ricordando Elena Casetto

con interventi del Gruppo Abele, di Simona Vinci e di Manuela D’Alessandro (*)

 

Simona Vinci ricorda Elena Casetto

Una vicenda ancora da chiarire. Ma senza dubbio drammatica, angosciante. La morte della giovane Elena Casetto, nemmeno ventenne, bruciata mentre era legata al letto d’ospedale, ha scosso moltissime persone, compresa la scrittrice Simona Vinci (autrice, tra gli altri, del romanzo Dei bambini non si sa niente, vincitore del Premio Elsa Morante e tradotto in dodici paesi) che dopo aver letto la notizia ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook che vi proponiamo integralmente.

IL POST DELLA SCRITTRICE

“Elena Casetto. Osio di Sopra. Senza nessuna vergogna o freno inibitorio, tale era il bisogno di saperne di più, l’ho cercata sui social e ho fatto una ricerca google ma in rete, le uniche tracce eloquenti riguardo questa ragazza che avrebbe compiuto vent’anni a ottobre – lo riporta un comunicato redatto da qualcuno che evidentemente qualcosa in più lo sa – sono la data e le circostanze della sua morte: 13 agosto 2019, ore 10, torre 7 piano III del reparto di psichiatria – anzi: “servizio del territorio” – dell’ospedale GIovanni XXIII di Bergamo, morta carbonizzata senza che nessuno facesse in tempo a salvarla nonostante i numerosi tentativi.

Le fiamme pare siano divampate proprio dalla stanza nella quale la ragazza, sedata, era legata – negli articoli si legge “bloccata” – a un letto di contenzione per uno “stato di grave agitazione” e da più parti si legge che “pare” sia stata proprio lei – sedata e legata! – ad appiccare l’incendio, ma non sia ancora come. Sherlock Holmes vorrebbe resuscitare per esaminare il caso e risolvere l’enigma.

Da qualche altra parte ho letto un macabro dettaglio: che i resti del suo corpo sono stati ritrovati a terra, una gamba ancora legata con una cinghia al letto. È la fantasia a briglia sciolta del cronista? È la terribile realtà? Come si può morire in questo modo? Come si può aver vissuto, in quel modo, mi chiedo io. Diciannove anni. Chi era questa ragazza, che sofferenze deve aver patito, quali danni subito e quale destino le è toccato, mentre era letteralmente nelle mani di chi avrebbe dovuto sor-VEGLIARLA, accudirla, aiutarla. È possibile che nel 2019 dopo tutte le battaglie fatte in nome della libertà e della dignità di ogni singolo individuo – soprattutto se sofferente – e anche se “pericoloso per sé e per gli altri” – si possa morire bruciati e legati a un letto di contenzione?

Le indagini sono in corso, ne sapremo di più, per ora quello che sappiamo è che se la pratica della contenzione meccanica è normata per legge in maniera molto restrittiva e deve essere utilizzata solo come extrema ratio, in realtà in molti “reparti” psichiatrici degli ospedali italiani si pratica eccome. C’è un profilo senza volto e senza informazioni su Fb che risponde al nome di Elena Casetto. Il buio, il nulla, il vuoto. Se davvero questo è il nome della ragazza e se è lei ad essersi registrata, sarebbe stato molto meno angoscioso e atroce trovarci dei fiori su quella home, dei gattini, una frase, i versi di una canzone, un selfie, piuttosto che quell’identità pencolante, allusiva ma muta. Una specie di monito: ci sono ma non esisto. È questo che grida la sua morte”.

da qui

 

