolis danno il senso della situazione e dei diversi punti di vista all’interno del movimento.

L’altro elemento che si fatica a inquadrare è l’attività dei gruppi di estremisti di destra e suprematisti bianchi in relazione alle manifestazioni. In questi quindici giorni, la loro presenza si è manifestata con una gamma di interventi che vanno dall’aggressione diretta a opera di singoli terroristi che cercano di investire e uccidere i manifestanti (per esempio a Seattle, come è già successo a Charlotsville in Virginia nel 2017 in una manifestazione contro i suprematisti bianchi di “Unite the Right”) o di ferirli perfino con archi e frecce, a interventi più subdoli mirati a minare la legittimità delle manifestazioni mettendo in atto saccheggi e distruzioni da far ricadere sui manifestanti. Si è notato una certa riluttanza da parte di commentatori di sinistra a voler riconoscere l’impatto di queste attività per timore che vadano a delegittimare i saccheggi come espressione lecita di rabbia dei manifestanti. Comunque la questione promette di assumere una certa importanza anche perché diventa sempre più esplicita da parte delle milizie e dei suprematisti bianchi la volontà di accelerare lo scontro per arrivare a una seconda guerra civile americana o ‘Boogaloo’, come viene definita da alcuni di essi.

 

Un altro elemento da tenere in considerazione è la vicinanza ai tempi delle elezioni presidenziali che potrebbe in un certo senso trascinare le istanze del movimento dentro il calderone. Appare abbastanza chiaro a questo punto che la vicepresidenza democratica dovrà andare a una donna nera e c’è chi caldeggia perfino Condoleezza Rice come la più adatta, nonostante la sua appartenenza allo schieramento repubblicano. Se si verificherà una congiuntura di questo tipo sarà davvero messa alla prova la connessione tra politica interna e politica estera, cosa che negli anni ’60 del Novecento aveva radicalizzato Martin Luther King nei suoi ultimi anni e che potrebbe provocare un ulteriore balzo di qualità del movimento in relazione al suo atteggiamento verso l’imperialismo americano.

L’altra faccia della medaglia naturalmente sono i tentativi di cooptazione del movimento a cui ambiscono i politici sia a livello nazionale che locale, specialmente quelli democratici ma anche repubblicani (basti pensare al distanziamento da Trump attuato da George W. Bush, Mitt Romney e Colin Powell con riconoscimento del valore delle manifestazioni) e che si esprimono in tentativi di ingraziarsi il movimento a livello simbolico. Basti pensare all’ostentazione dei pezzi di tessuto kente da parte dei politici democratici (mossa curiosamente suggerita dal Black Caucus del Congresso americano) e inginocchiamenti vari (scopiazzati perfino dai politici italiani), tutte manovre che finora hanno sortito l’effetto di fare scattare dall’altra parte la denuncia di ipocrisia.

  1. I possibili sviluppi della crisi

Nei movimenti di protesta, in molti chiedono tagli ingenti alla polizia se non addirittura la sua abolizione completa a favore di politiche di controllo diretto da parte delle comunità.

In primo luogo, queste rivolte promettono di essere più di una fiammata ma a questo punto della crisi è difficile capire le prossime mosse, specialmente se si limiteranno ad azioni simboliche (ad esempio l’abbattimento di statue come abbiamo visto in questi ultimi giorni); se saranno condizionate dagli scontri e i confronti con la polizia che continuano a esserci su basi giornaliere per esempio anche adesso a Seattle, o se andranno ad intaccare la struttura profonda del razzismo strutturale e del neoliberismo in maniera più incisiva (qualche giorno fa Tamika Mallory accennava al fatto che le prossime azioni dovranno essere di accompagnamento al percorso giudiziario seguito dai vari casi, specialmente quello dell’omicidio di Breonna Taylor che è quello che ha ricevuto meno attenzione e simboleggia anche la posizione secondaria a cui sono stati relegati i casi di brutalità poliziesca relativi a donne). Tra le misure pratiche accampate come rivendicazioni vi è quella più moderata di riforma della polizia per eliminare l’impunità e garantire una maggiore trasparenza nelle assunzioni (si è chiarito nel corso degli anni che molti poliziotti appartengono a gruppi di estrema destra o di supremazia bianca). Ma per adesso prevalgono nel movimento le istanze più radicali che oscillano tra tagli ingenti alla polizia (defunding) e la sua abolizione completa a favore di politiche di controllo diretto da parte delle comunità. In tal caso i fondi allocati alla polizia (nelle grandi città un terzo del budget è destinato alla polizia con conseguente tagli ai servizi di prima necessità comprese scuole, sanità, infrastrutture) dovrebbero essere ridistribuiti in programmi volti a soddisfare le esigenze di base delle comunità che più ne necessitano.

Un altro possibile aggancio per l’evoluzione del movimento potrebbe essere la proposta lanciata da Al Sharpton, esponente molto noto della comunità nera e fondatore della National Action Network. Alla fine della cerimonia commemorativa di Minneapolis per George Floyd, Al Sharpton ha indetto una manifestazione nazionale contro il razzismo sistemico e per la giustizia sociale, davanti al Lincoln Memorial di Washinton il 28 agosto, data che riporta alla grande Marcia su Washington per il lavoro e la libertà indetta da Martin Luther King nel 1963, data incisa nella memoria storica del movimento contro il razzismo negli USA. È una proposta che richiama un modo più antico di fare politica rispetto alle nuove forze che abbiamo visto in campo, ma sarà interessante vedere se vi sarà una confluenza tra questi diversi filoni.

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Ai poliziotti di buona coscienza: queste proteste sono anche per voi – Lucas Johnson

E se le proteste fossero anche per voi? E se il dolore che state provando – il dolore di chi si sente incompreso e ritratto in maniera distorta – fosse lo stesso di quello manifestato a Minneapolis, Atlanta, Louisville e nelle altre centinaia di città oggi colme di sofferenza? Sapete che l’accusa di furto o truffa non giustifica in alcun modo l’omicidio e qualunque battaglia legale non cambierà il peso morale dei fatti accaduti.

