Riapriamo le librerie (adesso)

un appello (da Osservatorio del sud), un testo di Pietro De Vivo (da Giap) e consigli di quarantena (da Sensibili alle foglie)

 

Firma per riaprire le librerie scrivendoci a osservatoriodelsud@gmail.com.

Siamo consapevoli della gravità del momento e accettiamo la severa disciplina di isolamento sociale imposta. Questa condizione di lunga cattività domestica avrà bisogno di conforto culturale e spirituale per essere sostenuta senza crepe e scoraggiamento.

Chiediamo perciò alle autorità competenti, consapevoli dello sgomento in cui viviamo, di riaprire le librerie per sostenerci in questa innaturale forma di esilio fra le proprie mura.

Sono giorni che con grande responsabilità gli italiani si mettono in coda, con maschere e guanti, davanti ai supermercati e alle farmacie. Non si vede perché i consumatori di libri sarebbero meno disciplinati dei consumatori di cibo o medicinali. Le nostre librerie, grandi o piccole che siano, sono facilmente gestibili da ogni punto di vista, abituate a frequentatori lenti e assorti, che hanno bisogno di scegliere ciascuno per conto proprio, curiosi delle novità e dell’assortimento.

Nei giorni passati, ci si è ingegnati a mandare in giro video e musica, per intrattenerci. Grazie, ma sono distrazioni molto brevi. Un libro ti tiene compagnia per tutto il tempo che vuoi.
Dateci pane per i nostri denti spirituali. Non di sola tachipirina vive l’uomo.

Chiediamo al governo questo gesto di fiducia nello spirito degli italiani, da cui dipende ogni loro migliore comportamento. Le librerie aperte non creerebbero le file del supermercato, e darebbero ossigeno all’editoria libraria, su cui si regge gran parte della formazione culturale e della circolazione delle idee nel nostro paese.

Prime firme: Piero Bevilacqua, Ginevra Bompiani, Tomaso Montanari, Franco Arminio, Battista Sangineto, Gianrico Carofiglio, Nichi Vendola, Domenico Cersosimo, Vittorio Lingiardi, Carmen Novella, Donatella Di Cesare, Luca Formenton, Marcello Panni, Riccardo Barberi, Rosetta Loy, Valerio Magrelli, Tullio Pericoli, Giuseppe Saponaro, Luciana Castellina, Letizia Paolozzi, Tonino Perna, Umberto Todini, Italo Spinelli, Francesco Permunian, Angelo Guglielmi, Enzo Scandurra, Vera Pegna, Sarantis Thanopulos, Raffaele Tecce, Gemma Trapanese, Ludovico Pratesi, Laura Marchetti, Beppe Cantele, Antonio Gnoli, Luigi Vavala, Paolo Favilli, Vittorio Mete, Franco Novelli, Vito Teti, Giuseppina Torregrossa, Giulio Ferroni, Luca Sossella, Gianni Speranza, Pasquale Iorio, Annarosa Buttarelli, Daniela Di Sora, Patrizia Carrano, Angela Barbanente, Sandro Abruzzese, Teresa Ciabatti, Marta Petrusevicz, Alfonso Gianni, Salvatore Silvano Nigro, Enzo Paolini, Massimo Veltri, Luciana Percovich, Paolo Jedlowski, Licinia Speciale, Maria Rosa Cutrufelli, Rossano Pazzagli, Franco Lorenzoni, Franco Trane, Armando Vitale, Anna Rosa Macri, Jolanda Bufalini, Alfonso Gambardella, Luigi Pandolfi, Carmelo Buscema, Giovanna Campani, Alberto Gaffi, Pierluigi Pedretti, Franco Santopolo, Mariapia Guermandi, Alberto Ziparo, Jaime Riera, Anna Nadotti, Patrizia Guerra, Giuseppe Aragno, Raffaele Baldella, Italo Testa, Carlo Cellamare, Domenico Passerelli, Saverio Russo, Cristina Cassina, Giovanna Perini Falesani, Antonella Casoli, Gianfranco Viesti, Silvana Carotenuto, Maurizio Casarin, Andrea Capotorti, Marco Boniardi, Roberto Ciccone, Giuseppe Allegri, Roberto Caso, Anna Maria Guadagni, Silvana Iannelli, Silvio Perrella, Marco Buzzoni, Beppe Sebaste, Vittorio Boarini, Franco Zabagli, Italo Testa, Argia Morcavallo, Piero Caprari, Amalia Colisanti, Pietro Greco,Paolo Petroni, Roberta De Marchis, Massimo Raffaelli, Leonardo Luccone, Nino Dolfo, Nicola De Cilia, Claudio Rorato.