Elena “la poetessa” morta bruciata in ospedale – Manuela D’Alessandro

“Le nostre strada sono sconnesse/ i nostri figli ridotti in schiavitù / I nostri cuori senza amore/ Ho paura di restare”. Nei versi della poesia intitolata ‘Terra de bandidos’ con cui vinse un premio,  Elena Casetto, morta carbonizzata a 19 anni in un letto del reparto di psichiatria dell’ospedale ‘Papa Giovanni’ di Bergamo, esprimeva la paura di restare in Brasile, il paese di origine della madre.  La sua fine invece è arrivata il 13 agosto in Italia, dove aveva raggiunto la madre India, 47 anni, in circostanze ancora tutta da chiarire.  E’ in corso un’indagine della Procura di Bergamo per omicidio colposo a carico di ignoti e, nei giorni scorsi, sia il ‘Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale’, che si  è costituito parte offesa nel procedimento, sia la Regione Lombardia, attraverso una commissione di verifica, hanno chiesto di accertare la verità. “Elena  sognava di studiare filosofia ad Amsterdam o a Londra e dedicarsi alla poesia e alla musica – racconta all’AGI Gege Silva, amico brasiliano della ragazza e della mamma, che non lascia un attimo in questi giorni di dolore  – Ha vissuto per sette anni a Salvador de Bahia da sola, studiava ed era autonoma. Suo padre, italo-svizzero, è morto nel 2012. Non ha mai tentato di suicidarsi quando era lì, come è stato scritto dai giornali, anche se offriva di ansia in modo molto forte”. Nei mesi scorsi, la madre l’aveva convinta a raggiungerla in Italia e avevano affittato un appartamento a Osio Sopra, vicino a Bergamo. L’8 agosto Elena ha tentato il suicidio. “Voleva buttarsi giù da un ponte ma è stata fermata dai carabinieri. Ricoverata prima a Brescia, è stata poi portata nell’ospedale di Bergamo. Quando la mamma è andata a trovarla, l’ha trovato in sedia a rotelle e imbottita di farmaci e ha chiesto ai medici di portarla via da lì. Per spiegare com’era Elena, un giorno ha domandato alla madre di portarle da casa i trucchi perché voleva  ‘sistemare’ le altre pazienti. L’11 agosto, Elena aveva implorato la madre di essere portata a casa dicendole di non essere pazza e che si sentiva trattata male’. Questo messaggio si trova nel cellulare di Elena che è stato sequestrato”. La mattina del 13 agosto, Elena prova di nuovo a  togliersi la vita, stavolta stringendosi un lenzuolo al collo. Viene salvata da due infermieri che decidono di sedarla e contenerla. In queste situazioni, il protocollo prevede che ogni 15 minuti il paziente venga sorvegliato visivamente e ogni 30 minuti per controllare i parametri vitali. Da fonti ospedaliere si è appreso che l’allarme  anti-incendio è scattato intorno alle 10. Elena è stata trovata dai Vigili del Fuoco bruciata nel suo letto. “Aveva un braccio e una gamba ancora legati, mi è stato detto – racconta Gege – tanto che io non me la sono sentita di fare il riconoscimento del corpo che mi era stato chiesto. L’incombenza è toccata all’avvocato”.  Dall’autopsia è emerso che la ragazza aveva sul corpo un accendino bruciato, col quale potrebbe avere appiccato le fiamme, anche se è da capire come sia stato possibile che l’abbia fatto da legata. Va tenuto anche conto che i materiali erano ignifughi.  Nei reparti di psichiatria, è possibile fumare ma sotto sorveglianza. E’ possibile che la ragazza abbia nascosto l’accendino nelle parti intime. L’indagine condotta dal pm Letizia Ruggeri, che ha sequestrato per qualche giorno il reparto di psichiatria, dovrà chiarire se ci siano stati deficit di sorveglianza da parte del personale sanitario o se qualcosa non abbia funzionato nella prevenzione e nella gestione dell’incendio a livello di organizzazione. “La morte di una giovane donna  ci addolora profondamente – hanno fatto sapere dall’ospedale dopo la morte di Elena – abbiamo espresso alla famiglia tutta la nostra vicinanza e continueremo a stare vicini a chi ha vissuto questo dramma. Attendiamo l’esito degli accertamenti in corso”. Molte persone si sono rivolte ai familiari per rivolgere solidarietà e pagare le spese del funerale di Elena. La sua morte ha riattivato i dibattito sulle contenzione dei malati e sulla sorveglianza negli ospedali. I promotori della campagna nazionale ‘E tu slegalo subito’ hanno scritto una lettera alle autorità regionali e governative chiamate a vigilare sulla salute in cui riconoscono “le difficoltà nelle quali versano gli operatori dei servizi, che lavorano spesso in condizioni di carenza di organico” ma sottolineano che “se la giovane Elena non fosse stata legata non avrebbe trovato quell’orribile morte”.  “Ci ricorderemo di te felice, piena di gioia e con la certezza che l’amore per il prossimo, la natura, la musica, la poesia, possa farci vivere nella speranza di un mondo migliore”,  ha scritto la madre sul suo profilo Facebook, restituendo il volto sorridente alla figlia che sul social era iscritta ma non aveva mai messo una sua fotografia.

