ricordando Jack Kerouac

a cinquant’anni e un mese dalla morte – articoli di Dianella Bardelli, Beatrice Cassina, Federica D’Alfonso (ripresi da Carmillaonline, Fanpage, il Manifesto)

Attualità e inattualità di Jack Keoruac – Dianella Bardelli

 

Ci sono scrittori che sono attuali, anzi necessari proprio perché inattuali rispetto al nostro presente. Sono come un faro che indica la strada in periodi di confusione come quello che stiamo vivendo. I sentimenti, le emozioni, i valori che trasmettono (senza volerlo, spontaneamente) derivano dalle storie che raccontano e dal tipo di relazioni tra i personaggi. Nel caso di Kerouac, ciò che è ancora necessario è la spericolatezza della sua scrittura. I rischi che continuamente si prende a partire da On the road, per inventare una nuova lingua letteraria che gli permetta di esprimere il suo mondo interiore, il senso dell’amicizia, la curiosità, ma anche un mare di disperazione.

On the road non è il romanzo del “come eravamo”, ma del come potremmo essere. Non è attuale, a mio parere, ciò che semplicemente parla dell’oggi, bensì ciò che ci riporta alla parte più profonda di noi stessi e che abbiamo perso di vista. Per me un romanzo, una poesia, un film sono attuali se chiedendomi “mi riguardano?” la risposta è sììì!

Sono passati più di 60 anni dalla prima pubblicazione di On the road. Era il 5 Settembre del 1957, ma per me è come se fosse ieri. Kerouac non è il frutto del passato, del suo passato storico, ma la materia viva di una mente che ha attraversato indenne i decenni, e ne attraverserà ancora molti altri. Perché? Perché il suo è il racconto epico dei tempi moderni e per quanto mi riguarda punto di riferimento di quel “rimaniamo umani” di cui abbiamo così bisogno oggi. Nel saggio Jack Kerouac e la composizione di Sulla Strada che appare come introduzione in Jack Kerouac/On the road – il rotolo del 1951, Howard Cunnell dice una cosa importantissima: “Assai più che una guida per hipsters Sulla strada è una ricerca spirituale… gli interrogativi che si pone sono gli stessi che ci tengono svegli la notte e scandiscono i nostri giorni. Che cos’è la vita? Cosa significa essere vivi mentre la morte è ai nostri calcagni? Potrà la gioia togliere di mezzo le tenebre?” In On the road questa ricerca punta all’unica – forse – modalità in cui si cerca se stessi: viaggiando. E con chi? Soli, o con un amico.

Kerouac aveva già scritto sei dei suoi capolavori più importanti prima di veder pubblicato On the road nel 1957, dopo che fu costretto a “normalizzare” la versione del 1951. Quando iniziò a pensare al romanzo decise che quella storia aveva bisogno di un nuovo modo di raccontare. Doveva essere la scrittura dei tempi moderni, così come il jazz di Dizzy Gillespie e Charlie Parker lo era per la musica, e l’espressionismo astratto di Jackson Pollock per la pittura.

Nell’America degli anni Cinquanta, ciò che stava accadendo tra i giovani artisti era che la coscienza diventava la protagonista dell’arte. Attraverso i fatti, i luoghi, i personaggi si rappresentava direttamente la condizione della mente, la vita interiore. Dall’esterno del sé si raccontava l’interiorità, senza mediazioni, senza censure. Kerouac voleva raccontare l’America dei “battuti e beati”, l’America dei giovani emarginati del secondo dopoguerra. Per fare questo, lavorando duro, inventò la prosa spontanea, che teorizzò nei saggi contenuti in Scrivere Bop, e in una miriade di articoli pubblicati sulle riviste dell’epoca. La prosa spontanea è il racconto della vita in diretta. E’ l’unità di mente e corpo mentre agiscono. Fu una grande scoperta. L’essere umano tornava a quell’unità originaria e innata di corpo e spirito che la società tiene separati.

Dopo aver scritto La città e la metropoli (il solo che gli fu pubblicato poco dopo averlo scritto, nel 1950), Jack si accorse che lo stile tradizionale che aveva appreso da Tom Wolfe e William Saroyan non gli bastava più. Ha dovuto creare un romanzo di 1000 pagine per rendersene conto. Qualcosa macinava, e maturava in quelle sedute alla macchina da scrivere che duravano tutta la notte. C’era un sotto testo che stava sbocciando, che avrebbe dato luogo alla tecnica dell’improvvisazione nella scrittura.

