ricordando Gino Strada

articoli, immagini, proposte, ricordi, video: di Massimo Alberizzi, Dino Greco, Alessio Lega, Benigno Moi, Chiara Cruciati, Cecilia Strada e Vito Totire

una poesia di Alessio Lega:

 

 

UN RICORDO (di Vito Totire) E UNA PROPOSTA

La morte di Gino Strada è una grave perdita per l’umanità. Sarebbe appropriato ricordarlo con il Nobel per la medicina e per la pace

Non ci risulta che il Nobel sia stato mai attribuito alla stessa persona con due motivazioni; nel caso di Gino Strada è il caso di farlo: il suo modo di fare medicina si è intrecciato inestricabilmente con la lotta per la pace, contro la ingiustizia e contro la povertà;  certo lo proponiamo per partigianeria e per la sintonia con la sa pratica e con i suoi valori; per noi che siamo stati sempre sulla sua stessa lunghezza d’onda Gino Strada è stato un esempio, un faro; un esempio che ci è venuto in soccorso in ogni momento di stanchezza e di sfiducia ; in soccorso a noi “parolai” il suo esempio di “faber” ci ha sempre incoraggiati; per ogni granello di sollievo che ognuno di noi può aver portato a persone in difficoltà, ad ogni singolo granello corrispondeva, da parte di Gino, una montagna;

lui con Emergency ci hanno ispirato il nostro modesto lavoro di inchiesta (Una linda fabbrichetta, su “Medicina democratica” nel 1996) su una fabbrica di mine anti-uomo che è esistita ed ha prodotto nello stesso sito industriale che sarebbe stato teatro della strage operaia causata da fuochi artificiali (Modugno, 24 luglio 2015) ; un lavoro “Incompiuto” se dobbiamo constatare che l’Italia non ha messo in campo un piano internazionale per bonificare in maniera esaustiva tutte le mine prodotte nel suolo nazionale e vendute , con le opportunistiche triangolazioni, a paesi belligeranti ( peraltro i soli interessati a questo tipo di “merce”);

al dolore immenso per la morte di Gino si associa la consapevolezza di un esempio che agisce per noi da supporto psicologico alla voglia di “fare” per la pace , la giustizia e per una speranza di vita e di salute uguale per tutti gli esseri viventi del pianeta. Il lutto è profondo ma Gino Strada non morirà mai ; un “portatore di speranze collettive” il cui incancellabile ricordo ci sosterrà sempre nel “continuare in quello che è giusto” come esortò a fare Alex Langer.

Gino Strada ha sempre rifuggito onorificenze e premi ma il Nobel per la pace e per la medicina sarebbe un ennesimo gesto di sollievo per le sofferenze dell’umanità a cui Gino ha dedicato tutta la sua vita.

Vito Totire, rete per la ecologia sociale – via Polese 30 40122 Bologna

Bologna , 13.8.2021

 

 

ANBAMED (“notizie dal Sud Est del Mediterraneo”) pubblica – nella rubrica Approfondimenti – due articoli su Gino Strada del sindacalista Dino Greco e di Massimo Alberizzi, direttore di “Africa-Express”

PER GINO STRADA
(Dino Greco)