Conosco gli slogan della manifestazione e gli articoli di opinione non sono del tutto esaustivi. È un lavoro difficile e la critica non sempre dà voce alle sfumature, a quelle pene radicate negli anfratti della vita. Alcuni di voi stanno soffrendo perché non si può ignorare l’indistricabile intreccio di problemi insormontabili, come il razzismo, il sessismo e la povertà.
Tutto questo è aggravato da un senso di disorientamento derivante dalla percezione che avete di voi stessi: quella di un’identità completamente assorbita dal ruolo che incessantemente eseguite. Immagino che voi tutti vi siate uniti alle forze dell’ordine per vocazione, spinti dal desiderio di consentire alle comunità di crescere, proteggendone la vita e i sogni.

È terribile assistere alla demolizione di vite e sogni di intere collettività. Ed è ancora peggio quando l’istituzione di cui si è parte ne è causa.  Siete costretti a portare dentro di voi il dispiacere, il disorientamento e la paura, continuando a fare il vostro lavoro. Siete costretti a reprimere la rabbia – a volte giustificata – e a mantenere la calma.  Ma non sempre siete pronti a tutto questo. È così doloroso che mi chiedo quante volte abbiate avuto la tentazione di mollare tutto e chiudere i sentieri della vostra umanità. Vi prego, non fatelo.

La vostra vita non è questa. La vostra vita conta. Voi siete importanti e la vostra vocazione è sacra. Ma l’istituzione che pensavate potesse facilitarne il perseguimento, non lo è. Dovete separare la coscienza che avete di voi stessi dall’istituzione nella quale vi siete dovuti identificare. La vostra missione è di proteggere le persone – lo era già prima che indossaste quell’uniforme e lo sarà ancora quando arriverà il momento di toglierla. È questa la natura delle vocazioni personali… non gli si può sfuggire. Posso immaginare quanto sia spiazzante prendere le distanze da quell’istituzione che per anni avete chiamato “casa”.  Le vostre organizzazioni sindacali mentiranno. Alcuni politici vi diranno di ignorare le critiche pubbliche. Ma, vi prego di riconoscere la vacuità di quelle parole. A loro non interessa l’ammirevole obiettivo che siete impegnati a portare avanti.

Se l’istituzione che vi rappresenta non ha fiducia nella comunità, non può aiutarvi a perseguire la vostra reale vocazione. I dipartimenti di polizia non sono stati costituiti pensando a tutte le comunità, quanto piuttosto per proteggere gli interessi di gruppi più piccoli. Il razzismo esiste e non si manifesta solo negli insulti… è molto più complicato di quanto si immagini. Dobbiamo tutti impegnarci sul livello personale per combattere la natura insidiosa del razzismo, del sessismo e dei pregiudizi che abbiamo ereditato dal passato.

La società americana deve cambiare, altrimenti finiremo per distruggerci a vicenda – su questo non c’è dubbio. Molte istituzioni hanno dimostrato lacune troppo profonde per essere colmate e troppo viziate per essere ritenute affidabili. Difendendo queste istituzioni, non proteggete la vostra integrità. Vi state facendo del male da soli, rendendovi più vulnerabili alle ingiustizie morali. Per favore, smettetela. Chi sta protestando nelle piazze oggi, lo fa anche per voi. Vogliamo che vi sentiate liberi di perseguire la vostra reale vocazione: con empatia, delicatezza, coraggio e sostegno da parte della comunità che proteggete. Non dovete identificarvi nella violenza, né passare al lato oscuro, quello privo di ogni forma di compassione.

Il mio primo incontro negativo con la polizia fu all’età di 16 anni.  Era in borghese, con una mazza in mano, e mi chiamò: “Ragazzo”. Mi ha seguito per mezz’ora a bordo di un’auto civetta, prima che arrivasse un agente in uniforme a farmi una multa. Ho avuto anche esperienze positive, ma non compensano quelle negative. Con la conseguenza che, quando vi vedo, attraverso la strada, evito di chiamarvi – anche quando ne avrei bisogno – e mi sento nervoso ogni volta che vi incrocio.

Sono certo che la polizia mi abbia protetto in qualche modo, ma non riesco a vedere gli agenti come miei “protettori”.  Desidero sentirmi libero in America, voglio essere a mio agio con voi e ringraziarvi per la vostra gentilezza – senza il timore che qualunque tipo di interazione possa costarmi la libertà o la vita. Voglio camminare per le strade di tutte le città americane senza l’ansia che la paura ingiustificata di qualche donna bianca possa trasformarsi in lutto e sofferenza per un’altra donna.

Voglio sentirmi al sicuro. Tutte le comunità nere vogliono sentirsi al sicuro. E voi potete fare la differenza. Abbiamo bisogno che voi facciate la differenza. Che siate in grado di portare a termine la vostra vera missione. Ed è per questo che le proteste sono anche per voi. Per favore, non opponete resistenza al cambiamento.  È lì che risiedono la salvezza e la liberazione di tutti noi.

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«Non posso respirare»: in morte di George Floyd – don Andrea Bigalli

Un uomo muore e rantolando cerca di gridare i motivi per cui ciò accade. «Non posso respirare». Implora, chiama sua madre. Proiettandosi nella difficile immagine della nostra morte personale possiamo immaginare che potrebbe essere quanto noi stessi ci troveremo a dire o urlare.

Nella fattispecie l’uomo che muore è a terra e ha il ginocchio di un altro uomo che gli schiaccia la gola. Quest’ultimo ha l’uniforme da poliziotto. Dovrebbe custodire e proteggere. L’uomo a terra è innocente, non ha fatto niente di male: è nero, il poliziotto è bianco.

