Afghanistan: ricatti umanitari

articoli di Emanuele Giordana, Giuliano Battiston, Luca Rondi e Valeria Cagnazzo (ripresi da www.lettera22.it, www.atlanteguerre.it, https://pagineesteri.it, https://altreconomia.it)

Afghanistan, ricatto umanitario – Emanuele Giordana

Prendere per fame un popolo equivale a un crimine contro l’umanità. Riflessioni su una crisi arrivata a un punto di non ritorno –

Se il futuro politico dell’Afghanistan resta una nebulosa, è invece drammaticamente chiaro il suo destino umano da qui a primavera, quando l’inverno che già attanaglia il Paese avrà reso noto il bilancio delle sue vittime. È un bilancio già largamente annunciato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie sin dai primi mesi dopo la fine di una guerra ventennale chiusa con un bilancio di almeno 250mila vittime.

Ma nonostante gli allarmi e le messe in guardia poco si è mosso. Una settimana fa gli Usa, che hanno congelato i beni della Banca centrale afgana che si trovano fuori dal Paese, hanno aperto una porticina che consente a Onu e Ong di aiutare l’Afghanistan senza incorrere nelle sanzioni approvate dal Congresso. Ciò sbloccherà anche una parte dei fondi della Banca Mondiale ma solo per l’aiuto umanitario.

In buona sostanza, si è fatto poco o nulla e solo in ambito umanitario anche se è evidente che se non si pagano insegnanti, medici, funzionari e così via, la macchina dello Stato finirà per incepparsi facendo collassare il Paese e riattizzando le speranza di chi crede che la battaglia contro il regime talebano si possa trasformare in un nuovo focolaio bellico.

Quanto si potrà fare per gli afgani dipende dunque dalla capacità negoziale soprattutto delle Nazioni Unite, strette tra un governo locale che non vuole imposizioni ma ha bisogno di aiuto, e le sanzioni di un Paese che ha perso la guerra ma adesso sembra volerle usare per vendicarne l’onta.

In tutto ciò l’Europa fa melina come al solito e con lei l’Italia. Continuando a rivendicare il salvataggio d’agosto si chiudono le frontiere e si evita di parlare di altri salvataggi futuri ma soprattutto non si affronta il nodo del rapporto coi Talebani.

E continuando a dire che non li si deve riconoscere non si fa che rimandare una possibile trattativa (che non è di per sé un riconoscimento), peraltro inevitabile sia se si vogliono difendere i diritti che si continuano a sbandierare, sia per «non lasciar soli gli afgani», un mantra che col tempo perde sempre più significato.

Più a Est, Roma non riconosce la giunta golpista birmana ma si è ben guardata – a ragione – di chiudere la nostra ambasciata che resta sia un baluardo di difesa dei nostri concittadini che incappino nelle maglie della giunta, sia un possibile tassello di attività negoziale, se mai si avviasse, pur senza riconoscere i golpisti.

Benché non sbandierate e ufficialmente non rifinanziate, molte attività di cooperazione sono ancora in piedi: evitano che contadini, malati di Covid, anziani e bambini soffrano colpe che non hanno. Ma coi Talebani non si può fare. Vengono disegnati come i più cattivi dei cattivi benché in questi 4 mesi abbiano ucciso, dicono le indagini sulle esecuzioni sommarie, un centinaio tra attivisti e collaborazionisti. I birmani ne hanno ammazzati circa sei volte tanto.

In politica i paragoni servono forse a poco, ma ciò che preoccupa dell’Afghanistan è che questa guerra persa e su cui ci rifiutiamo di ragionare, pronti ad affrontarne di nuove, ci sta facendo fare grandi passi indietro. Ha colpito che la viceministra Marina Sereni abbia detto alcuni giorni fa a Trento che in Afghanistan «la comunità internazionale ha in mano la leva molto importante dell’aiuto umanitario».