Eravamo nei primi anni novanta quando la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo (Bs), controllata dalla Fiat, era leader nazionale nella produzione di mine anti-uomo, vendute all’Iraq in 9 milioni di esemplari. Vi lavoravano un pugno di ingegneri, pagati a peso d’oro, e 40 operaie, addette allo stampaggio, per 800 mila lire al mese. In assemblea ponemmo in tutta la sua gravità il problema della corresponsabilità anche di chi lavorava alla costruzione di quegli ordigni di morte. La prima risposta fu: “Noi non abbiamo le mani sporche di sangue; se non facciamo noi le mine le farà qualcun altro”. Allora organizziamo un incontro in Camera del lavoro con Gino Strada al quale partecipò l’intero consiglio di fabbrica. La riunione fu introdotta da un documentario che Gino aveva portato con sé sui tragici e indiscriminati effetti delle mine, soprattutto sulla popolazione civile sui bambini, con mutilazioni permanenti, provocati da ordigni in qualche caso fatti a forma di bambole affinché suscitassero l’interesse dei più piccoli. Lo shoch fu potente ed innescò nelle lavoratrici una catarsi, una presa di coscienza che avviò una delle più straordinarie battaglie sindacali e di civiltà che io ricordi. A quel primo incontro con Gino Strada ne seguirono altri, mentre maturata la decisione di chiedere l’interruzione della produzione delle mine e l’avvio di un processo di riconversione. Ma la Valsella non aveva alcuna intenzione di rinunciare ad una produzione lucrativa come nessun’altra. Cominciarono gli scioperi, via via più intensi, fino a trasformarsi in un blocco a oltranza dell’attività. Il prezzo era altissimo. Dopo mesi di lotta le operaie e le loro famiglie vivevano a credito. La lotta non aveva contenuti salariali o normativi. Era il grido di donne che dicevano all’azienda dove si fabbrica la morte: “Noi non saremo complici”. Quelle operaie vinsero, perché la moratoria nella produzione di quegli ordigni infami ne bloccò la produzione. A quel punto si fece avanti un’azienda, la Vehicle Engineering&Design, che si candidò a rilevare l’impresa per produrre motori elettrici per automobili: indubbiamente un bel salto, dalle mine a motorizzazioni ecologiche. Ma la nuova azienda pose una condizione: potere vendere alla Spagna il brevetto dell’Istrice, un dispositivo per il disseminamento delle mine dall’alto, senza mappatura, con le conseguenze che ciascuno può immaginare. L’azienda promise che il denaro incassato sarebbe servito anche per saldare alle lavoratrici le mensilità arretrate. In assemblea intervenne la compagna più anziana, componente del consiglio di fabbrica e disse queste parole: “ragazze, in questi mesi abbiamo fatto tanta strada insieme e siamo cambiate. So che è dura, ma non possiamo tornare indietro. Quindi, nessuna macchia. Se la nuova azienda vuole subentrare, nessuna condizione”. Le operaie approvano, tutte, con un grande applauso. A sera scrivemmo alla Engineering comunicando le decisioni assunte di comune accordo fra sindacato e lavoratrici. Per uno di quei rari casi che talvolta capitano, l’azienda rispose che rinunciava alla propria richiesta. Segui’ una grande manifestazione, in realtà una festa. I brevetti furono restituiti al ministro della Difesa e gli stampi delle mine bruciati in piazza.
Sono certo che distanza di oltre vent’anni tutte le operaie ricordino questa vicenda come uno dei momenti più importanti delle loro vite e che il ricordo di colui che tanta importanza ebbe nella loro maturazione non è mai venuto meno.
Ben fatto, caro vecchio Gino.
La terra ti sia lieve.

Ruanda genocidio 1994: Gino Strada era lì per dare una vita ai martoriati dalle mine

di Massimo A. Alberizzi

Ecco il link all’articolo apparso su Africa-Express

Ho incontrato Strada la prima volta nell’agosto 1994. Eravamo in Ruanda, a Kigali la capitale. Il genocidio non era ancora finito e lui aveva appena aperto un ospedale per curare i feriti. Soprattutto giovani cui le mine antiuomo avevano sbranato le gambe. Era la prima missione di Emergency, organizzazione che aveva appena fondato. Kigali era devastata e le strade erano punteggiate dai cadaveri. La puzza della loro putrefazione pungeva inesorabilmente le narici. Appena entrato nell’hôtel Mille Collines (quello immortalato nel film Hotel Ruanda) ero rimasto sconvolto dalla presenza di tre corpi senza vita che galleggiavano sull’acqua della piscina.

Bande armate circolavano ancora per le strade della capitale e conveniva muoversi con una scorta armata. Il pericolo era costante e si percepiva ovunque Reso ancora più evidente per la mancanza di cibo. Era difficile trovare da mangiare. I negozi erano stati sfigurati e saccheggiati. Nello studio di Gino (studio è una parola grossa) all’ospedale, però campeggiava un casco di banane che serviva da pranzo, colazione e cena per lui, per i suoi 4 collaboratori arrivati dall’Italia, che per altro a Kigali non aveva ambasciata, e per me che, insalutato ospite, trovavo ogni giorno una gentile accoglienza. Indefesso il medico filantropo operava in continuazione era sempre lì, al tavolo operatorio con gli strumenti in mano.