La memoria collettiva è sempre più tessuta di immagini, con le conseguenze del caso: restano in testa forse non quanto occorrerebbe per una sensibilità storica determinante. Ce lo chiediamo in molti, spesso: riusciremo a fare degli eventi che si succedono uno dietro gli altri una tessitura di significato? La foto di George Floyd che sta morendo sull’asfalto di una strada di Minneapolis segna un passaggio: sappiamo bene che raffigura un sopruso più volte ripetuto, denunciato senza che questo abbia mai del tutto cambiato le cose. Ma questa volta l’immagine ha colpito l’immaginario collettivo. Non sappiamo se farà storia, ma ha mosso indignazione, da qui si muove un ulteriore che non conosciamo.

«Non posso respirare». Un testo fondamentale del cristianesimo si può capire meglio proprio a partire da questo lamento. Nel vangelo di Matteo Gesù pronuncia un lungo discorso che inizia con un versetto famoso: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli». La beatitudine non indica una condizione di privilegio, una felicità esclusiva. Le condizioni delle beatitudini non lo fanno certo pensare. Siamo di fronte a un’armonia che sembra impossibile, ma è quella dell’essere amati, la coscienza del diritto che si afferma nonostante tutto. Un diritto che è quello fondamentale ad essere amati. Se nessun altro lo fa, Dio si. Una beatitudine che richiama alla fede: chi non ce l’ha, sa bene però che ciò è radicalmente vero. Infatti in verità non è questione di fede o no: è questione di coscienza. Per molti secoli si è chiosato su quel «in spirito»: si può essere poveri, in sintonia con Dio, anche se il portafoglio è gonfio, perché lo spirito colloca su di un piano diverso da quello della realtà, aliena dal mondo di tutti. La spiritualizzazione dei testi della Bibbia ha sottratto molto alla comprensione di un testo fortemente radicato nella concretezza, in un contesto estraneo alla metafisica.

Il Cristo si riferisce alla privazione dello spirito/respiro: il soffio di vita che prorompe dai polmoni è il segno dell’esistere e questo dimostra la presenza di Dio. Dove è presente il Vivente la vita è garantita. Il povero di fiato, incurvato dal peso del dolore secondo l’immagine anticotestamentaria, è schiacciato a terra, qualcuno gli spinge la faccia contro il suolo impedendogli di respirare. A chi è in questa condizione di annientamento è dichiarato il possesso del «Regno dei cieli»: questa espressione indica il governo che Dio vuol imprimere all’esistente, riconducendolo a quella tenerezza con cui Egli stesso l’ha creato. L’autorità della compassione contro il potere della forza. Al di fuori di una Parola incarnata nella povertà, Ella stessa fatta oggetto di ingiustizia e destinata a una morte che toglie il fiato come quella in croce, questo passaggio dell’autorità sul mondo ai poveri è incomprensibile. Quel che non si capisce secondo le logiche del mondo diviene credibile secondo l’intelligenza che ti consegna l’amore.

L’immagine del vangelo di Matteo è drammaticamente attualizzata dalle immagini di George Floyd, a cui spegne il motore del vivere un uomo che asseconda da servo le dinamiche peggiori del potere suprematista. Floyd appartiene a una popolazione impoverita, economicamente e nel diritto, nonostante sia parte della nazione più potente del mondo. Incarna il destino di chi è stato reso povero nella dignità per una catena storica di pregiudizio e di segregazione, le cui motivazioni, uscite dal novero delle leggi, vi rientrano dalla fogna di quella parte del sentire popolare che ha messo alla guida degli Stati Uniti un presidente esplicitamente appoggiato dal Ku Klux Klan. Genti a cui è sottratto lo strumento della cultura: che non sanno futuro, quindi.

Come rendere possibile quel legittimo governo della storia che spetterebbe a coloro che ne hanno il diritto? Qualcuno questo diritto lo fa scaturire dal Vangelo: altri dal senso della giustizia che ci fa pensare che chi è privo del potere dovrebbe esercitarlo, sperando che da questa condizione apprenda la capacità di farlo per tutti. Il come in realtà dovremmo conoscerlo, si chiama democrazia.

Le immagini, dicevamo. Nella marea di quelle che hanno seguito quella dell’assassinio di Floyd ne identifico una: il vescovo Mark Seitz, della diocesi di El Paso in Texas, che con i suoi preti si inginocchia nella posa di protesta degli afroamericani durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, gesto che sta assumendo una virtualità globale. Lo hanno fatto per nove minuti, tanto quanto è durata l’agonia di George. Molti pensano che troppi tra noi preti si inginocchiano di fronte ai poteri di questo mondo. I miei confratelli di El Paso sono tutti abituati a inginocchiarsi come me davanti ai segni della presenza del divino, presumo. Questa volta ciò coincide con la protesta per chi muore ingiustamente. Un gesto per noi usuale si riveste di una sacralità indiscutibile, e luminosa.

Possiamo essere tutti seme di qualcosa di nuovo, di qualcosa di diverso. Basta saper decidere se accanto a una persona che muore si sta in ginocchio in soggezione a chi lo sta uccidendo e alla sua forza o inginocchiati con pena e compassione, solidali.

In una citazione celeberrima dal suo Servabo, Luigi Pintor ci spiega bene in quale atteggiamento: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».

da qui

 

 

Il diritto di respirare – Alessandra Ballerini

“Se pretendi che finiscano i disordini ma non credi che l’assistenza sanitaria sia un diritto umano, se hai paura di dire che le vite dei neri contano e hai paura di denunciare la brutalità della polizia, allora non stai davvero chiedendo che cessino i disordini: stai chiedendo che l’ingiustizia continui. L’unico modo per risolvere questa situazione e uscirne definitivamente è garantendo giustizia… Se volete che finiscano i disordini, chiedete che le cose cambino“: questo l’accorato e puntuale invito della parlamentare statunitense Ocasio-Cortez in occasione delle manifestazioni per l’uccisione di George Floyd.