E se l’uscita poco felice della viceministra poteva aprire un contraddittorio, il portale del suo partito (Area Dem) sceglieva di titolare così la sintesi del suo intervento: «Fare leva su aiuti umanitari per chiedere rispetto dei diritti». Esattamente il contrario di quanto richiede l’aiuto umanitario, che a unica tutela – come vuole la Carta dei diritti dell’uomo – deve solo esigere che l’azione sia equa. Senza distinzioni di genere, etnia, classe sociale. Aiuto non ricatto.

Ma non si è vista la più piccola ombra di dibattito su un tema gigantesco su cui dovremmo avere avuto, dalla battaglia di Solferino e poi dal Biafra, la lezione ormai assodata che gli aiuti umanitari non vanno mai messi in discussione: si danno e basta. A Solferino Henry Dunant fondò la Croce rossa 160 anni fa proprio perché la cura non facesse distinzioni. L’accerchiamento del Biafra da parte della Nigeria alla fine degli anni ‘60 fece nascere Msf e fece capire al mondo che prendere per fame un popolo equivale a un crimine contro l’umanità.

https://www.lettera22.it/afghanistan-dilemma-umanitario/

 

  

Il dramma afghano e le responsabilità dell’Occidente – Giuliano Battiston

https://www.atlanteguerre.it/afghana/ foto di Giuliano Battiston

 La crisi nel Paese dipende soprattutto dalle sanzioni e dal congelamento degli aiuti da parte dei governi occidentali. Che vorrebbero colpire i Talebani, ma danneggiano la popolazione

“So che i miei figli dovrebbero andare a scuola, ma non abbiamo niente, né casa, né terra, né soldi. Devo mandarli ogni giorno per strada a raccogliere qualche spicciolo”, racconta Mohammad Agha, 39 anni, fuori dalla tenda in cui si è trasferito da qualche mese a Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, dove la temperatura è più mite che nel resto dell’Afghanistan, alle prese con un rigido inverno. “I commerci si sono ridotti del 50 per cento. Prima qui era un continuo via vai di camion, ora ci sono pochi mezzi al giorno”, nota Abdullah, responsabile a Mazar-e-Sharif, nella provincia settentrionale di Balkh, di un grande parcheggio per i camion provenienti dall’Asia centrale e dalle province settentrionali.

“Abbiamo tante competenze ma anche tante necessità. Per questo c’è bisogno dell’aiuto della comunità internazionale”, conferma il ministro di fatto della Salute, il dottor Qalandar Abad, all’ospedale Mirwais di Kandahar, nel profondo sud del Paese, prima di una visita al reparto pediatrico in cui è accolta una parte di quel milione di bambini sotto i 5 anni che secondo l’Onu rischiano di morire per malnutrizione. “Non c’è più lavoro e ogni cosa, dal riso alla farina al pane alle uova, costa più di prima: me ne torno al villaggio dai miei, a Ghazni”, racconta Yahya a Kabul.

“Sono costretta a vendere mia figlia più grande per far sopravvivere le altre tre”, spiega Marziah, gli occhi bassi, nel suo appartamento di Ghazni, mentre poco più in là un funzionario dei Talebani accusa un attivista locale di aver fatto propaganda contro l’Emirato, per aver portato all’attenzione pubblica il caso della donna, poi risolto, provvisoriamente, grazie alla solidarietà di tanti e tante, fuori e dentro il Paese.

Sono cinque dichiarazioni raccolte nel nostro ultimo viaggio in Afghanistan tra la fine di ottobre e la fine di novembre del 2021. Cinque tra tante. Sufficienti a rendere l’idea della profondissima crisi in corso. Una crisi che ha radici lontane. Non nasce il 15 agosto, quando i Talebani conquistano Kabul, portando al collasso della Repubblica islamica e alla fuga del presidente Ashraf Ghani, che proprio ieri è tornato a farsi vivo con un’intervista alla Bbc in cui difende la sua scelta. “Non avevo alternative”. Ci sono alternative, invece, alla crisi afghana. Perché è una crisi che dipende in buona parte dalle recenti scelte politiche dei governi occidentali, incluso quello italiano.

