Ricordando Enrico (di Marco Piras)

Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi…

Salùdi e trigu a tui i a kini ti stìmara.

Che significa: “Salute e prosperità a te e a chi ti è affezionato”. Che è anche un modo, per quanto materiale possa sembrare, di augurare a qualcuno il meglio nella vita. Un saluto di altri tempi, quando ci si augurava il minimo indispensabile (il massimo che si potesse desiderare, per i più e anche oggi, per gran parte degli esseri umani): salute e grano (trigu) bastante per fare il pane.

Ma che senso ha augurarlo a chi non è più di questo mondo? A chi non ha più bisogno della salute, della prosperità materiale e dell’affetto? (l’affetto lo aggiungo io nella formula di saluto).

Be’, ne abbiamo bisogno noi, quelli che erano e sono in ‘corrispondenza di amorosi sensi’ con Enrico: familiari, amici, conoscenti.

Enrico non c’è più e non dirò che “È vivo» e, magari, che «lotta insieme a noi» che è uno slogan che non mi è mai piaciuto perché lo sento come una sorta di glorificazione del martirio e di tentativo di negare l’ineluttabilità della morte. Enrico non c’è più e si deve fare i conti con la sua assenza: i suoi familiari e gli altri. Ma rimangono tante cose di lui: i suoi cari i suoi amici i suoi scritti, le sue iniziative e attività i cui effetti durano. È lui che ci ha riuniti e che ci tiene ancora in contatto.

Ci siamo conosciuti a Firenze, premiati dal Premio Terzani, quindi ci siamo visti alla presentazione a Milano del suo Finis Sardiniae (citazione del Finis Africae? Con quella E finale che è l’iniziale di Enrico. Forse no, ma questo nascondere indizi per ‘cacce al tesoro’ a Enrico piaceva) e, quindi, in Sardegna, infine in Svizzera.

In Svizzera abbiamo parlato male della Svizzera (anche lui aveva letto La Svizzera al di sopra di ogni sospetto di Ziegler) ma io ho cercato anche di proporgli molte cose indiscutibilmente positive di questo Paese. Ma più che l’articolato sistema previdenziale, la democrazia diretta, il funzionamento dell’esecutivo, il sistema di tassazione, l’organizzazione della scuola e delle assicurazioni sanitarie, il sistema di raccolta dei rifiuti domestici, sembravano interessarlo e colpirlo altre piccole cose del vivere quotidiano:

  • che alle cinque di mattina tutti hanno il loro quotidiano nella cassetta della posta

  • che insieme con la cassetta delle lettere c’è quella ‘del latte’ (un tempo, il lattaio vi collocava il latte ordinato dalla famiglia). Oggi se vai a casa di qualcuno e non lo trovi, se devi lasciargli qualcosa, lo lasci lì: la chiave, libri, un regalo. E, naturalmente non è chiuso a chiave. E si chiama ancora la “Cassetta del latte”.

  • che puoi andare in un campo coltivato a fiori e tagliare quelli che vuoi e lasciare i soldi in una cassetta; e così in quasi tutte le fattorie, c’è un locale aperto a tutti, con i prodotti che il contadino vende (frutta, verdura, marmellate, sciroppi, uova, succo di mela, noci): prendi pesi, lasci i soldi in una cassetta e vai. E nessuno controlla.

“Perché non si può fare anche da noi questo?” commentava. E me lo chiedo anch’io.

Davanti alla Reuss, il fiume di Lucerna, è rimasto per un po’ a guardare in silenzio la massa d’acqua enorme che esce dal lago con violenza e velocità impressionanti: «Basterebbe che questo fiume scorresse un giorno in Sardegna per dare acqua a tutta la terra e approvvigionarsi per un bel po’». Ma ha aggiunto che, in fondo, ultimamente pioveva tanto in Sardegna e che il problema era riuscire a conservarla l’acqua e a ridistribuirla. Insomma, come, nei suoi scritti, fosse in Congo o in Libano, il pensiero, il confronto, la similitudine, rimandava alla sua Magna Mater.

Ma da lì ripartiva, con la sua forte identità, a intrecciare rapporti con persone di tutte le culture. Per quanto so io: Italia, Brasile, Romania, Bulgaria, Libano, Congo (anche un’adozione a distanza, in quel Paese), Svizzera, l’amico poeta pellerossa. E chissà quanto mi sfugge e non so.

Mi manca. Era bello e istruttivo incontrarsi e scontrarsi con lui. Diceva che io ero pibìncu’(eccessivamente pignolo) ma anche lui su certi punti era malleabile come l’acciaio quello temprato. Ma in lui, per quanto l’ho conosciuto, prevaleva la comprensione, la ragionevole flessibilità, la volontà di pace e pacificatrice. Ho imparato tanto e mi ha destato e risvegliato numerosi interessi e attenzioni. Mi mancano gli stimoli che venivano dalle conversazioni e dallo scambio di mail, dalla sua finezza e acutezza intellettuale. Per fortuna, rimangono i suoi scritti.

Non sentendolo per qualche mese, mi ero deciso a scrivergli, con un certo rimprovero, se ben ricordo. Così avevo saputo che aveva avuto un primo infarto. Ma nessuno me l’aveva detto. Poi non c’è stato abbastanza tempo per riprendere in mano e dipanare tutti i fili che avevamo aggrovigliato.

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