Ghandi direbbe: “Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.

Ma prima bisognerebbe chiarirsi cosa si vuole. Certamente le decine di migliaia di persone che manifestano in ogni forma, non solo scendendo in piazza, la propria indignata protesta per l‘agonia di un nero inerme soffocato da un poliziotto bianco immobile e sordo alla legge e alle suppliche, vorrebbero che a nessuno essere umano fosse negato il diritto di respirare. E questo ideale minimo di giustizia dovrebbe valere anche nei confronti di chi rischia continuamente di annegare in mare tentando di raggiungere la fortezza Europa.

Un amico con il quale siamo soliti fare scambi di letture mi ha regalato un libro di Yucatàn Noah Harari, Sapiens, da animali a dei, e tra le pagine avvincenti e spassose di questo testo sulla storia dell’umanità viene così sintetizzata l’evoluzione e il primato dell’uomo sapiens:

“La vera differenza tra noi e gli scimpanzé è il collante dei miti, che lega insieme grandi numeri di individui, di famiglie e di gruppi. Questo collante ci ha resi padroni del creato“.

E tra i miti Irrinunciabili che tengono insieme gli esseri umani, ai primi posti c’è quello della Giustizia. Per questo si protesta per l’uccisione del signor Floyd. Per questo volontari da Lampedusa a Ventimiglia tentano tra mille ostilità di offrire accoglienza a profughi e diseredati della terra mentre avvocati e attivisti presentano esposti e denunce chiedendo, appunto Giustizia, per i morti in mare.

E per questo, come dice la parlamentare statunitense, pretendiamo che le cose cambino. Di più, come ci ha insegnato Gandhi, dovremmo essere noi quel cambiamento.

Abbiamo avuto molte settimane per riflettere, gestire paure, coltivare ideali. Abbiamo visto intuito i danni delle cattive politiche sociali e ambientali, abbiamo capito quanto male fanno la corruzione, l’evasione fiscale, l’incompetenza, l’inquinamento, la discriminazione. Abbiamo compreso sulla nostra pelle che diritti e libertà possono essere individuali solo se rispettosamente condivisi e tutelati.

Ora abbiamo compreso cosa vuol dire essere impotenti, vulnerabili, soli. E quanto siano preziose e affatto scontate le nostre libertà e indivisibli i nostri diritti.

Ora non abbiamo davvero più scuse per non pretendere o meglio essere quella Giustizia alla quale dovremmo naturalmente tendere se l’evoluzione della specie è servita a qualcosa.

E proprio in questi giorni, finalmente, il Consiglio della Regione Liguria ha approvato la proposta (di legge dei consiglieri Gianni Pastorino e Francesco Battistini per l’istituzione) del garante delle persone private delle libertà anche in Liguria che era l’unica di Italia ancora rimasta priva di questa fondamentale figura di garanzia. La notizia che il tutto il Consiglio (tranne la Lega che si è astenuta) ha votato a favore, evidentemente consapevole che della necessità di vigilare affinché nessuno, neppure il peggiore degli assassini, nelle mani dello Stato e delle sue divise, subisca le violazioni di quei diritti inviolabili che lo Stato dovrebbe tutelare, lascia sperare che un primo timido ma fondamentale passo verso il cambiamento si stia compiendo. Una boccata di aria buona, anche con la mascherina.

da qui

 

La catastrofe del respiro – Donatella Di Cesare

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro».

Nessuno avrebbe potuto immaginare questa catastrofe del respiro, provocata da un virus, che sembra però stagliarsi sullo sfondo di un’inquietante continuità. L’aria ha perso da tempo la sua innocenza. E dopo l’effetto serra l’alito dell’esistenza non è più libero, né naturale. La spaesatezza vuol dire anche questo: che l’atmosfera, pervasa da concorrenti microbici, è inabitabile e irrespirabile. S’impone tuttavia la convivenza. È in tale contesto che le nuove scienze scoprono i sistemi immunitari.

Cresce la diffidenza, aumenta il sospetto. A meno di non ricorrere a spazi sottovuoto, occorre vivere in un ambiente contaminato, infettato, avvelenato. L’integrità è un miraggio del passato. Per avere condizioni accettabili l’organismo deve votarsi a una veglia permanente, a una sorveglianza insonne. Virus e batteri sono tra noi. Questi nuovi coinquilini aggressivi invadono anche l’intimità, insidiano l’antica dimora, dove tentato di stanziarsi.

La società dell’igiene chiama a raccolta e l’immunità diventa un’ideologia. La cura ossessiva di sé e la medicalizzazione continua sono lo specchio della chiusura selettiva, del rifiuto convinto alla partecipazione, della conservazione caparbia. I sistemi immunitari sono i servizi di sicurezza specializzati nella protezione e nella difesa contro invisibili invasori, virus migranti che avanzano pretese di occupazione dello stesso spazio biologico. Il miraggio dell’immunità procede di pari passo con la globalizzazione.

Non si tratta solo di metafore allusive. L’edificazione dell’immunità – su cui ha riflettuto non per caso la filosofia più recente, a cominciare da Jacques Derrida – va ben al di là delle categorie biochimiche o mediche e mostra evidenti caratteri politici, giuridici, religiosi, psichici.