Questo era il contesto nel quale si era trovato immerso, passando in poche ore dalla sua Milano, all’inferno di un genocidio “insensato”, come l’aveva giustamente definito lui.

Subito dopo quell’incontro abbiamo partecipato assieme a diverse puntate del Maurizio Costanzo show, denunciando le storture delle guerre e le giustificazioni ignobili che venivano date dal potere di qualunque genere. Poi l’ho sempre incontrato in contesti terribili, come la guerra tra Eritrea ed Etiopia del 2000.

Ci eravamo incrociati all’aeroporto di Francoforte, viaggiato assieme verso Asmara e l’avevo presentato alla mia collega del Los Angeles Times, Ann Simmons, che affascinata dai suoi racconti, aveva voluto rivederlo. L’avevamo intervistato assieme all’ospedale della capitale eritrea dove i feriti arrivavano a carrettate dal fronte.

Gino li curava ma non avrebbe dovuto parlare con i giornalisti e soprattutto negare le evidenze sotto i suoi occhi: che cioè, a giudicare dall’ingombrante ed esagerato numero di feriti,  il regime dittatoriale di Asmara stava perdendo la guerra. La sua bellicosa propaganda invece sosteneva il contrario.

L’articolo  di Ann con l’intervista a Gino Strada, pubblicato sul Los Angeles Times, fece il giro degli Stati Uniti e arrivò anche sul tavolo dell’allora presidente americano Bill Clinton, che parlò agli ambasciatori etiopico ed eritreo. Ma fu ripreso soprattutto dalla stampa, radio, televisioni, giornali locali americani. Lì Gino divenne un eroe ma la cosa non piacque alla dittatura di Asmara che lo chiamò a rapporto.

Volevano espellerlo ma fu salvato dalla sua professionalità, dalla sua dedizione e dal suo altruismo. Il regime giudicò che non era il caso di cacciare il medico che salvava vite e recuperava quelle che erano state gravemente offese da ferite gravissime.

Più tardi con lui sono stato anche all’inaugurazione del meraviglioso ospedale soprattutto cardiologico a Khartoum, in Sudan, il Salam Centre for Cardiac Surgery. Un’opera straordinaria finanziata – come orgogliosamente amava ricordare – da donazioni private. Già perché il suo “attivismo umanitario”, rigorosamente laico e non religioso, catalizzava l’attenzione di finanziatori (spesso anche anonimi) che avevano capito che Emergency, a differenza di altre organizzazioni, utilizzava il denaro per portare aiuto ai più bisognosi del mondo e non per nutrire appararti burocratici che poco hanno a che fare con la genuina assistenza umanitaria.

Massimo A. Alberizzi

Segnaliamo anche questo articolo con intervista a Gino Strada da Kigali del 1994 e questo articolo di Massimo Alberizzi che riporta le parole di Gino Strada sulla guerra in Eritrea del 2000.

Abolire la guerra unica speranza per l’umanità – Gino Strada

Gino Strada, fondatore di EMERGENCY, ha ricevuto il Premio Nobel alternativo davanti al Parlamento svedese “per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra”.

Il Premio Right Livelihood è stato concepito per “onorare e sostenere coloro che offrono risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo”.
Quest’anno la Fondazione ha ricevuto ed esaminato 128 proposte da 53 paesi. A partire da oggi i Laureati del Premio Right Livelihood sono 162 e provengono da 67 paesi diversi. È la prima volta che il Premio viene dato a un cittadino italiano.

Davanti ai parlamentari svedesi, Gino Strada ha fatto un appello speciale alla comunità internazionale:

Onorevoli Membri del Parlamento, onorevoli membri del Governo svedese, membri della Fondazione RLA, colleghi vincitori del Premio, Eccellenze, amici, signore e signori.