da qui

 

Lettera aperta sulla morte in contenzione di Elena Casetto

Il Gruppo Abele aderisce alla lettera aperta diffusa dai promotori della campagna per l’abolizione della contenzione E tu slegalo subito, dopo la morte, a Bergamo, di Elena Casetto, e che volentieri pubblichiamo integralmente, ribadendo la necessità, già più volte denunciata, di potenziare l’organico di servizi che non devono essere posti di fronte a scelte di contenzione fisica per supplire la mancanza di personale.

All’assessore al Welfare della Regione Lombardia
dott. Giulio Gallera

Al Direttore sanitario dell’ATS Bergamo
dott. Massimo Giuppone

Al Direttore del Dipartimento di Salute Mentale Bergamo
dott. Massimo Rabboni

p.c. alla Ministra della Salute
Giulia Grillo

Egregi,

ci rivolgiamo a voi in qualità di rappresentanti legali di associazioni promotrici della campagna nazionale … e tu slegalo subito, per l’abolizione della contenzione meccanica nei luoghi della cura, a seguito della morte di Elena Casetto, giovane donna di 19 anni, ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, morta carbonizzata martedì 13 agosto in un incendio divampato nel reparto. Forse partito dalla sua stanza. Notizie di stampa e le dichiarazioni date dal reparto, dicono che la donna fosse contenuta: “La paziente deceduta era stata bloccata pochi istanti prima dell’incendio, a causa di un forte stato di agitazione, dall’équipe del reparto”. Come è pratica diffusa nella maggior parte dei reparti psichiatrici ospedalieri, lombardi, la “paziente” era stata “bloccata” attraverso contenzione meccanica e sedazione. Notizie più recenti ci dicono che la ragazza era stata legata al letto mani, piedi e fissata con una fascia toracica, dopo che aveva tentato il suicidio stringendosi un lenzuolo attorno al collo.

Sembra non possibile che da parte di tecnici della salute mentale si sia risposto alla sofferenza, alla richiesta di aiuto espressa da un tentativo di autosoppressione, con un gesto violento di negazione dell’altro quale è la contenzione meccanica. Invece di accogliere, supportare e farsi carico di quel dolore, dare attenzione, vicinanza, ascolto professionale e competente, si è ridotta la giovane donna a corpo da sottomettere e domare, togliendole dignità e rispetto. Ritorna con forza il ricordo di Antonia Bernardini, morta la notte del 31 dicembre del 1974, dopo quattro giorni di agonia, per le ustioni riportate nell’incendio prodotto nella sua stanza nel manicomio criminale femminile di Pozzuoli dov’era legata da 43 giorni (come lei stessa dirà al magistrato che la interroga “legata come Cristo in croce”). Le sue grida, imputate alla malattia, non trovano ascolto e solo dopo tempo un’infermiera sente la puzza di bruciato e accorre. Ma le fiamme sono ormai alte e Antonia è in condizioni disperate. Dopo quella morte il manicomio criminale di Pozzuoli viene chiuso.
Sono passati 44 anni da quel tragico evento, ma dobbiamo costatare che, nonostante l’Italia abbia una legge che permetterebbe di fare la migliore psichiatria possibile (Eugenio Borgna), e da 20 anni sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici, in molte parti del paese permangono nei servizi della riforma pratiche di stampo manicomiale, violente, lesive dei diritti e della dignità di chi le subisce e chi le fa. La pratica della contenzione, seppure illegale, è contemplata e largamente utilizzata nei servizi psichiatrici ospedalieri, fatta “per il bene del paziente” come dicono i sanitari, ma che nei fatti espone i/le ricoverati/e a esiti gravi, fino alla morte, e lede la dignità e la salute fisica e mentale anche di coloro che la attuano.