Nel globo epidemico la biopolitica, anziché perdere valore e rilevanza, si è potenziata diventando immunopolitica. La catastrofe latente, che attraversa e inquieta i decenni del nuovo secolo, non è un però un semplice rischio, che rientrerebbe nel calcolo governamentale dei rischi. Non si può minimizzarne la portata, sminuirne intensità ed estensione. La catastrofe è ingovernabile e mette allo scoperto tutti i limiti della governance neoliberale. È un’interruzione che segna il corso della storia, scalfisce l’esistenza, cambia habitat, abitudini, abitazione e coabitazione. Ha la tonalità dell’irreversibile e il timbro dell’irreparabile. Nulla sarà più come prima. Il mondo di ieri appare quello di un passato remoto, sfuggito, collassato. Nel presente, impoetico e luttuoso, il respiro è stato sconvolto.

Ma anziché indugiare in un rapporto catastrofico con la catastrofe, occorre considerare l’esigenza che la pandemia globale ha portato alla luce. Non è una lotta di confine quella che si verifica tra virus e anticorpi nell’organismo umano dove il sé e l’estraneo sono invece connessi in un gioco intricato; il sistema immunitario, che interviene con le sue volanti e le sue truppe di sicurezza, rischia di andare troppo a fondo. Nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni. Il sé identitario e sovranista non se la cava bene. Anche perché presume un’integrità che non esiste: al suo interno si verificano sempre microscontri, piccole guerriglie. La cosiddetta «dose infettante» è indispensabile. Per funzionare gli anticorpi devono interpretare la parte degli estranei, senza ostentarsi come fieri autoctoni, e in quella parte – il teatro può aiutare! – riconoscersi stranieri residenti. Questa sarà la salvezza e la salute. La difesa poliziesca non giova neppure qui.

Sarà necessario convivere con questo virus e, forse, con altri. Il che significa coabitare con il resto della vita in ambienti complessi, che si sovrappongono e si incrociano, nel segno di una riscoperta covulnerabilità.

da qui

 

Non posso respirare – Frei Betto

 

Sono state le ultime parole di George Floyd: “non posso respirare”. Neanch’io. Non posso respirare in questo Brasile gettato nell’ingovernabilità da militari che minacciano le istituzioni democratiche e esaltano il golpe del 1964, che ha instaurato 21 anni di dittatura; lodano torturatori e miliziani, praticano scambi di favori, un “ prendi là – dammi qua”, con i famigerati politici corrotti dell’ala centrista; imitano in modo ostentato i nazisti; danneggiano simboli ebraici; complottano in riunioni ministeriali per agire in contrasto con la legge; usano parolacce negli incontri ufficiali come se fossero in un covo di gente di malaffare; prendono in giro chi osserva i protocolli di prevenzione della pandemia e scendono in strada indifferenti ai 30.000 morti e alle loro famiglie come per festeggiare una così grande mortalità. “Non posso respirare” quando vedo la democrazia asfissiata; la Polizia Militare che protegge i neofascisti e attacca chi difende la democrazia; il presidente più interessato a rendere disponibili armi e munizioni più che risorse per combattere la pandemia; il Ministero dell’Educazione diretto da un semianalfabeta che minaccia di replicare “la notte dei cristalli” dei nazisti, afferma pubblicamente di odiare i popoli indigeni e propone di imprigionare i “vagabondi” del Supremo Tribunale Federale.

“Non posso respirare” nel vedere i comandanti delle Forze Armate restare in silenzio davanti a un presidente squilibrato che non nasconde di avere come priorità di governo la sicurezza propria e dei suoi figli, tutti sospettati di crimini gravi e di complicità con assassini professionisti. “Non posso respirare” davanti all’inerzia dei partiti cosiddetti progressisti, mentre la società civile si mobilita in potenti manifestazioni di indignazione e per la difesa della democrazia. “Non riesco a respirare” di fronte a questa comunità imprenditoriale che, con l’occhio ai profitti e indifferente alle vittime della pandemia, preme per l’immediata apertura dei suoi affari, mentre i letti d’ospedale sono pieni e le tombe raso terra si moltiplicano nei cimiteri come gengive sdentate di Tanatos.

“Non riesco a respirare” quando, in Brasile e negli Stati Uniti, i cittadini vengono picchiati, arrestati, torturati e assassinati per il “crimine” di essere neri e, quindi, “sospetti”. Mi manca il fiato quando vedo João Pedro, un ragazzo di 14 anni, che perde la vita in casa sua, colpito alla schiena da un fucile mentre gioca con gli amici. O i fattorini dei pacchi che vengono assassinati da agenti di polizia che ci considerano imbecilli nel provare a cercare una spiegazione per la morte di così tanti civili inermi.

“Non riesco a respirare” quando penso che il crimine barbaro commesso contro George Floyd si ripete ogni giorno e rimane impunito per non avere una macchina fotografica in grado di cogliere in flagrante simili omicidi. O nel vedere Trump, dall’alto della sua arroganza, reagire alle proteste anti-razziste minacciando di ridurre al silenzio i manifestanti con l’accusa di terrorismo e con l’intervento dell’esercito. Come posso dare ossigeno alla mia cittadinanza, al mio spirito democratico, alla mia tolleranza, nel vedermi circondato da imitatori del Ku Klux Klan; generali che si improvvisano ministri della salute nel pieno di una tragedia sanitaria; manifestanti che infrangono, impuniti, la legge sulla sicurezza nazionale; e la Borsa che sale, mentre migliaia di bare scendono nelle tombe che accolgono le vittime della pandemia? Ho bisogno di respirare! Non lasciare che soffochino la società civile, i media, la libertà di espressione, l’arte, i diritti civili, il futuro di questa generazione condannata a vivere in questo presente nefasto.

Respiro però quando leggo quello che lo stilista Marc Jacobs ha postato su Instagram dopo che uno dei suoi negozi è stato distrutto dalle proteste a Los Angeles: “Non lasciate mai che vi convincano che i vetri rotti o i saccheggi sono violenza. La fame è violenza. Vivere per strada è violenza. La guerra è violenza. Bombardare la gente è violenza. Il razzismo è violenza. La supremazia bianca è violenza. L’assenza di assistenza sanitaria è violenza. La povertà è violenza. Contaminare le fonti d’acqua per il profitto è violenza. Una proprietà può essere recuperata, le vite no”.