Per capirle meglio, occorre partire dal dato di fondo, strutturale: dal 2001, la comunità internazionale ha edificato un sistema statuale completamente dipendente dalle risorse esterne. Nell’estate 2021 gli aiuti dei donatori stranieri rappresentavano ancora il 43% del Prodotto interno lordo e ben il 75% della spesa pubblica. In Afghanistan – uno Stato-rentier – i servizi fondamentali, a partire da istruzione e sanità, dipendono dunque dai donatori internazionali. In questi anni i bisogni statuali sono stati sostenuti da una media di 8,5 miliardi di dollari all’anno in aiuti.

Scegliendo l’opzione militarista anziché quella negoziale, a metà agosto i Talebani hanno messo a repentaglio il legame tra lo Stato afghano e i governi che ne alimentavano la sopravvivenza, in particolare quello con Washington, peso massimo in ambito militare e finanziario. E i governi euro-atlantici non hanno perso tempo: Washington ha congelato alla Federal Reserve di New York circa 9 miliardi di dollari di riserve della Banca centrale afghana; le sanzioni precedenti contro singoli Talebani sono diventate sanzioni contro il governo di fatto; gli aiuti allo sviluppo sono stati perlopiù interrotti; Banca centrale e Fondo monetario internazionale hanno congelato i trasferimenti previsti.

Da qui, il tracollo economico, il collasso del sistema bancario, la mancanza di liquidità nel Paese, gli stipendi non pagati a insegnanti, medici, la contrazione dell’economia. E l’aggravarsi della crisi umanitaria: 23 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare, il 95 per cento è sotto la soglia di povertà. In poche parole, come ricordato nell’ultimo rapporto dell’International Crisis Group: le vittime di questa fase rischiano di essere superiori a quelle del conflitto in sé.

La strada scelta finora dalle cancellerie è la più facile. Salvarsi la coscienza con qualche aiuto umanitario, che non implica rischi politici, soprattutto in ambito domestico: chi vorrebbe essere accusato di aiutare i Talebani? Così, il Dipartimento del Tesoro degli Usa ha adottato delle “licenze”, valide solo per l’ambito umanitario, rispetto alle sanzioni in vigore. Il 22 dicembre lo stesso ha fatto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre la Banca mondiale ha reso disponibile una parte del miliardo e mezzo di dollari dell’Afghanistan Reconstruction Trust Fund, limitandone l’uso al settore sanitario e alimentare. E l’Onu fa sapere che l’appello-richiesta fondi per il 2022 sarà il più ingente della storia: 4,5 miliardi di dollari.

La strada scelta è però insufficiente. L’aiuto umanitario non libera l’economia afghana dallo strangolamento finanziario voluto dai governi occidentali. E non li svincola dalla responsabilità di compiere scelte politiche difficili ma necessarie, a partire da una domanda: è più importante salvare la popolazione afghana o colpire il regime dei Talebani?

https://www.lettera22.it/la-crisi-afghana-e-le-responsabilita-delloccidente

 

 

Afghanistan: l’ONU lancia il più grande appello umanitario della storia – Valeria Cagnazzo

 

“Un milione di bambini”. La voce del Coordinatore ONU per gli Aiuti di Emergenza, Martin Griffiths, trema quando lo ripete. “Un milione di bambini – le cifre sono così difficili da immaginare quando sono di questa entità – ma che un milione di bambini siano a rischio di malnutrizione acuta severa è un dato scioccante”. I bambini di cui parla sono quelli afghani, nati e cresciuti senza mai conoscere la pace e adesso travolti da quella che nel 2022 potrebbe diventare la più grave catastrofe umanitaria di tutto il pianeta. È per questo che l’11 gennaio a Ginevra è stato lanciato il nuovo piano congiunto delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative in risposta all’emergenza in Afghanistan. I finanziamenti dovrebbero essere destinati al soccorso umanitario di 22 milioni di afghani e di 5.7 milioni di profughi.