Conosciamo le difficoltà nelle quali versano gli operatori dei servizi, che lavorano in troppe situazioni in condizioni di carenza di organico, ma pure sappiamo che il ricorso alla contenzione non può imputarsi solo a questo ma tanto più all’orientamento culturale degli operatori e al modello organizzativo dei servizi. L’impegno per il miglioramento delle condizioni di lavoro deve andare di pari passo alla certezza del diritto per tutti.

Non possiamo non pensare che se la giovane Elena non fosse stata legata non avrebbe trovato quella terribile morte. Crediamo che sulla contenzione meccanica quindi bisogna concentrare l’attenzione da parte degli inquirenti e dei responsabili politici e tecnici. Va rilevato che in varie parti del paese esistono Servizi psichiatrici ospedalieri, circa 30, che fin dalla loro apertura (Trieste, San Severo, San Giovanni in Persiceto….) o da molti anni (Pistoia, Modena, Ravenna…) non ricorrono alla contenzione. Questi rappresentano la direzione verso la quale bisogna andare, rispettosa della Carta costituzionale (art. 13), della Convenzione e dei diritti delle persone con disabilità assunta dallo Stato italiano nella legge 18/2009 (art. 14, 15 e 17), delle raccomandazioni del Comitato nazionale di Bioetica del 2015.
Va infine sottolineato che il ricorso alla contenzione non riguarda/chiama in causa solo il servizio psichiatrico ospedaliero dove principalmente si attua, ma l’intero sistema territoriale dei servizi di salute mentale, rappresentando il servizio ospedaliero di norma l’imbuto in cui arrivano le criticità dei servizi psichiatrici territoriali, le risposte inevase, rimandate o mal trattate da parte degli stessi.
Così, mentre l’indagine giudiziaria, cui spetta di accertare eventuali responsabilità penali, segue il suo corso, a nome della campagna nazionale … e tu slegalo subito chiediamo che a partire da questa tragica morte, prenda avvio un’azione decisa nel Dipartimento Salute Mentale Bergamo che intervenga su cosa non ha funzionato, su cosa si sarebbe dovuto fare, su cosa deve cambiare perché tali eventi non succedano più.

Come campagna chiediamo agli intestati della lettera che vengano adottati provvedimenti per l’abolizione della contenzione meccanica nei Servizi psichiatrici ospedalieri lombardi e di ogni pratica “inumana e degradante” nei confronti delle persone con disturbo mentale.

Chiediamo che sia data centralità alla tutela della salute mentale, diritto dell’individuo e interesse della comunità, e rilanciato il lavoro di cura delle persone con disturbo mentale negli ambienti naturali di vita con interventi e politiche sui determinanti sanitari, socio-economici, lavorativi, culturali, ambientali, insieme a un finanziamento adeguato dei Dipartimenti di salute mentale.

Chiediamo che vengano avviate strategie e azioni visibili e trasparenti, per una profonda rivisitazione culturale, organizzativa e gestionale nelle politiche di salute mentale che possa rendere attuale la presa in carico e la cura delle persone con problemi di salute mentale nel rispetto della dignità e dei diritti, primo quello della cura.

Nell’informarVi che come associazioni promotrici della campagna ….e tu slegalo subito valuteremo l’opportunità di costituirci parte offesa in un eventuale processo penale, salutiamo con stima e ci rendiamo disponibili a ogni confronto e collaborazione.

da qui

(*) articoli tratti da Bergamo.news, da Unitanews e da giustiziami.it

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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