Faccio miei i versi di Cora Coralina: voglio “più speranza nei miei passi che tristezza nelle spalle”.

da qui

 

 

Io che posso respirare – Alessandro Ghebreigziabiher

I can’t breatheio non posso respirare. Perché non ci riesco e perché qualcuno ha deciso, giudicato e sentenziato che la mia vita è giunta al termine.
Può accadere così, ora, ma non da un momento all’altro, poiché non v’è alcunché di estemporaneo e singolare, in tale misfatto legalizzato e generalmente tollerato.
I cannot breatheio non posso respirare, sono

 

state le ultime parole su questa terra di George Floyd.
Ma – ahi loro, tutti, nessuno escluso – non è stato il primo e non sarà di certo l’ultimo a venire ammazzato impunemente, in barba a ogni decenza umana, ancor prima che fondamento giuridico.
I can’t breatheio non posso respirare, è altresì un virale quanto appassionato hashtag del giorno dopo, #icantbreathe, con cui sfogare sdegno e reclamar giustizia sulla digitale lavagna collettiva.
I can’t breatheio non posso respirare – che diventa noi non possiamo subire ancora senza

 

reagire – è anche l’urlo rabbioso di una porzione di umanità dalla melanina sbagliata solo nel pallido occhio di chi guarda; cittadini come gli altri sulla carta bollata, i quali rovesciano il proprio rancore sullo Stato a cui appartengono, ma che insiste a violentarli istituzionalmente; cosa che peraltro fa ogni santo giorno da quando ne rapì gli antenati oltre oceano.
Tuttavia, I can’t breatheio non posso respirare, è anche l’inascoltato e straziante ultimo appello di un numero orrendamente enorme di nostri simili,

 

i quali vengono altrettanto assassinati sotto i nostri occhi, in tutti i disumani modi che una perversa immaginazione sia in grado di concepire.
Poiché pure nelle carceri a cielo aperto o posticcio che chiamiamo asetticamente centri campisommersi dai flutti o riversi su ammassi di legno marcio e illuse speranze, al riparo di rifugi che

non riparano affatto e rifugiati tra le grinfie di coloro che promettono riparo – e invece propinano il contrario – vi sono creature innocenti a cui viene tolto l’ultimo respiro; il più delle volte la sola naturale ricchezza sopravvissuta nel corpo.
Per queste e altri miliardi di ragioni, tante quante le vittime programmate che pure in questo momento si vanno ad aggiungere al triste elenco, mi sento in dovere di ricordare che io posso respirare.
can breathe, ovvero io posso respirare, e per questo motivo avverto l’urgenza di non sprecar fiato e al contrario far sentire la mia voce in ogni istante divento testimone, diretto o indiretto, di anche solo una delle sopra citate uccisioni.
A dirla tutta, io che posso respirare ho la possibilità e l’occasione di fare qualcosa ben prima che l’aria innocente venga sottratta dai prepotenti di questo mondo, assassini riconosciuti o camuffati sotto qualsivoglia uniforme.
Io che posso respirare potrei anche rammentarmi di restare in silenzio, talvolta, quando ogni parola è di troppo, e sarebbe già qualcosa.
Perché io che posso respirare ancora, e magari so per certo che domani e anche il dì seguente sarà lo stesso, potrei sfruttare questo tempo per riflettere e studiare una strategia a lungo termine che favorisca sul serio il cambiamento per chi paghi sulla sua pelle la violenza razzista in ogni singolo istante della propria vita; sia che termini bruscamente per l’abuso di un agente come per l’indifferenza di interi continenti.
Le conseguenze di tale improvvisa consapevolezza sarebbero incredibilmente virtuose. Per esempio, io che posso respirare potrei accorgermi finalmente di coloro i quali sono costretti vita natural durante a trattenerlo o anche solo a modularlo con estrema cautela, il respiro, per paura di venire travolti dalla furia del primo passante a portata d’odio.
Coraggio, quindi. Oggi arrestiamo pure i polmoni per unirci alla protesta, ma non dimentichiamo di dare un senso al privilegio della scelta quando il clamore si sarà placato e tutto tornerà sbagliato come prima…

da qui

 

Immagini, commenti e lezioni dal movimento USA contro razzismo di sistema e violenza della polizia

Non chiamiamola “protesta”. Perché quando la protesta di massa si dà parole d’ordine e rivendicazioni comuni, e persegue i suoi obiettivi con pratiche altrettanto di massa, non e’ più una protesta senza “idee”. E’ un movimento che si organizza per realizzare delle rivendicazioni e che comincia a mettere a nudo cosa c’è sotto la punta dell’iceberg del razzismo della polizia, fino a esprimere momenti di lotta radicale contro quel lascito colonialista che è indissolubilmente legato alle origini e allo sviluppo del capitalismo e dello sfruttamento di classe.

La principale rivendicazione del movimento è, ora, “DEFUND THE POLICE” (togliere fondi alla polizia), condivisa dalla gioventù proletaria afroamericana, bianca e ispanica, che a dispetto della pandemia sta sfidando lo Stato americano.

Prima ancora che si chiarisca nei dibattiti pubblici chi sono, per il movimento, gli amici veri amici e quelli  finti (quelli del campo del partito democratico che vorrebbero ridurre il razzismo sistemico ad un problema di “mele marce” nella polizia, e ricondurre il movimento nell’alveo del processo democratico-elettorale), certi chiarimenti fondamentali stanno avvenendo nel vivo della lotta.