È per me un grande onore ricevere questo prestigioso riconoscimento, che considero un segno di apprezzamento per l’eccezionale lavoro svolto dall’organizzazione umanitaria Emergency in questi 21 anni, a favore delle vittime della guerra e della povertà.

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette “mine giocattolo”, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “paese nemico”. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.
Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, EMERGENCY ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L’origine e la fondazione di EMERGENCY, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, EMERGENCY ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di EMERGENCY.

Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’ONU: “Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russell-Einstein“Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: “L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana”.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla “utopia”, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava “utopistica”. Nel XVII secolo, “possedere degli schiavi” era ritenuto “normale”, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.

Ricevere il Premio “Right Livelihood Award” incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.

Grazie.

— Gino Strada, Stoccolma, 30 novembre 2015

da qui

 

 

«La vera insicurezza è incitare all’odio contro chi sta peggio» – Chiara Cruciati intervista Gino Strada

Guerre. Intervista a Gino Strada: «La realtà di oggi preoccupa, c’è chi soffia sull’odio, chi inneggia alla violenza: siamo già dentro un nuovo fascismo. In Italia nessuno chiede perché, con milioni di poveri, abbiamo una spesa militare di miliardi»

«Com’è possibile aver fatto negli ultimi 200 anni delle scoperte incredibili, realizzato cose impensabili in tutti i campi, nella medicina, la chimica, le nanotecnologie, ma non essere stati capaci di progredire sul piano etico? Capire che ammazzarsi tra noi è un non senso, è contronatura».

Gino Strada la guerra la conosce bene. La conosce bene Emergency, l’associazione che fondò nel 1994 per offrire cure mediche gratuite alle vittime dei conflitti. In Africa, in Iraq, in Afghanistan e, a breve, in Yemen.

Dei 25 anni di Emergency abbiamo parlato con Gino Strada, in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica Zakhem di Giulio Piscitelli.

Il sottotitolo della mostra è «La guerra a casa». Perché?

Le foto di quei pazienti indicano chiaramente che sono dei civili anche se per lo più indossano i vestiti bianchi degli ospedali. È nei villaggi, le città, le case che si combatte la guerra e le vittime sono chi ci abita. Credo che sia una bella mostra: Giulio ha fatto un ottimo lavoro fotografando i pezzi di metallo, schegge, proiettili che i chirurghi toglievano in sala operatoria. C’è la foto del paziente e di cosa lo ha conciato così. È una delle tante iniziative che stiamo mettendo in cantiere.

Può tracciare un bilancio di 25 anni di attività di Emergency?

Sono stati 25 anni utili. Utili a tantissime persone perché ne abbiamo curate più di 10 milioni nel mondo. Però sono stati utili anche a noi: abbiamo imparato tanto. Non solo cose di medicina e chirurgia ma anche cose sulla guerra e sul mondo, su noi stessi.

Tra i paesi in cui siete oggi attivi c’è lo Yemen, che più di altri oggi rappresenta il nuovo «modello» bellico: guerra a dei civili, guerra dimentica, guerra per procura, guerra internazionale attraverso la vendita di armi. Come leggete il vostro impegno lì?

Non siamo ancora operativi, è tutto pronto ma stiamo aspettando le ultime autorizzazioni dal punto di vista della sicurezza. Saremo ad Hajjah. È difficile fare previsioni su cosa ci troveremo di fronte. Lo Yemen è il paese con il peggior disastro umanitario a livello mondiale, regolarmente ignorato da quattro anni. Faremo un ospedale per feriti di guerra con i soliti nostri criteri: i feriti sono i feriti, senza ulteriori specifiche su come la pensano o da che parte stanno. Faremo il nostro lavoro professionale. C’è da fare poi un discorso sulla nostra politica che continua a tollerare la vendita di armi prodotte in Italia da una ditta tedesca all’Arabia saudita che le usa in Yemen. Nessuno può nascondersi dietro un dito: ci sono accordi commerciali. Ma a essere assolutamente prioritario è il diritto della popolazione yemenita a restare viva e non essere bombardata.