Oltre che dall’insoddisfazione rispetto al suo modo originario di scrivere, la tecnica dell’improvvisazione nasce da altre sollecitazioni. Prima di tutto dal Bop, suonato dai musicisti che Kerouac andava ad ascoltare nei locali di New York come il Minton’s: Dizzy Gillespie, Charley Parker, Thelonious Monk, Lionel Hampton. Jack li ascoltava e pensava: posso scrivere come loro? Posso trasferire sulla pagina quell’energia, quella fatica, quella bellezza? Presto divenne per Jack un’ossessione. E poi c’era la lettera di 40 pagine che il suo amico Neal Cassady gli aveva scritto. Quel testo di migliaia di parole era un grande, unico paragrafo che parlava della strada, delle sale da biliardo, delle camere d’albergo e delle prigioni di Denver. Ed è allo stile e al contenuto di quella lettera che si ispirano le storie raccontate in On the road. Senza quella lettera e senza i viaggi per l’America fatti a fianco di quel grande affabulatore che era Neal, Kerouac non sarebbe diventato lo scrittore che conosciamo. Il cowboy furiosamente entusiasta delle strade d’America divenne non solo un amico ma soprattutto un mito idealizzato, musa ispiratrice di una parte consistente della sua produzione letteraria.

In Kerouac non c’è trama, cronologia, filo logico. La scrittura ha una funzione completamente diversa, è l’estremo tentativo di “confessare tutto a tutti”. Questa fu la sua grande presunzione.

Il suo nuovo modo di scrivere fu fatto proprio da Allen Ginsberg, che lo trasferì nella poesia. Intorno a lui e a Kerouac si formò una cerchia di amici, come Burroughs e Corso, il cui interesse principale era scrivere, fare bisboccia, viaggiare, frequentare donne e locali. Questo fu la beat generation. Un gruppo di amici che insieme cercarono e trovarono un nuovo modo di esprimersi. E questo è un punto importante, che ne fa un aspetto attualissimo: sperimentare, cercare la scrittura dove apparentemente non è, nelle strade, nelle persone che vediamo per caso, quel “fuori” di noi che finisce per essere “dentro”.

Oggi io leggo romanzi piacevoli, anche belle poesie, ma se voglio davvero tornare alla parte più profonda di me stessa devo rileggere ancora e ancora Sulla stradaVisione di Cody, leggere le astruse poesie di Kerouac, anche quelle brutte, perché sfogliando i suoi Schizzi e i suoi haiku, la perla la trovo sempre. Non so cosa sia rimasto in America di quel movimento letterario definito beat generation. L’ultimo poeta beat che ho avuto l’onore di conoscere è James Koller, morto nel 2014. In Italia con la morte della Pivano dei beat e di quello che hanno rappresentato che io sappia non è rimasto niente.

(Dianella Bardelli scrive romanzi e poesie; ha insegnato lettere e guidato corsi di scrittura creativa. Appassionata di letteratura beat e hippy, soprattutto di Kerouac, Ginsberg e della poetessa americana Lenore Kandel. Ha pubblicato i romanzi Il bardo psichedelico di Neal, ispirato alla figura di Neal Cassidy e Verso Kathmandu alla ricerca della felicità. E’ appena stato pubblicato presso Parallelo 45 Edizioni, il suo romanzo 1968, sulla Bologna di quel periodo.)

da qui

 

Kerouac sconosciuto – Beatrice Cassina

 

Tempo fa, è uscito negli Stati Uniti un libro, una raccolta di scritti mai pubblicati prima, a firma di Jack Kerouac. Ma pochissimi giornali – se non nessuno – confermano dalla casa editrice, se n’è occupato con pertinenza. Lo abbiamo letto, e oggi lo presentiamo sulle pagine di Alias.
«Sono franco canadese, nato in New England. Quando sono arrabbiato, spesso impreco in francese. Quando sogno, spesso sogno in francese. Quando piango, piango sempre in francese, e dico ’non mi piace, non mi piace’. È la mia vita nel mondo che non voglio. Ma c’è. Sono ancora curioso, ho ancora fame, la mia salute è eccellente, amo la mia donna, non ho paura di andare lontano, non ho neanche paura di lavorare duro, fino a che non ho bisogno di lavorare sessanta ore la settimana. Non mi va di alzarmi la mattina ma quando devo, mi alzo. Posso lavorare 40 ore la settimana se il lavoro mi piace. Se non mi piace, lo lascio. La mia famiglia e la mia donna mi hanno sempre aiutato, senza di loro, penso sarei morto nella neve in qualche posto. Un giorno sarò un uomo come gli altri uomini. Oggi sono un bambino e lo so, e passo il tempo a pensare. Dovrei essere uno scrittore. Ho pubblicato un libro, ho ricevuto 1,900 dollari per quattro anni di lavoro su quel libro. Prima ho passato dieci anni a scrivere altre cose che non sono mai stato capace di vendere. È possibile che un giorno, una volta che sarò passato dall’altra parte del buio per sognare eternamente, queste cose, storie, scene, appunti, questa dozzina di romanzi impossibili, finiti a metà, saranno pubblicati e qualcuno raccoglierà i soldi che sarebbe dovuto arrivare a me. Ma questo succederà se sarò un grande scrittore prima di morire».