Sarebbe complicato ricondurre la richiesta di DEFUND THE POLICE ad una neo-obamiana riforma della polizia. Questa nuova rivendicazione, che nasce proprio dalla delusione per le ‘riforme’ della polizia, è un attacco ad una istituzione chiave dello stato capitalistico statunitense. Un attacco radicale, tant’è che si chiede alla AFL-CIO e agli altri organismi sindacali di espellere i sindacati di polizia dalla “casa comune” dei lavoratori americani.

New York zona di guerra

Ne sono consapevoli i sindacati di polizia, che il 10 giugno, attraverso Ed Mullins, leader di una delle principali organizzazioni del sindacato di polizia, dichiarano alla stampa e a Fox News che la città di New York è zona di guerra, ed invocano un immediato intervento delle istituzioni federali.

La stampa “liberal” e democratica critica questa richiesta sostenendo che la rappresentazione data dai sindacati di polizia su quanto accade a New York non corrisponde alla realtà – le proteste sono pacifiche. Ma la polizia, per mezzo dei suoi sindacati, avverte chiaramente di essere sotto attacco da parte del movimento di massa che richiede il suo smantellamento (sia pure progressivo) in quanto istituzione coercitiva e repressiva dello Stato di classe.

DEFUND THE POLICE non si attarda dietro le illusioni di un nuovo New Deal democratico e riformatore, marcia attraverso il CHAZ

Sebbene nel movimento di massa viva la speranza, e l’illusione, di poter raggiungere i propri obiettivi condizionando con la lotta la contesa elettorale di autunno, esso non sembra paralizzato da questa speranza. E sta cominciando a mettere in atto, attraverso azioni concrete e di massa, la cacciata della polizia dalle città – obiettivo che il movimento si prefigge attraverso la rivendicazione DEFUND THE POLICE. Cancellare i finanziamenti ai dipartimenti di polizia non è semplicemente richiedere una diversa destinazione dei soldi “pubblici”, toglierli alla polizia per destinarli ai “servizi sociali”. Significa immaginare una società dove la polizia sia estromessa dai quartieri proletari e dalle scuole perché la sua unica funzione è quella della repressione. Il messaggio è: le comunità degli sfruttati debbono e possono salvaguardarsi da sé.

A Seattle da alcuni giorni il movimento ha circondato il Dipartimento dipPolizia del distretto orientale. Ha chiuso l’edificio con barricate e ha costretto il corpo di polizia ad evacuare lo stabile. Ha occupato tutta l’area Est intorno, e l’ha dichiarata Capitol Hill Autonomous Zone (CHAZ), “zona libera”, libera dalla polizia.

Decisamente qualcosa di più della riedizione dell’assedio dei no global americani al WTO del 1999 o degli “Occupy Wall Street” del 2011,

Non è solo una azione simbolica; è la messa sotto scacco di un’istituzione chiave dello Stato (non certo solo negli States, ma lì in modo tutto speciale) da parte di un movimento che avverte il bisogno di sfrattarla dalla vita sociale.

L’intero distretto orientale di Seattle è stato dichiarato off limits alle forze di polizia, mettendo in pratica una auto-organizzazione della “società” che dichiara di non aver bisogno delle forze armate dello Stato per tutelarsi. Anzi, sostiene che la vita in sicurezza delle proprie comunità necessità proprio della messa al bando delle forze di polizia.

Si discute su come la società possa organizzare da sé per la “sicurezza” di tutti e di ciascuno. La difesa degli sfruttati afroamericani, bianchi e di ogni colore viene presa in mano da loro stessi, contro chi opera la “sicurezza” (dell’ordine del capitale) contro di loro.

Quindi non è la messa in scacco simbolica (comunque significativa, sia chiaro) delle istituzioni sovranazionali del capitalismo (WTO, G8, banche e borse), è la diretta presa di possesso di una parte di territorio metropolitano che, al di là di quello che pensano i giovani di tutti i colori che animano l’iniziativa, rappresenta una sfida al potere dello Stato. Non una zona autorganizzata nelle periferie desolate, ma una zona auto-organizzata nel cuore della città, costringendo all’inazione uno degli organi di repressione dello Stato del capitale.

La stampa democratica e liberal critica la presa di posizione dei sindacati di polizia che dipingono queste azioni come la creazione di “zone di guerra”, convinti di poter disinnescare dall’interno la “protesta”. In realtà i sindacati della polizia hanno colto la carica di esplosiva pericolosità sociale che questo movimento sta incubando.

E lo Stato di classe, lo stato del capitale?

In che cosa potrà tradursi questo ulteriore passo in avanti del movimento nato dall’assassioni di George Floyd non è facile da prevedere. Ma una cosa è certa: oltre la polizia – attraverso le dichiarazioni dei suoi sindacati – sono lo Stato federale, la Casa Bianca a lanciare l’allarme e dichiarare che questo esperimento va estirpato orasubito. Si tratta di terrorismo all’interno del paese, che richiede azioni militari immediate di risposta.

Trump, infatti, continua ad invocare il dispiegamento dell’esercito per riportare la legge e l’ordine, riprendere possesso delle 6 “zone liberate”  e, con esse, il pieno controllo della città.

Gli Stati Uniti d’America, leader del capitalismo e dello sfruttamento mondiale, per la prima volta nella loro storia, si confrontano con un movimento di massa, di fatto radicale, che pone, inconsapevolmente si dirà (e ci può stare), le premesse per una più generale battaglia, a venire, sulla questione del potere (Nel febbraio e nel novembre 1919 sempre la città di Seattle fu il teatro di potenti scioperi e manifestazioni di solidarietà con la rivoluzione russa; allora, però, la locomotiva era altrove, oggi è qui).

Ci saremmo aspettati che gli apparati statali statunitensi, con il proprio esercito, polizia e corpi di intelligence facessero piazza pulita in un battibaleno. E invece questi stessi apparati sono scossi da acute contraddizioni, e varie istituzioni sfuggono alle direttive del comandante in capo.

