Ricordando Maria Vingiani

Nell’anniversario della nascita (28 febbraio 1921) pubblichiamo un’intervista – del 2012 – del teologo Brunetto Salvarani

Maria Vingiani (Castellammare di Stabia, 28 febbraio 1921 – Mestre, 17 gennaio 2020) è stata una politica, scrittrice e attivista per l’ecumenismo.

Se non ci conoscessimo da un bel numero di anni, ci sarebbe da rimanere emozionati. Maria mi accoglie infatti nel suo soggiorno, semplice ma denso di memorie pesanti: ritratti e dediche personali di Giovanni XXIII, del cardinal Bea, di Jules Isaac. Ma anche premi e riconoscimenti di ogni sorta: in verità, questi ultimi, per nulla esibiti, quasi appesi con pudore. Il tutto, compreso l’arredamento non certo ultramoderno, crea un effetto di sobrietà, ordine e rigore che rappresenta simbolicamente una metà di Maria Vingiani, quella nordica della giovinezza; e che fa brillantemente a pugni con l’altra metà, quella meridionale, partenopea, della nascita, testimoniata da una prorompente carica umana, dall’argine impossibile a ogni suo racconto di vita, dal paradosso evidente di questa donna solo all’apparenza minuta, fragile eppure, in realtà, forte e gigantesca negli ideali che l’hanno mossa e che la muovono ancora. Il fatto è che dietro gli eventi epocali e i loro protagonisti ci sono persone che per anni lavorano nell’ombra, tessendo relazioni e costruendo iniziative che all’improvviso e, talvolta per caso, entrano nella grande storia. Maria è una di queste persone, una laica cattolica che da oltre cinquant’anni dedica le sue energie e la sua intelligenza alla causa del dialogo tra cristiani ed ebrei e delle relazioni ecumeniche. Compiuti i novant’anni, portati con eleganza e sorprendente leggerezza, si è ritirata nella sua
Venezia, dove è cresciuta e tutto è cominciato negli anni difficili del Dopoguerra, chiudendo così un cerchio che nel tempo del concilio l’ha portata a Roma. Lì si è fermata, sulla scorta di un invito esplicito di Giovanni XXIII, fondando e presiedendo il primo e principale laboratorio ecumenico italiano, il Segretariato per le attività ecumeniche (SAE).

Una vocazione che viene da lontano

«Tra le Chiese non c’era conflitto ma piuttosto indifferenza e reciproca ignoranza – racconta. – Allora giovanissima, a Venezia vivevo un itinerario di fede nella mia parrocchia cattolica, ma m’incuriosivano le altre chiese che vedevo camminando per strada: quella valdese, luterana, metodista… Un giorno, avevo undici o dodici anni, decisi di entrare in una di queste in Campo Santi Apostoli. Mentre lo facevo mi sentii subito colpevole; qualcuno avrebbe potuto vedermi… Ma entrai lo stesso, e fui subito attratta dai libri poggiati sopra di un tavolo. Mi avvicinai autogiustificandomi, dicendomi che in fin dei conti stavo semplicemente guardando dei libri».

In ogni caso si trattò di un gesto azzardato, perché in quegli anni chi entrava in una chiesa protestante rischiava la scomunica; Maria, però, cresciuta in un ambiente formalmente cattolico ma che stava maturando una propria personale spiritualità, intendeva comprendere perché Chiese che si dicevano tutte cristiane fossero in realtà divise e contrapposte le une alle altre.

«Volevo capire e per capire dovevo studiare. Crescendo e arrivando alla laurea, pur tra mille difficoltà anche familiari, decisi di approfondire proprio il tema delle relazioni tra le chiese, non trovando praticamente nulla: solo qualche studio apologetico di parte cattolica. La mia vocazione ecumenica nacque da lì, dal fatto che non potevo accettare di buon grado le barriere esistenti tra chiese unite dall’unico vangelo, dall’unico Cristo, dall’unica salvezza. Quelle barriere per me erano una contraddizione inaccettabile!». Impegnatasi in una tesi sui fondamenti della separazione tra i cristiani, quella studentessa voleva penetrare i segreti della vita e della spiritualità di una Chiesa protestante: per far questo si ripropose di partecipare di persona a un culto evangelico, assistendo alla celebrazione della Santa cena. L’ostacolo del rischio di una scomunica imponeva una via impegnativa: un colloquio e la richiesta di deroga addirittura al vescovo, il patriarca di Venezia, allora il cardinale Giovanni Piazza. «Ascoltata la richiesta mi fece inginocchiare – ricorda Maria – e ponendomi le mani sulla testa, con un atteggiamento molto pastorale mi disse: “Se ti vuoi perdere, perditi”. Non ho mai pensato con risentimento a quelle parole, dette in piena coscienza e con tenerezza. Ero consapevole che la mia intenzione gli procurava sofferenza». E così, una domenica mattina in cui si celebrava la Santa Cena, fa la sua visita a una chiesa protestante, scegliendo quella valdese del sestiere Castello: «Mi fermai sulla soglia, e quasi attaccandomi alla porta per frenare il mio slancio a prendere parte a quel gesto eucaristico. Fu un’esperienza assai intensa. Anni dopo mi ritrovai per caso sulla tomba del patriarca Piazza e mi commosse la scritta incisa sulla pietra, Ut omnes unum sint, la citazione chiave e la parola d’ordine del movimento ecumenico».
Il laboratorio veneziano