ERA IL 1951

Quando il ventottenne Jack Kerouac scrisse queste parole nel febbraio del 1951, la sua fama non era ancora nata e, nonostante avesse già pubblicato quel libro di cui parla, La città e la Metropoli nel 1950 (The Town and the City), che non aveva incontrato un grande interesse nel pubblico di quegli anni, proprio quel 1951 avrebbe rappresentato un periodo decisivo e formativo per la sua scrittura. Ecco, questo e molti altri sono gli scritti, spesso incompiuti e alcuni tradotti dal francese, contenuti nel libro The Unknown Kerouac – Rare, Unpublished & Newly translated Writings (Kerouac Sconosciuto – Scritti Rari, Mai Pubblicati & Tradotti di Recente), uscito per The Library of America (curatore Todd Tietchen, traduttore Jean-Christophe Cloutier, pp.470, dollari 35).
Già, lo scrittore americano forse tra i più amati al mondo, era nato Jean-Louis Lebris de Kérouac da genitori provenienti dal Quebec, ed era cresciuto nella comunità franco canadese di Lowell in Massachusetts, parlando principalmente joual, un dialetto franco canadese, fino all’età di sei anni, quando sarebbe poi entrato a scuola. Le pagine di The Night is My Woman (La Nuit est ma femme), racconto incompiuto e scritto in francese nel 1950, e da cui queste parole sono tratte, risalgono al periodo appena precedente a quello in cui comincerà a lavorare a Sulla Strada. Sono parole che contengono moltissimi riferimenti autobiografici, ai propri interrogativi, alla propria famiglia, alla madre, al padre, e già alla sua personale e infinita ricerca stilistica.

IL DIARIO

Journal 1951, scritto tra fine agosto e novembre di quell’anno (’51), mentre stava all’ospedale dei veterani nel Bronx per una flebite alle gambe, rappresenta una continuazione sia del diario, sia di quella ricerca di un suo personalissimo stile. Proprio qui aveva dichiarato che voleva che diventasse una regola, quella di «scrivere, volente o nolente, pezzi che non si curino in particolare della grammatica, come un uomo inebetito scrive il sogno da cui si è appena svegliato». Prima di completare Sulla Strada, avrebbe anche lavorato al racconto Old Bull in the Bowery, scritto inizialmente in francese con il titolo Sur le Chemin, e poi tradotto in parte da Kerouac stesso e, ancora, in appendice, troviamo I Wish I Were You, racconto scritto con William Burroughs nel 1945. Ne parlerà alla sorella Caroline, ‘Nin’, come di «un ritratto di una parte persa della nostra generazione, difficile, onesta, tremendamente reale».

UN PUZZLE

Certo, forse sono scritti, pezzi di un puzzle non sempre apprezzato da tutti, e di cui non si riuscirà mai realmente a vedere un’immagine nitida e completa, ma sono sicuramente le tante voci di un’esistenza che, a 48 anni dalla scomparsa, oggi possiamo finalmente conoscere un po’ meglio. Nell’intervista Doing Literary Work: An Interview with Jack Kerouac, (Fare Lavoro Letterario: Un’intervista con Jack Kerouac), rilasciata nel giugno del 1963 a John Clellon Holmes, uno degli amici più leali e onesti conosciuto anni prima, Kerouac parlerà in modo sincero della sua vita in quel momento. Soprattutto non nasconderà la propria delusione nei confronti della critica che, nonostante Sulla Strada fosse stato pubblicato ormai da sei anni, ancora non smetteva di interpretare male e non capire il suo lavoro.