L’Italia in Yemen è presente con le bombe fabbricate a Domusnovas dalla Rwm in violazione della legge 185/1990. Emergency in passato è stata promotrice della campagna per la messa al bando delle mine antiuomo. La vostra presenza in Yemen, oggi, potrà darvi una voce più forte?

Penso che le due cose siano assolutamente legate: un’organizzazione che va in Yemen per cercare di salvare vite umane non può essere d’accordo con il buttare bombe e con chi le fornisce. A parte differenze sostanziali per cui stavolta abbiamo di fronte una fabbrica tedesca e non italiana, ci sono condizioni analoghe al caso delle mine antiuomo: il governo dice un sacco di bugie. Quello che potrebbe fare subito è una moratoria. Cominciamo a dire che anche in assenza di una legge questa cosa non si fa più e che dall’Italia non esce più neanche un serramanico diretto a un paese in guerra. Penso che un decreto di moratoria possa essere portato in parlamento in 10 giorni.

Guerra e casa sono termini dissonanti, soprattutto per un’Europa che dichiara con orgoglio di essere priva di conflitti dal 1945, dimenticando spesso i Balcani. Ma questa assenza è relativa esclusivamente al proprio territorio: l’Europa è parte attiva nei conflitti che si consumano in altri paesi, con vendita di armi, prese di posizioni diplomatiche, partecipazione a campagne militari e, non da ultimo, indifferenza.

Bisognerebbe ricominciare a studiare com’era l’Europa alla fine della guerra. Me lo immagino un ambiente lugubre e spettrale, attraversato da milioni di persone in cerca di qualcosa da mangiare, con cui coprirsi. Questa era l’Europa del primo dopoguerra. Dovrebbe chiarire le idee ad alcuni che hanno la scappatoia della guerra come soluzione dei problemi. Rischiamo di ricadere nella stessa retorica, nella stessa spirale: siamo già dentro questa situazione, la macchina gira di nuovo. Anche a livello internazionale i dati sono questi: non si sta andando verso un mondo più pacificato, ma verso un mondo che sta preparando e in parte attuando forme di guerra. La questione della guerra è etica ma che ha anche un impatto politico enorme: nel paese non c’è un partito che intenda costruire un percorso per uscire dalla guerra come prospettiva storica e che chieda cosa facciamo in un’alleanza militare, perché dobbiamo spendere miliardi in armi quando abbiamo milioni di poveri. Se oggi si fanno queste domande alla classe politica la risposta è trasversale: «la guerra è brutta però», «non va fatta ma». Gli scienziati atomici lo dicono da anni: per il rischio guerra e per come stiamo trattando questo pianeta, non abbiamo una prospettiva rosea se non interveniamo immediatamente e drasticamente.

Emergency da anni combatte la guerra e i suoi effetti, la fame, le malattie, migliora le condizioni di vita delle persone. Attività umanitarie ma che hanno un valore politico: la vostra presenza in determinati contesti «politicizza» la narrazione dei conflitti, perché ne svela le ragioni. È tornato il tempo, a sinistra, di approcciarsi ai conflitti, militari o sociali, da un punto di vista politico e non solo umanitario?

Penso che ci si debba approcciare al tema guerra con un pensiero profondo e nuovo che è quello esortato nel manifesto di Russell-Einstein del 1955. Un pensiero nuovo che deriva dal fatto che viviamo nel periodo atomico, la più grande discriminante tra il nostro periodo e quello precedente. Si deve andare verso l’abolizione della guerra come suggeriva Einstein prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. E invece si aumentano le spese militari: l’anno in cui le spese militari italiane sono aumentate di più è stato sotto il governo Renzi. C’è, se non unanimità di vedute, almeno di comportamenti.

Tra le guerre che l’Europa oggi combatte c’è quella alle persone: si moltiplicano i muri fisici e quelli politici e simbolici che hanno effetti devastanti sia su chi tenta di arrivare qui sia sulle società europee, incattivite e vittime di un annientamento della solidarietà sociale. Come legge oggi la natura delle società europee?