 

Si tratta della più grande richiesta di aiuti nella storia dell’ONU per un singolo Paese. “Oggi lanciamo un appello per 4.4 miliardi di dollari di aiuti per il solo Afghanistan”, una somma tre volte superiore a quella stanziata nel 2021.  “È una misura di ripiego assolutamente essenziale che oggi stiamo mettendo davanti alla comunità internazionale”, ha aggiunto Griffiths con tono grave, “Senza questo aiuto, non ci sarà un futuro”. I fondi, ha chiarito, saranno utilizzati per “pagare direttamente” gli operatori sanitari, senza passare per le mani delle autorità locali. Altri 623 milioni di dollari sono stati richiesti dall’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, per l’aiuto di oltre 5,7 milioni di sfollati, sia interni che rifugiati in Paesi limitrofi, come Iran e Pakistan (dove sono registrati circa 2.2 milioni di afghani secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati, l’UNHCR). “La chiave, in questo momento, è stabilizzare la situazione in Afghanistan”, ha spiegato, “compreso il problema degli sfollati, anche per prevenire una più grave emergenza di profughi negli altri Paesi”.

Una catastrofe senza precedenti, quella che si sta abbattendo sul Paese dopo la partenza delle truppe americane il 14 agosto scorso e soprattutto dopo il congelamento degli aiuti economici, che ha portato al lancio dell’”Afghanistan Humanitarian Response Plan”, la richiesta di aiuti più massiccia nella storia delle Nazioni Unite, di 5 miliardi di dollari. Secondo le stime, nel 2022 24.4 milioni di afghani, ben oltre la metà della popolazione totale, si troveranno in emergenza umanitaria, e almeno 23 milioni saranno in condizioni di severa instabilità alimentare: è a loro che il fondo d’emergenza ONU si rivolgerà.

I numeri, le immagini, le denunce raccolte dall’Afghanistan già negli ultimi cinque mesi del 2021 e nel gelo del primo mese del 2022 urlano al disastro e non stupisce che l’ONU sia stata costretta a lanciare un appello straordinario. La sanità afghana è al collasso. In un Paese che dipendeva per il 75% dagli aiuti internazionali, la partenza delle ultime truppe americane e il ritorno dei talebani al potere con l’embargo che ne è derivato hanno rappresentato un colpo tremendo a un’economia già poverissima. Oltre nove miliardi di dollari di beni appartenenti alla Banca centrale afghana sono stati congelati dall’amministrazione americana come misura preventiva al rafforzamento del governo talebano, e anche il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno sospeso i loro aiuti economici al Paese con la stessa motivazione. Dall’agosto del 2021, i medici afghani non ricevono lo stipendio. I farmaci non vengono riforniti, scarseggiano il carburante e l’elettricità, le incubatrici non possono funzionare. Dovrebbero accogliere e tenere in vita i nati prematuri, sempre più numerosi, partoriti da madri malnutrite i cui organismi non sono più in grado di portare a termine le gravidanze e le interrompono precocemente, in una maniera o nell’altra. Oltre 20 milioni di afghani patiscono la fame, e per 8.7 milioni di loro il World Food Programme, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, parla di “emergenza”.