LO STILE

L’intero brano rappresenta non solo uno scambio tra un giornalista e uno scrittore, ma soprattutto tra due amici che si rispettano. Kerouac spiega qui che, stando all’ospedale nel Bronx, «alla fine avevo avuto tempo di pensare e manifestare i miei desideri più nascosti sullo scrivere: di dire esattamente quello che succedeva e di non preoccuparmi dello stile, ma solo dell’interezza del dettaglio, e al diavolo quello che pensano gli altri». Aveva risposto (l’intervista fu realizzata attraverso uno scambio epistolare) alle domande dell’amico sulla sua vita, sull’evoluzione del suo stile, sui suoi interessi e le sue preoccupazioni, sempre in un modo confidenziale che raramente fu raggiunto in altre interviste. Ma un sentimento di forte ambiguità si sarebbe continuato a presentare in questi e altri scritti, forse per tutta la vita e, purtroppo e senza forse, per un’insicurezza al limite della depressione. Nato in un ambiente in cui bello sentire di avere tradizioni che risalivano alla cultura francese, come ricorda anche il traduttore Jean-Christophe Cloutier, «quando crebbe, cominciò a provare vergogna per il proprio retaggio di lingua francese». Già, il Kerouac che conosciamo come il coraggioso, libero e avventuroso viaggiatore, aveva scritto in alcuni appunti «devi vivere in inglese», «è impossibile vivere in francese» e, rispetto al suo duplice idioma, nelle pagine di The Night is My Woman scriveva: «quando parlavo francese ero un uomo totalmente differente». E Coultier ci dice che, «se si leggono i primi lavori, lì troviamo davvero quell’uomo».
Sembra proprio volesse essere, o forse anche solo sembrare, noncurante e dimostrare a tutti di essere un vero americano. Già nelle pagine iniziali del libro, nello scritto del 1946 America in World History (L’America nella Storia Mondiale), scritto a soli ventiquattro anni, esprimeva l’orgoglio, forse anche un po’ troppo trionfante, di un’America idealizzata nell’epoca immediatamente post bellica. Un’America virtuosa e vincente, di cui elencava i meriti, e tanto migliore della vecchia Europa, che non pareva cercare il nuovo.

MAESTRI

Gli scritti della prima parte del libro e del periodo compreso tra il 1946 e il 1950, rivelano già un Jack Kerouac sempre più interessato a scrittori e ideali mentori a cui ispirarsi, come Shakespeare, Joice, Rimbaud, Spencer, e anche i Surrealisti. Quello stile immediato, quel flusso continuo di pensieri, dubbi, domande e parole, quel modo di scrivere che fa Kerouac proprio e unicamente Kerouac, resta una specie di dichiarazione, e forse anche un segno di come si sarebbe sviluppato il personaggio e la leggenda del suo alter ego Jack Duluoz, con quello stile di ‘prosa spontanea’ che aveva sperimentato dagli anni 50 e introdotto sempre più nei suoi libri, comeVision of Cody (interamente pubblicato solo nel 1972), o Big Sur (1962), rivoluzionario nello stile fluido e nelle libere associazioni.
Beat Spotlight, cominciato poco tempo prima della morte nel 1969, racconta come aveva vissuto, nel 1957, la fama e il repentino successo di Sulla Strada. «Era il 3 settembre quando fui invaso da alcuni reporter che dicevano di arrivare da Time Magazine, che il mio libro era stato pubblicato a New York e che volevano farmi qualche foto. Ma ero appena tornato da un inutile viaggio in bus a Città del Messico e, non so come, mi ero ammalato così che facevo fatica a stare in piedi e non riuscivo a sopportare che il mio corpo fosse così gonfio. Era terribile. In tutta la serietà di quel momento, improvvisamente arrivarono due sfrontati giornalisti americani che mi chiesero se la ragione per cui sembravo tanto malato, non fosse perché ero ubriaco o drogato, o naturalmente depravato. Mi scattarono una foto seduto fiaccamente su una sedia a dondolo . ‘Cos’ha contro le responsabilità?’ e avanti così fino a che non diventai davvero confuso, chiedendomi cosa volessero dire. . Non fu fino a che tornai a New York, che cominciai a capire cosa stava davvero succedendo, con tutte queste stranezze di farmi un sacco di domande su cose a cui non avevo mai pensato, come se avessi potuto capire l’America solo con qualche autostop e qualche avventura di notte lungo la ferrovia…». Quello che Jack Kerouac aveva capito però, da sempre, da subito, era semplicemente di essere uno scrittore.

da qui

 

Jack Kerouac: 50 anni fa moriva l’autore di “Sulla Strada”, padre della Beat Generation – Federica D’Alfonso

 

Il nome di Jack Kerouac è indissolubilmente legato a tutto ciò che la Beat Generation, non soltanto in termini strettamente letterari, ha rappresentato. Ma fu lui stesso, ad un certo punto della vita, a rifiutare quell’etichetta: “sono uno strano solitario pazzo mitico”, disse di sé qualche anno prima della morte avvenuta esattamente cinquant’anni fa, il 21 ottobre del 1969.