Non ho grande fiducia nell’onestà delle generalizzazioni o dei sondaggi. Vedo che c’è chi soffia sull’odio, chi ha voglia di vedere l’odio spandersi a macchia d’olio, chi inneggia di nuovo alla violenza. È triste perché ti dice non ci siamo sviluppati molto. Quanto ci mettiamo a fare dei passi avanti dal punto di vista etico? Se avessimo una popolazione più attenta e istruita, si potrebbe chiedere conto ai politici che si candidano a rappresentarci. Non sono idee generali, ma cose specifiche semplici: la guerra non si può fare, non solo perché c’è un decreto che la vieta ma perché nel mondo atomico, con le armi che abbiamo sviluppato, non possiamo più permetterci la guerra. Abbiamo creato la possibilità della nostra autodistruzione. Il fare a meno della guerra diventa obbligatorio, non una mera scelta etica, ma un meccanismo di sopravvivenza.

Veniamo all’Italia, recentemente ha detto che Salvini porta con sé l’elemento caratteristico del fascismo: il razzismo. Che pericolo corriamo?

Credo sia sbagliato parlare di pericolo: questa è una realtà. Quando i ministri cominciano a non fare i ministri, ma vanno in giro a dire la qualunque, sempre più circondati da un alone di militarismo, la cosa preoccupa molto. E mi preoccupa l’assoluta mancanza di umanità. Non dovrebbe essere prendersi cura dei cittadini il lavoro di chi deve garantire la sicurezza? Mi pare invece sia un lavoro orientato a ignorare i cittadini e spingerli a puntare il dito contro chi sta più in basso. Non si punta mai il dito in alto: perché ci sono milioni di poveri in Italia, non si dice mai.

Il ministro dell’Interno parla in questi giorni di un decreto sicurezza bis che prevedrebbe multe a chi salva vite umane in mare. Si sta superando un’altra linea rossa? La criminalizzazione della solidarietà avrà effetti duraturi sul nostro paese?

Questa proposta è allucinante. È frutto di questo clima: siamo già dentro questa nuova forma di fascismo, che non si presenterà negli stessi termini della volta precedente ma non sarà meno dannosa. Avere sempre come nemico chi sta peggio e impostare questa contraddizione sulla paura dell’altro è un modo di pensare, prima che di comportarsi, che speravo sparito nella mentalità degli europei. Invece no. Negli intermezzi tra le tragedie non riusciamo mai a trovare il bandolo della matassa. La Dichiarazione universale dei diritti umani a distanza di 90 anni non è stata integralmente applicata da nessun paese firmatario. Erano i principi che dovevano orientare la politica dei governi, ma nessuno è andato in quella direzione.

Il Manifesto, EDIZIONE DEL 15.05.2019

Così ho visto morire Kabul – Gino Strada

Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico. È difficile ignorare la notizia diffusa ieri: i talebani hanno conquistato anche Lashkar Gah e avanzano molto velocemente, le ambasciate evacuano il loro personale, si teme per l’aeroporto. Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino – meglio: che siano sempre mancate – entrambe. La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali.

Il Consiglio di Sicurezza – unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza – era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato: gli Usa procedettero con una iniziativa militare autonoma (e quindi nella totale illegalità internazionale) perché la decisione di attaccare militarmente e di occupare l’Afghanistan era stata presa nell’autunno del 2000 già dall’Amministrazione Clinton, come si leggeva all’epoca sui giornali pakistani e come suggerisce la tempistica dell’intervento. Il 7 ottobre 2001 l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei.

Ufficialmente l’Afghanistan veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla “guerra santa” anti-Usa di Osama bin Laden. Così la “guerra al terrorismo” diventò di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996, dopo che per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994.

Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. Invito qualche volonteroso a fare questa ricerca sui giornali di allora perché sarebbe educativo per tutti. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Nei mesi e negli anni successivi le informazioni sulle vittime sono diventate più incerte: secondo Costs of War della Brown University, circa 241 mila persone sono state vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Solo nell’ultimo decennio, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato almeno 28.866 bambini morti o feriti. E sono numeri certamente sottostimati.

Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme.

Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency – pieni di feriti – continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”.

da qui

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

9 commenti

  • Gino e Teresa ci hanno lasciato in dono un bene inestimabile:
    EMERGENCY!