 

Un milione di bambini in Afghanistan potrebbe morire di fame, secondo l’UNICEF. Il numero di bambini, inoltre, affetti da malnutrizione severa potrebbe arrivare nel giro di pochi mesi a 3,2 milioni, secondo la stessa Agenzia. Su una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, quasi la metà è costituita da minori: l’Afghanistan è tra i quattro Paesi al mondo con la percentuale più alta di persone di età inferiore ai 15 anni. Proprio su di loro, con riserve nutritive e difese immunitarie più basse, la fame si abbatte in maniera più impietosa. Non è mai stata tanto alta negli ultimi 20 anni la probabilità che un bambino sotto i cinque anni in Afghanistan muoia a causa della malnutrizione. Nell’ospedale di Medici Senza Frontiere a Herat, nell’Afghanistan occidentale, il numero di casi di malnutrizione è cresciuto del 40% nell’autunno 2021 rispetto ai dati dell’anno precedente. “L’accesso alle cure mediche in Afghanistan era un grande problema già prima della presa di potere dei talebani, ma oggi la situazione è ulteriormente peggiorata a causa della sospensione di gran parte degli aiuti internazionali, compresi i finanziamenti della Banca Mondiale per i programmi medici di base dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nella provincia di Herat”, si legge sul sito dell’ONG francese.

Le strade afghane, che erano rimaste chiuse dopo l’agosto scorso per motivi di sicurezza, adesso sono di nuovo percorribili, per quanto i rischi di incidenti e attentati restino sempre elevati. Gli afghani sono spesso disposti ad affrontarli pur di trasportare i loro parenti malati da un ospedale all’altro, alla ricerca di un nosocomio in cui siano disponibili dei farmaci o le apparecchiature necessarie per assisterli. Nella maggior parte dei centri sanitari mancano ormai i beni più elementari, e gli operatori che, seppur non stipendiati si recano al lavoro, devono fare quotidianamente i conti con la frustrazione di non poter curare i loro pazienti. “La crisi economica sta colpendo una popolazione che era già in ginocchio”, riporta Marco Puntin, coordinatore medico in Afghanistan di Emergency, l’ONG italiana che nel Paese gestisce tre ospedali e oltre 40 posti di primo soccorso. “Le persone rischiano di morire di fame, per non parlare del collasso del sistema sanitario”.

 

Non è solo la mancanza di cibo a preoccupare. Con la povertà e la mancanza di servizi di igiene e salute pubblica, nel Paese le malattie infettive si diffondono con facilità. Da gennaio 2021, divampa sempre più pericolosamente un’epidemia di morbillo, una malattia che può essere letale o provocare gravi danni neurologici permanenti. Anche lo spettro della poliomielite si è riaffacciato nel Paese, uno dei pochi al mondo in cui non è stata ancora eradicata: gli sforzi di questi ultimi anni avevano permesso un crollo delle infezioni, con un solo caso di poliomielite nel 2021 a fronte dei 56 nell’anno precedente. La crisi degli ultimi mesi, tuttavia, ha inevitabilmente arrestato la campagna vaccinale: se non si interverrà subito, quanto compiuto finora nella lotta per la sua eradicazione risulterà vano. A colpire gli afghani, primariamente i bambini, anche colera, malaria e febbre dengue. Oltre, naturalmente, al Coronavirus: solo il 7.7% dei 39 ospedali per il Covid19 starebbe attualmente ancora funzionando a pieno regime. Scarseggiano l’ossigeno e l’elettricità per trattare i pazienti, i tamponi per fare diagnosi di infezione ed è pressoché completamente saltato ogni tracciamento dei contagi.