“Dobbiamo andare e non smettere mai di andare finché non ci arriviamo”. “Dove stiamo andando, amico?”, “Non lo so ma dobbiamo andare”. Uno scambio di battute che, da solo, racchiude tutto il senso di un’epoca: quella che fu affamata di libertà, noncurante delle convenzioni sociali e protesa verso sempre nuove, e a volte eccessive, sperimentazioni. L’epoca della quale Jack Kerouac, scomparso il 21 ottobre del 1969, fu iniziatore, cantore e critico. Un’epoca, quella beat, che a distanza di cinquant’anni dalla sua morte è ancora indissolubilmente legata al suo nome.

Dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo “Vanità di Duluoz”, nel 1968, lo scrittore era già estremamente debilitato dall’abuso di alcol e droghe. Nel febbraio dello stesso anno il suo punto di riferimento principale venne a mancare: la morte di Neil Cassidy, amico e fonte d’ispirazione per il romanzo “Sulla Strada”, segnò il punto di non ritorno. Qualche mese dopo la lunga serie di risse, sbornie frequenti e trip misero definitivamente alla prova il suo fisico, che non resse: il 20 ottobre il suo fegato cede, rendendo vani tutti i tentativi di trasfusione e di rianimazione. Jack Kerouac muore alle 5:15 del mattino del 21 ottobre, all’età di quarantasette anni.

Perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano… bruciano… bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno ooohh…

Anche se universalmente riconosciuto come il padre della Beat Generation, Jack Kerouac ebbe sempre un’idea molto particolare, critica, nei confronti di tutto ciò che l’aggettivo “beat” ha poi mosso negli anni: fu lui il primo ad utilizzarlo, ad avere la visione che da lì ad un decennio porterà quella giovane generazione a definirsi tale o comunque a riconoscersi nelle ispirazioni letterarie di altri scrittori come Burroughs e Ginsberg (che Kerouac aveva conosciuto a metà degli anni Quaranta), e fu sempre lui a scriverne il manifesto.

Perché quando uscì, nel 1957, “Sulla Strada” apparve a tutti come la sintesi perfetta di istanze culturali, spirituali e sociali che già da tempo si muovevano nel cuore degli Stati Uniti d’America. E bastò qualche anno affinché quella sintesi divenisse punto di partenza anche di altro: dei movimenti giovanili, della controcultura, e di quella carica politica che pian piano attecchì su chi aveva letto i libri degli scrittori “beat”.

Fra loro, Kerouac fu senz’altro il più “autentico”, stando anche al suo personale punto di vista, se non altro perché fu dalla sua mente che uscì per la prima volta questa parola che doveva richiamare, per lui, quella spinta religiosa non convenzionale che lo aveva portato a pensare alla sua scrittura e alla vita stessa in termini di “beatitudine”. Kerouac stesso racconterà:

Fu da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato.

Beatitudine che passa, nei suoi romanzi, attraverso una prosa spontanea contaminata dal ritmo di jazz e bebop, ininterrotta, che farà scuola per il decennio successivo. Alla fine del quale però, proprio Kerouac rifiuterà l’etichetta, ormai divenuta tale, di scrittore “beat”: a questa, in più occasioni, lo scrittore sostituirà la definizione di “strano solitario pazzo mistico cattolico”.

da qui

 

 

 

 

 

 

Redazione
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Un commento

  • Nell’articolo Kerouac sconosciuto di Beatrice Cassina si parla del libro Kerouac Sconosciuto – Scritti Rari, Mai Pubblicati & Tradotti di Recente), uscito per The Library of America (curatore Todd Tietchen, traduttore Jean-Christophe Cloutier, pp.470, dollari 35). La recensione è molto interessante e ci dice cose scritte da Kerouac che non avevamo ancora letto. Spero che sia tradotto presto, è la Mondadori che nel passato ha tradotto i saggi di Kerouac, soprattutto il bellissimo Un mondo battuto dal vento, di cui si parla nella rivista on-line Cronache Letterarie.

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