Per firmare osservatoriodelsud@gmail.com

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«È colpa di quelli come te se c’è il contagio!». Abusi in divisa e strategia del capro espiatorio nei giorni del coronavirus – Pietro De Vivo

Fino a venerdì 20 marzo, prima dell’annuncio della chiusura di tutte le attività produttive, ho continuato ad andare al lavoro, ovviamente rispettando tutte le precauzioni: abito sulla stessa strada dell’ufficio – a pochi numeri civici di distanza –, nei pochi metri che faccio a piedi non incontro nessuno, e in sede in quei giorni eravamo solo in due e ci tenevamo a distanza. Gli altri lavoravano già da remoto, veniva solo uno dei miei soci, che come me abita molto vicino e non vedeva praticamente nessun altro oltre al sottoscritto.

Era ancora consentito dai decreti (il telelavoro era solo consigliato, non obbligatorio), e oltre a dover usare per forza macchine e software dell’ufficio, trovavo che andare in sede fosse anche una buona pratica: per separare il tempo del lavoro da quello del non lavoro, per prendere un po’ d’aria, vedere un po’ di luce, e scambiare due chiacchiere col mio collega. Vivendo solo con il mio coinquilino, in una casa molto piccola anche per due persone, rischio di impazzire.

Ma ciò che a Roma di solito è un’enorme fortuna – abitare vicino a dove si lavora –, in tempi di quarantena e con le occasioni per camminare ridotte al minimo era diventato una prigione. Avevo preso allora l’abitudine, dopo aver staccato, di fare un giro largo per rincasare. Niente di che, neanche cinquecento metri, praticamente il periplo dell’isolato.

Per noi in questi giorni paradossalmente il lavoro è più del solito, perché ci stiamo sbattendo per cercare in ogni modo di evitare pesanti danni economici alla casa editrice per via della chiusura delle librerie. Quindi spesso ho staccato tardi, tra le 18 e le 20. A quell’ora per strada non c’era quasi nessuno ed era facilissimo rispettare le distanze di sicurezza.

Venerdì ero andato via particolarmente tardi, dopo le 20, e avevo iniziato il mio giro per rincasare. A metà strada, meno di duecento metri da casa, sono stato fermato da uno dei militari che presidiano da anni la zona della movida del quartiere. Mi ha chiesto dove stessi andando e ovviamente gli ho risposto che stavo tornando a casa. Ne è seguita una sfilza di domande tra cui da dove provenissi, che lavoro facessi, dove abitassi, se avessi l’autocertificazione (che non avevo, sapendo che il modulo può essere compilato anche durante il fermo), i documenti, ecc.

Quando gli ho detto dove abitavo mi ha chiesto perché stessi andando nella direzione opposta (avrei svoltato al successivo incrocio per girare intorno all’isolato e tornare indietro) e quando gli ho risposto che approfittavo per fare due passi mentre tornavo a casa, mi ha subito detto che è vietato passeggiare. Da notare: gli avevo risposto che facevo due passi per tornare a casa dal lavoro, lui invece ha subito tirato fuori l’infausta parola su cui si stanno incrostando le peggiori criminalizzazioni: «passeggiata».

Io ovviamente non ci son stato, gli ho detto che non è vietato passeggiare, ma che comunque stavo tornando a casa, ero in prossimità della mia abitazione, e che quindi era tutto consentito. Lui ha iniziato a insistere con toni sgradevoli e ad arrabbiarsi, fino a quando non sono arrivati gli altri cinque che con lui presidiavano la zona. Mi sono ritrovato letteralmente accerchiato, tra l’altro in un assembramento di persone che non rispettavano la distanza di sicurezza né tra me né tra loro.

Hanno prima iniziato a turno a insistere con la storia del divieto assoluto di uscire di casa, poi quando gli ho mostrato dal cellulare il testo del decreto del 9 marzo, smentendoli, hanno cambiato strategia, iniziando a farmi la morale e a colpevolizzarmi elencando tutti i frame tossici di questi giorni: «Se tutti facessero due passi le strade sarebbero affollate», «È colpa di quelli come te se c’è il contagio e la sanità è al limite», «Sei un irresponsabile». Per poi passare a insultarmi: «Noi vorremmo stare a casa e invece dobbiamo stare dietro ai deficienti come te che a casa non ci stanno e diffondono il contagio», «Rischiamo la vita per voi stronzi», e altro che non ripeto.