Dopo quarant’anni di guerre, non c’è ancora pace per l’Afghanistan, che sta adesso probabilmente toccando il fondo della sua storia recente. Il clima peggiora la situazione: dopo un anno di siccità gravissima, adesso l’inverno gelido così temuto è calato sul Paese. Le famiglie vendono quello che possono per comprare il pane e bruciano i mobili per riscaldarsi. Si vive alla giornata. Sempre più braccialetti MUAC (“mid-upper arm circumference”) si colorano di rosso quando avvolti attorno al braccio dei bambini afghani, segno di malnutrizione severa. Gli addomi si gonfiano e gli arti si assottigliano, poi ad assottigliarsi sono anche i capelli, che assumono un colore rossastro o cadono, la pelle si screpola fino ad aprirsi in piaghe e poi arrivano le infezioni, che per fisici così defedati spesso si rivelano fatali. Immagini alle quali si è probabilmente abituati e che rimandano non soltanto al continente africano, ma anche a sofferenze simili che già in passato furono inflitte ai bambini da sanzioni internazionali: era la volta dell’Iraq e delle sanzioni contro il regime di Saddam Hussein, la fame mieteva le stesse vittime e un’epidemia di colera si abbatteva sui loro corpi ridotti a scheletri. Anche nel caso dell’Afghanistan, il taglio ai finanziamenti sembra colpire ingiustamente la popolazione innocente. Sarebbe sufficiente sbloccare i 9 miliardi della banca afghana, hanno fatto presente anche alcuni deputati americani all’amministrazione Biden, e i beni del Fondo Monetario e della Banca Mondiale destinati al Paese, almeno 1,5 miliardi di dollari, per raddoppiare la cifra che l’ONU si trova a richiedere con un appello straordinario e disperato. “Aiutateci ad allontanare la fame, le malattie, la malnutrizione e in definitiva la morte sostenendo il piano umanitario che stiamo lanciando oggi”. Il tono di Griffiths davanti alla platea della stampa era accorato, il suo sguardo esasperato era rivolto ben oltre le poltroncine confortevoli dei giornalisti, come a scrutare dentro a un abisso di anni di guerra inutile e fallimenti. I suoi occhi sembravano riconoscere per un attimo in quel buco nero di fronte a lui il milione di bambini martoriati dalla fame di cui aveva appena parlato. “Si profila una vera e propria catastrofe umanitaria. Il mio è un messaggio urgente: non chiudete le porte al popolo afghano”.

https://pagineesteri.it/2022/01/13/medioriente/afghanistan-lonu-lancia-il-piu-grande-appello-umanitario-della-storia/

 

 

La storia di Abdul, evacuato da Kabul e finito nel Cpr di Gradisca d’Isonzo – Luca Rondi

Dopo l’arrivo in Italia a fine agosto 2021, il 22enne ha tentato di raggiungere la Francia ma è stato trasferito e trattenuto per 32 giorni nel centro per il rimpatrio. Gli è stata addirittura notificata l’espulsione. “Il caso non è isolato e non è un errore. È una macchina amministrativa che opera in modo cieco e seriale” denuncia Gianfranco Schiavone di Asgi

 

“Sono partito da Kabul per essere libero. In Europa e in Italia ho trovato la galera”. Abdul, 22 anni, nonostante una richiesta d’asilo presentata nel nostro Paese e l’evidente impossibilità di essere rimpatriato in Afghanistan è stato trattenuto per 32 giorni nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca. “Una storia che non è frutto di ‘un errore’ ma evidenzia come ci sono ‘non-luoghi’, dalle frontiere ai Cpr, in cui le norme di legge che tutelano i diritti inviolabili delle persone sono totalmente disapplicate”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

 

 

Nei giorni successivi al 15 agosto 2021, dopo l’ingresso a Kabul dei Talebani, Abdul si sposta con la famiglia verso la capitale per raggiungere l’aeroporto. Dopo circa quattro giorni riesce a far ingresso nel gate senza i suoi famigliari. È un giovane a “rischio”: dopo la morte di suo padre, nell’agosto 2020, Abdul ha preso il suo posto come combattente del gruppo resistente di Massoud, nella regione del Panshir. Il 26 agosto 2021 atterra a Roma Fiumicino. “Una volta scesi ci hanno preso le impronte e siamo stati portati a Settimo Torinese per fare la quarantena -spiega-. Io ho lasciato subito il centro perché volevo raggiungere mio fratello maggiore che vive a Londra”. Da Oulx, cittadina in alta Val Susa, Abdul dopo due respingimenti subiti al confine italo-francese riesce a passare. Si sposta verso Parigi dove lo aspetta un amico con cui raggiunge Burbure, Comune francese non distante da Calais, il luogo da cui migranti e richiedenti asilo tentano la traversata della Manica. “Ho provato diverse volte -racconta-. Una sera la polizia mi ha fermato e vedendo che mi avevano preso le impronte in Italia mi ha trasferito a Rennes, in un centro di detenzione”. È fine settembre quando il giovane è trattenuto. “Mi hanno detto che sarei rimasto lì fino al 6 dicembre: se non fossero riusciti a trasferirmi mi avrebbero liberato. Ho fatto sette udienze: durante la prima ho detto che non volevo restare in Francia dalla seconda in poi sì. Ma non è cambiato nulla”.