    Corrado Seletti
    Perilfuturodellenostrevalli
    Ambiente – Salute e Vita

  • Mariano Rampini

    Gino se n’è andato. Gino resta. Perché per uno di quei casi che in altri tempi avrebbero chiamato miracolo, lascia dietro di sé un’impronta profonda quanto la coscienza di ogni uomo che sia in gradoi di guardare al di là del confine del proprio orticello. Non saranno molti (a volte è difficile farlo, lo so per esperienza personale) ma è cosa da non dimenticare mai perché se la coscienza morde, vuol dire che la coscienza è viva. Così come resta viva Emergency. Ora viene il difficile: far sì che quello che è stato fatto da una semplice persona, da un uomo, con le sue virtù e le sue debolezze, non vada perduto. E’ questo – forse? – il lascito che Gino (non l’ho mai conosciuto se non attraverso i mezzi di comunicazione) ci consegna. Perché ormai, se davvero vogliamo un futuro, dovremo guadagnarcelo giorno per giorno…

  • dalla pagina FB di Gian Luigi Deiana

    SIAMO STRADA
    sul mutismo delle istituzioni

    oggi è il giorno dopo: gino è di là, e se chi è andato di là ti è caro, al mio piccolo paese ci si augura un incontro, “incontrarsi nella gloria”;

    oggi in milioni rendono un omaggio come questo; questi mezzi di partecipazione a tastiera fanno anche del cordoglio silenzioso di un giorno di rispetto una chiassata globale: è molto brutto, ma quando i finti muti cominciano a scrivere, o a parlare le loro finzioni, è necessario sapere non leggere e non ascoltare: analfabeti e sordi, è necessario saperlo fare;

    ma una cosa mi sconcerta in questo chiasso del silenzio: il mutismo delle istituzioni; non le espressioni dei leader di partito, che dovrebbero saper aspettare a dopodomani, quando i necrologi vanno democraticamente all’indifferenziata; dico le istituzioni; le istituzioni sono il presidente della repubblica, le presidenze dei due rami del parlamento e il capo del governo;

    io odio le ipocrisie davanti ai morti; ma oltre queste meschinità umane, di cui “tutti” a volte siamo capaci, vi è un dovere: quanto meno togliersi il cappello quando ti passa davanti un mancamento come questo; questo non è un lutto nazionale, e nemmeno una medaglia d’oro alle olimpiadi; questo è un lutto planetario;

    cari miei presidenti: sergio mattarella, signora alberti casellati, roberto fico, mario draghi: avete la misura di come si interpreta lo stato d’animo di una nazione o di chi più o meno di buon grado la compone?

    non è necessario che condividiate una cicca, di quelle innumerevoli fumate fino in fondo da gino strada: è necessario che riconosciate a quale onorabilità può giungere il popolo che oggi rappresentate, che è riconosciuta da tutto il mondo di buona volontà in persone come questa;

    è necessario che come tutti i mortali vi togliate il cappello, ora che passa;

    poi, dopo solo un minuto sull’attenti, sarà anche solo un bambino delle mine anti-uomo, a dirvi “riposo”.

  • Francesco Masala

    Un coro stonato di ipocriti per Gino Strada – Alberto Negri

    Le lodi sperticate (ma meritate) per Gino Strada sono, come dice il suo caro amico Moni Ovadia, l’ennesima dimostrazione di un Paese ipocrita. Gino Strada in vita è stato molto criticato, anche ferocemente, da quelle stesse persone che adesso sui giornali si sprecano nel ritratto dell’”italiano buono” che salvava la gente dalla morte. Certo Strada era soprattutto questo, un buono, un uomo impegnato nell’umanitario, ma dire buono non vuol dire fesso. Strada era un critico puntuale e spietato della società contemporanea, un osservatore attento della politica internazionale, del comportamento nostro e della grandi potenze, assai responsabili dei disastri che vediamo davanti ai nostri occhi, dall’Afghanistan, al Medio Oriente, all’Africa.