Inutile spiegargli che io, a casa, ci stavo proprio andando, provenendo dal lavoro, e che ero in prossimità della mia abitazione. Non hanno voluto sentire ragioni, non mi hanno lasciato andare, tirando fuori anche una bizzarra teoria per cui le misure prevedono obbligatoriamente che in caso di spostamento, anche necessario, si debba fare il tragitto più breve dal punto A al punto B e che allungare anche solo di cinquanta metri è vietato.

Ma ovviamente la cosa che li infastidiva di più, oltre il fare due passi, era l’orario. È stato vano spiegargli che se avevo staccato dopo le 20, e i miei legittimi dieci minuti d’ossigeno li stavo prendendo a quell’ora, rischiavo ancora meno di contagiare qualcuno perché la strada era deserta. Ragionavano come se ci fosse il coprifuoco e io lo stessi infrangendo.

Siccome insistevo a dire che non stavo facendo niente di illecito, hanno chiamato i carabinieri per farmi denunciare. Sottolineo: non hanno detto che avrebbero chiamato le forze dell’ordine per controllare e, in caso, denunciare; hanno esplicitamente detto che le avrebbero chiamate per farmi denunciare. Non so perché abbiano chiamato i carabinieri e non la polizia, e ovviamente non so cosa si sono detti ma ho pochi dubbi che la versione fosse di parte per indisporli preventivamente.

Tra la discussione con loro e l’attesa dei carabinieri sono passati più di tre quarti d’ora. Nel frattempo i militari hanno, nell’ordine:
■ fermato un senzatetto che camminava barcollando;
■ fermato un tipo di colore dando per scontato che spacciasse, per poi dirmi: «Vedi, se esci di casa è pericoloso, puoi trovare lui», e quando ho risposto: «Ma lui che c’entra?» mi hanno detto: «Non è razzismo, è che potete contagiarvi», con una excusatio non petita, accusatio manifesta che rivela una coda di paglia lunghissima;
■ guardato male tutti quelli che passavano col cane: «Questi cani sono diventati magrissimi a furia di uscire così spesso»;
■ obbligato una di due signore sudamericane che erano uscite col cane a tornare a casa perché lo si può portare a spasso solo da soli, anche se le signore vivevano palesemente insieme, essendo uscite dallo stesso portone, quindi comunque a contatto tutto il giorno;
■ infine,  parlato male di chi va a correre: «Tutti atleti ora!».

Queste ultime cose a conferma che per loro non si trattava di rispettare o meno le misure, cosa è permesso e cosa no, ma di obbligare le persone a stare barricate in casa in spregio di ogni diritto.

Poi è arrivata la volante coi due carabinieri che sono scesi rivolgendosi subito ai militari, ignorando le mie parole, per rivolgersi solo dopo a me, e subito con toni minacciosi, insultando e urlando. La discussione con loro è stata dello stesso tenore di quella già avuta coi militari, solo che sono stati addirittura ancora più minacciosi, gridando, e ponendosi a distanza ancora più ravvicinata, l’atteggiamento di chi ti urla letteralmente in faccia, e meno male che bisogna evitare il contagio. Oltre ad attribuirmi la colpa delle morti di questi giorni hanno concluso urlando: «Non devi uscire e basta. Devi stare chiuso in casa quaranta giorni!». E hanno iniziato a compilare la denuncia.

Mentre i carabinieri scrivevano uno dei militari mi ha detto: «Hai visto? Se stavi zitto e chiedevi scusa andava tutto bene, hai voluto rispondere e fare storie? Così impari». Confessando di aver chiamato i carabinieri per denunciarmi non perché stessi infrangendo qualcosa, bensì perché avevo osato controbattere. Gli ho risposto che quindi non ero nel torto, non mi denunciavano per un illecito, mi stavano semplicemente facendo i dispetti. Lui ovviamente ha reagito male.