Il 9 dicembre Abdul viene accompagnato su un aereo civile con destinazione Venezia: “Avevo due poliziotti al mio fianco e le manette ai polsi per tutto il viaggio -continua-. Una volta arrivato in aeroporto, i poliziotti italiani mi hanno detto che avrei dovuto fare un mese di quarantena e mi hanno portato in un altro centro”. Abdul non capisce subito in quale luogo si trovi. Contatta il cugino, in Italia da diversi anni, che cerca di capire dove sia. “Non era chiaro dove fosse. Le comunicazioni erano molto difficili, anche perché aveva il cellulare per pochissimo tempo durante il giorno. Raccontava di avere compagni di stanza che parlavano arabo e ci ha inviato una posizione su Google maps con cui abbiamo ricostruito il luogo”, spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese a Oulx.

Il luogo è il Cpr di Gradisca d’Isonzo. Pochi giorni dopo il suo arrivo nel centro, il giudice di pace convalida il trattenimento. “Sono rimasto per 26 giorni senza poter uscire -spiega Abdul-. Per due settimane ho dormito in una stanza con 13 persone. Era chiusa, le prime sere la finestra era rotta, non c’era riscaldamento e avevamo poche coperte. Non potevo spegnere la luce della stanza: delle sere veniva ‘spenta’ dagli operatori a mezzanotte, altre all’una, altre alle due. C’erano due bagni, piccoli, in corridoio. Non ho avuto nessun cambio per tutto il mese. A differenza che a Rennes, non potevo lavarmi i vestiti”. Al Cpr di Gradisca d’Isonzo è concesso utilizzare il proprio telefono ma in regime di quarantena è la struttura che ne fornisce uno che gli ospiti possono poi consultare a rotazione. Attraverso questo cellullare Abdul nomina l’avvocato che chiede un’udienza al giudice per farlo rilasciare. L’8 gennaio 2021 Abdul è libero dopo più di tre mesi di trattenimento, tra Francia e Italia.

Durante l’udienza di convalida all’avvocata Caterina Bove, socia di Asgi, viene mostrato un “foglio-notizie” in cui viene riportato che Abdul non voleva chiedere protezione internazionale in Italia. “È stato compilato a Venezia -spiega Bove- ed è un foglio attraverso il quale le persone dovrebbero dichiarare se vogliono chiedere asilo, se sono sul territorio per cercare lavoro o per motivi familiari ma il cui significato e la cui importanza non vengono compresi dagli stranieri se, come nel caso di Abdul, viene loro chiesto di sottoscriverlo senza spiegazioni e senza l’assistenza di un interprete. Spesso le persone non capiscono l’importanza delle risposte date, soprattutto in una lingua che non comprendono. Abdul dichiara di non ricordarsi che cosa ha firmato”.