Il fatto più clamoroso è la polemica tra la Casa Bianca e i capi del Pentagono sull’impiego dell’esercito per sedare le rivolte. Una polemica che ha prodotto una (parziale) impasse dello Stato ad esercitare la repressione. Sappiamo bene che questo non fermerà la controffensiva del capitale, che potrà essere “legale” e democratica, o anche “illegale”, con le squadracce bianche che abbiamo visto agire nelle città americane durante le prime settimane della pandemia.

Questi scricchiolii cominciano a farsi sentire oltre oceano, e speriamo anche tra le sterminate masse sfruttate dall’imperialismo, in Africa e in Medio Oriente. E la cosa sta complicando maledettamente tutti i piani di azione e di ordine che il capitale USA stava prospettando per uscire dalla crisi: compattare un ampio fronte sociale nazional-popolare contro la Cina e gli “alleati” europei filo-cinesi. Questo movimento si erge anche come un ostacolo insormontabile contro i tentativi della destra trumpista di accorpare i proletari bianchi in un nuovo slancio nazionalista e popolare.

La crisi innescata dal nuovo coronavirus ha accelerato le dinamiche di polarizzazione sociale negli USA. La crisi  economica è precipitata disastrosamente, evidenziando l’oppressione di classe che il trumpismo e l’obamismo avevano tentato di nascondere sotto il tappeto. I giovani bianchi senza riserve e/o certezze hanno deciso di rompere il lock down a dispetto della pandemia. E non perché abbiano raccolto l’invito di Trump a difendere la propria “libertà individuale” sottomettendosi all’imperativo della produzione: il profitto. Tutto al contrario: hanno raccolto l’invito ad unirsi con gli afroamericani nella lotta contro un regime oppressivo e razzista, che colpisce doppiamente gli afroamericani, ma non offre alcuna salvezza nemmeno ai proletari bianchi. Un regime che di fatto è neo-colonialista anche al suo interno, perche’ le genti di colore e le nuove generazioni di latino americani immigrate negli USA subiscono tutti i giorni i meccanismi di un razzismo sistemico e di classe che ne fa carne da macello per i profitti del capitale. Una lezione che gli operai dell’agro-industria e della lavorazione delle carni, prevalentemente latino-americani, stanno imparando attraverso 20 giorni di scioperi e battaglie per la difesa della salute loro e delle famiglie, contro un sistema di produzione che non può essere fermato, costi quel che costi.

Il movimento di lotta contro il razzismo della polizia torna alle origini del razzismo, e rimette in discussione la storia e i suoi segni

Durante queste ultime giornate di lotta abbiamo assistito all’abbattimento delle statue dei mercanti di schiavi e dei generali confederali in tante città degli Stati Uniti. Con una partecipazione, questa volta, davvero di massa (non come il teatrino inscenato a suo tempo con l’abbattimento della statua di Saddam, dai commedianti del Pentagono e della CIA).

Questa azione è stata emulata in tante piazze della Gran Bretagna. Ed è tutt’altro che meramente simbolica. Esprime la convinzione che sotto la punta dell’iceberg della violenza razzista della polizia, c’è un’intera impalcatura politica, sociale ed economica che la riproduce di continuo. E viene da lontano: dal colonialismo storico, appunto. Non basta dunque fare piazza pulita ai vertici della polizia; è necessario riprendere le fila di una lotta radicale contro la società di classe e razzista, che ha prodotto e produce colonialismo e razzismo – schiavitù con catene metalliche e moderna schiavitù salariata -, e continua ad onorare i propri progenitori razzisti.

Viene ridiscussa e rivista la storia con gli occhi degli sfruttati, che si rifiutano di onorare i simboli dello schiavismo e del colonialismo.

Anche Cristoforo Colombo, il mercante di schiavi genovese che Leone XIII voleva beatificare e il cardinale Bagnasco addirittura, se possibile, santificare, il celebre “scopritore” del nuovo mondo, viene preso a bersaglio dalla molto razionale collera del movimento anti-razzista, come espressione di un sistema sociale che, sin dalle sue origini, ha fatto progressi  sulla rapina, sulla violenza, sull’oppressione e sulla più bestiale schiavitù delle popolazioni native e nere da parte di una minoranza di avidi colonizzatori bianchi (non singoli uomini “avventurosi”, ma pedine di ben identificabili stati e centri di interessi bancari e commerciali).

La critica di massa non risparmia nessuno, nemmeno gli “eroici” condottieri delle nazioni democratiche durante il macello del secondo conflitto mondiale imperialista: tutti strumenti di un comune sistema di classe e razzista.

In pochi giorni, questo movimento sta mettendo all’indice l’infame storia scritta dall’ideologia dominante. Churchill non è più “l’eroe” che “ha difeso il mondo libero” (come la propaganda borghese ufficiale pretende farci credere), ma un razzista a capo di uno dei più brutali Stati colonialisti della storia.

I simulacri dell’ideologia capitalista vengono giustamente profanati. Questa iconoclastia del movimento è già ora un’espressione radicale di opposizione al capitalismo mondiale, che le lotte negli USA stanno diffondendo al resto del mondo.

Potranno queste prime espressioni di radicale denuncia del colonialismo, come causa prima del razzismo sistemico che domina nelle cittadelle occidentali dell’imperialismo, rappresentare anche un primo passaggio verso il sostegno delle lotte nei pasi da esso dominati, dall’Africa al Medio Oriente all’estremo Oriente?

Certo governi borghesi e servi del capitale non dormono sonni tranquilli. E non gli sarà facile continuare le manovre di manomissione che Washington, Londra, Parigi, Roma, Berlino e Tokyo hanno potuto condurre “indisturbati” negli ultimi anni, ai danni di tutti gli sfruttati dall’imperialismo.

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Redazione
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