Intanto i carabinieri avevano finito di compilare la denuncia, e anche un’autocertificazione in cui è scritto che alle 20:15 uscivo dal lavoro in via xxx per recarmi al domicilio in via yyy e che stavo passeggiando per tornare a casa. Tra l’altro, mi hanno impedito di compilarla da solo, lo hanno fatto loro e mi hanno obbligato a firmarla. Nell’ora e luogo del controllo c’è scritto «21:15», che in realtà è l’orario di quando hanno finito di redigere la denuncia, mentre i militari mi avevano fermato almeno un’ora prima. Scritto quindi apposta in quel modo per far sembrare che stessi camminando da un’ora. Hanno anche ovviamente specificato l’indirizzo presso il quale sono stato fermato, che dovrebbe dimostrare che per tornare a casa stavo facendo un giro troppo lungo. Dopo avermi fatto firmare la denuncia, mi hanno lasciato andare senza lesinare ovviamente un altro po’ di urla insultanti.

Non mi preoccupa la denuncia, sono abbastanza convinto che sarà archiviata. E comunque ci sono tutti gli estremi per contestarla, visto che stavo tornando a casa (cosa permessa) dopo essere stato al lavoro (cosa in quel momento ancora permessa) e mi trovato in prossimità della mia abitazione.

Non sono preoccupato, ma sono arrabbiato, nervoso e angosciato. Non è la prima volta che mi capita di discutere con le forze dell’ordine, ma essere accerchiato da sei soldati con mitra, e poi ricevere urla in faccia da due carabinieri, è stata una brutta scena. Non ho mai temuto per la mia incolumità fisica, ma sto temendo seriamente per l’incolumità della mia libertà. Mi è sembrata una scena da dittatura militare o da regime fascista, non è stato per niente piacevole e non lo nascondo.

Senza contare la totale inutilità di tutto ciò per la prevenzione del contagio. Ancora fino a quel giorno – venerdì 20 marzo – se fossi stato uno degli operai costretti a lavorare in fabbrica avrei dovuto attraversare mezza città per tornare a casa, in qualsiasi momento del giorno, in fasce orarie in cui avrei probabilmente incontrato molta più gente, dopo essere stato a contatto con decine o centinaia di persone sul posto di lavoro, ma quello sarebbe andato bene.

Quest’episodio – oltre a racchiudere incredibilmente in un colpo solo tutte le assurdità di queste settimane – ha del kafkiano: dal come sono stato fermato a come si è svolta la vicenda, dalle motivazioni fallaci addotte dai militari all’ignorare quanto affermavo decreto alla mano, dai frame tossici con cui mi hanno buttato insulti addossa alla loro violenza – per fortuna per ora solo – verbale. Fino, soprattutto, all’assurdità dell’essere denunciato perché stavo facendo due passi intorno all’isolato per tornare a casa dal lavoro – ma in realtà, come dichiarato da loro stessi, perché non avevo sopportato in silenzio che abusassero arbitrariamente del loro potere.

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Redazione
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3 commenti

  • Gian Marco Martignoni

    ” Lì i libri messi da parte mi chiamano.Da quanto tempo voglio leggerli, ma per mancanza di tempo , li ho messi sul mio comodino “. Al di là di questa osservazione di Tahar Ben Jelloun su La Stampa del 23 marzo, ho immediatamente sottoscritto l’appello, ma penso che non possiamo fermarci alla semplice richiesta di riapertura delle librerie.Proprio nel mese di marzo è entrato in vigore lo sconto del 5% invece del 15% ( penso alla libreria Cortina a Milano, che frequento rigorosamente per gli acquisti dal 1977 ).Nulla da eccepire sulla misura presa , se vogliamo salvaguardare le piccole librerie e le piccole case editrici.Ma qualche proposta in difesa del ” consumatore ” di libri deve essere avanzata.Si va dalla richiesta di poter dedurre sulla dichiarazione dei redditi gli scontrini dell’anno in corso, a quella più realistica , a mio avviso, di un calmiere dei prezzi, proprio per tutelare la fascia dei forti lettori.Non so se l’Osservatorio del Sud vuole lanciare un dibattito in questa direzione : personalmente ritengo che in tempi segnati da una recessione più che imminente qualcosa si debba fare.Già che ci sono ,segnalo sul supplemento la Lettura ( acquistabile ad 1 euro separatamente dal Corriere della sera ) una magnifica intervista sul coronavirus di Nuccio Ordine a Edgar Morin, filosofo francese classe 1921.

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