Nel fascicolo presentato davanti al giudice che doveva decidere sul suo rilascio non c’è traccia di come Abdul sia arrivato in Italia né della sua storia e del suo vissuto in Afghanistan. “Nessuno ha preso atto che era un richiedente asilo, che era già stato accolto in un centro. Oltre il fatto che era stato evacuato dalle autorità italiane da Kabul. Sarebbero bastate poche domande per far sì che venisse accolto in un Centro di accoglienza e non destinato in un Cpr”, osserva Bove. Un testacoda delle autorità italiane che notificano un foglio di espulsione a un cittadino afghano, richiedente asilo, dopo averlo evacuato. “Una situazione assurda e paradossale ma che ci dimostra come siano procedure ‘meccaniche’. Nessuno si è fatto troppi scrupoli, o domande”.

Procedure in cui Abdul diventa “invisibile” e parte di un ingranaggio che nessuno blocca. “La legge è valutazione caso per caso alla luce di norme, tra cui i divieti di inespellibilità che vanno applicati nella loro interezza e complessità -spiega Schiavone-. Non è così. Polizia di frontiera, prefetto, questura di Gorizia, giudice di pace: tutti ritenevano, evidentemente, di poter espellere e persino trattenere per eseguire l’espulsione, un cittadino afghano, mentre ciò è tassativamente proibito dai divieti di espulsione configurati dall’articolo 19 del Testo unico immigrazione come novellato dalla legge 173/2020 che ha riformato i cosiddetti ‘decreti sicurezza’. Quello che emerge è una macchina amministrativa che opera in modo cieco e seriale, come in una sorta di  ‘banalità del male’, nella quale nessuno dei diversi attori fa il suo piccolo pezzo, apparentemente neutro, senza porsi alcun interrogativo sulle conseguenze finali: la storia di Abdul non è figlia di un errore ma evidenzia che il sistema non è in grado di bilanciare le finalità di eseguire le espulsioni con la tutela dei diritti fondamentali della persona, in primo luogo con il rispetto dei divieti di allontanamento”.

In tal modo la legge che si perde nel “buio” dei non luoghi, dalle frontiere ai Cpr, come raccontato anche su Altreconomia, in cui il diritto resta solo proclamato sulla carta. “In Italia da troppi anni esistono delle zone franche nelle quali il sistema di diritto svanisce, non monitorate da nessuno e che sono in sostanza fuori controllo. La norma prevede che all’interno del Cpr dovrebbero essere garantiti adeguati servizi legali e che il trattamento della persona deve rispondere a standard adeguati e comunque nel rispetto della dignità della persona. Che così non avvenga emerge dai continui e sconcertanti episodi che caratterizzano tutti i Cpr italiani da anni”.

Abdul è rimasto 32 giorni con gli stessi vestiti senza possibilità di cambiarsi o lavare gli indumenti. “La cosa non mi sorprende affatto -conclude Schiavone-. Siamo di fronte a situazioni che dovrebbero essere ricondotte a forme di trattamento inumano e degradante proibite dalla normativa italiana ed europea: situazioni non episodiche ma diffuse e probabilmente sistematiche sulle quali la magistratura dovrebbe iniziare ad indagare perché sono in gioco diritti fondamentali. Ma nessuno sembra volere scoperchiare questo coperchio perché non si saprebbe più come richiuderlo”.

Sono migliaia le persone trattenute ogni anno nei dieci Cpr attivi in Italia. Secondo lo studio “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) la capienza complessiva è di 1.100 posti e il costo totale di gestione dei centri dal 2018 al 2021 è stato di 44 milioni di euro. Sette sono i morti negli ultimi due anni in luoghi in cui le persone camminano sull’orlo di un burrone.

Abdul è libero e ora proseguirà con il suo percorso d’asilo solo grazie a “incontri fortuiti”. “Se non avesse avuto un cugino in Italia che si è attivato probabilmente ora sarebbe ancora trattenuto. Nessuno sa per quanto tempo non si sarebbero accorti di lui”, riflette Bove. La fortuna detta legge.

https://altreconomia.it/la-storia-di-abdul-evacuato-da-kabul-e-finito-nel-cpr-di-gradisca-di-isonzo/

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