    Molti di quelli che oggi lo santificano sui giornali e chiedono per lui il Nobel, sono gli stessi giornalisti e opinionisti che per 20 anni hanno appoggiato le guerre americane, dall’Afghanistan all’Iraq. Alcuni di loro tra l’altro _ aggravante massima _ non hanno mai messo piede in questi luoghi o lo hanno fatto per prendersi soltanto una veloce abbronzatura esotica. Sono gli stessi sprovveduti che hanno avallato le bugie di Bush junior e di Blair sulle armi distruzione di massa di Saddam Hussein. Sono coloro che non si sono mai accorti che in Afghanistan le cose andavano male da anni. Che non sanno niente di come vive questa gente, di che cosa ha bisogno e soprattutto che cosa pensa di noi occidentali.

    Gino Strada era contro queste guerre che i politici italiani, i giornali italiani, hanno sostenuto con ogni argomento e contro ogni logica. Vedeva la gente morire, le ferite sanguinare e ascoltava con i suoi medici e collaboratori quel che pensava la gente del posto, senza la mediazione della retorica. Perché qui da noi non siamo soltanto davanti a degli ipocriti ma anche a gente decisamente ignorante o in mala fede che teme ogni volta di esporsi con un’idea o un’opinione controcorrente perché teme di mettere a rischio la sua miserevole carriera. Prendete il nostro ministro degli Esteri attuale fa parte di un movimento che in molti casi si è espresso, in passato e anche oggi, come Gino Strada contro le guerre e contro la presenza delle nostre truppe in Afghanistan o in Iraq. Adesso loda a ogni piè sospinto gli Usa e la Nato, senza se e senza ma. Salvo poi accorgersi, con impercettibile ritardo, che dopo avere ammainato la bandiera a Herat bisogna fare subito i bagagli anche da Kabul. Vedete in che mani siamo?

    Gino Strada, come tanti altri in questo Paese che dedicano la vita agli altri, serviva e serve a questa Italia di ipocriti per lavarsi le coscienze. Alcune volte non ero d’accordo con le cose che diceva o con l’analisi di certe situazioni. Ma non era importante che lo fossi o meno. L’importante era che ci fosse una voce alternativa, un punto di vista diverso di cui tener conto. E lui era una di queste voci. Parlava anche per quelli che non contano o che restavano in silenzio. Questo era il valore morale di Strada, il suo peso anche “politico” in senso lato. Parlava anche per quei politici che non hanno il coraggio di farlo, e da noi sono la maggior parte: quante volte mi danno ragione in privato sul Medio Oriente, la Libia o l’Afghanistan e poi si allineano con la versione americana e atlantista?

    Gino Strada veniva convocato dai politici quando serviva e si era al limite della disperazione. Come nel caso del rapimento in Afghanistan nel 2007 del giornalista Daniele Mastrogiacomo. In quel periodo Strada riceveva quasi ogni giorno a Kabul i giornalisti italiani, è stato il momento in cui l’ho conosciuto meglio anche se gli ospedali di Emergency costituivano da sempre un punto di riferimento per gli inviati. Il suo mediatore Hanefi fu decisivo per liberare Mastrogiacomo ma venne tenuto in carcere per tre mesi come complice dei talebani. Questa vicenda in queste ore è passata magari sotto traccia ma è indicativa delle difficoltà a vivere come ha fatto Gino Strada, con generosità.

  • Francesco Masala

    piero brombin ha scritto

    che la città di Padova dedichi una piazza a GINO STRADA.

  • Gino Strada è stato uno dei pochi personaggi con visibilità pubblica il cui comportamento è stato sempre coerente con i valori nei quali credeva. Gli insulti e le critiche vigliacche che ha dovuto subire in vita da personaggi meschini interessati soltanto al proprio tornaconto dimostrano come la sua vita sia stata un esempio da seguire per tutte le persone che, credendo in quegli stessi valori, cercano di andare nella stessa direzione. E ancora di più per chi non ha ancora capito che stiamo tutti sulla stessa barca e quindi, nel medio o lungo periodo, andremo incontro alle stesse conseguenze (vedi per esempio gli effetti del cambiamento climatico). R.I.P.

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