Con la laurea arriva anche l’insegnamento, e dopo qualche anno l’impegno politico nella Democrazia Cristiana, sino all’elezione in Consiglio comunale, poco più che trentenne, ottenendo un numero maggiore di voti rispetto allo stesso candidato sindaco. Da lì a un assessorato – e non un assessorato qualsiasi in una città quale il capoluogo veneto, alle Belle Arti – il passo è breve. Ma la svolta autentica avviene nel 1953 con l’arrivo del nuovo patriarca, monsignor Angelo Giuseppe Roncalli. «Veniva dalla Francia dove si respiravano le idee di Maritain e dei suoi discepoli. Era un uomo libero, capace di gesti inusuali come l’invio di un saluto al Congresso socialista che nel ’57 si svolgeva proprio in Laguna».

Quando Roncalli giunge in gondola a Venezia, Maria è dunque responsabile del patrimonio storico-artistico cittadino, formalmente in quota democristiana ma di fatto sostenuta e stimata da un ampio schieramento politicamente trasversale. I primi incontri con il futuro pontefice sono quindi tecnici, legati alla salvaguardia e alla promozione dei beni artistici locali, rappresentati in gran parte da chiese dedicate al culto cattolico: «Fu proprio per discutere problemi che avevano implicazioni anche finanziarie che incontravo spesso Roncalli, il quale, prima di entrare in medias res, amava divagare, parlando ad esempio di letteratura». Restauro dopo restauro si consolida così un rapporto di reciproca stima, che le consente di condividere con il presule le sue idee sull’ecumenismo, questa volta trovando orecchie attente e decisamente partecipi.

«Fu possibile organizzare un incontro fra il patriarca e i rappresentanti delle varie chiese veneziane» rammenta, citando un fatto decisamente anomalo e persino problematico per quella stagione. In quell’occasione lui domandò su quale base i vari pastori formassero le loro comunità. La risposta dei protestanti fu unanime: “sulla Scritttura, eminenza, sulla Parola di Dio”. Sarà una semplice coincidenza, ma la lettera pastorale che Roncalli scrisse quell’anno, il 1956, s’intitolerà La Sacra Scrittura e San Lorenzo Giustiniani; anticipava un tema portante del concilio: la riscoperta della Bibbia e il rilancio degli studi esegetici. «Noi cattolici non avevamo mai sentito parlare della Bibbia in quel modo, allora la Bibbia non c’era, nelle nostre case».

In breve, dalla stima si passa alla fiducia e all’affidamento di delicate missioni internazionali. «Dovevamo rilanciare la Biennale e m’imposi di coinvolgere anche i Paesi al di là della cortina di ferro. Per questo viaggiavo molto all’est – a Cracovia partecipai alla messa di Karol Wojtyla, sei mesi prima che fosse eletto vescovo ausiliare di quella città, in una chiesa gremita all’inverosimile – e ogni volta che viaggiavo oltrecortina il patriarca mi affidava un messaggio o un plico per i vescovi dei Paesi che visitavo. Talvolta ho dovuto eludere i ferrei controlli degli
apparati di sicurezza per consegnare ciò che mi era stato affidato».
 
Sin qui quella di Maria è una bella e avvincente storia personale, destinata però a intrecciarsi con la grande Storia il 28 ottobre 1958, quando il Conclave elegge al soglio pontificio proprio il
suo patriarca. «Lo accompagnai alla stazione quando partì per il conclave e, salutandolo, mi chiese di cantargli una canzone. Ho origini napoletane e mi venne spontaneo intonare O sole mio, una canzone di luce, di gioia…». 
Quell’inattesa elezione, se da una parte privava il
laboratorio veneziano del suo artefice principale, dall’altra apriva uno scenario nuovo e imprevedibile a Roma.
Missione impossibile?

Dove Maria, prontamente, si trasferisce: «L’idea del Concilio mi afferrò completamente, tanto che – vinte le ovvie resistenze familiari e fatta domanda per spostare la mia cattedra d’insegnamento nel Lazio – abbandonai la carriera politica e mi recai a Roma. Il Concilio valeva questa scommessa!». Qui, mentre riflette sullo scandalo della divisione e della contrapposizione fra le Chiese cristiane, prende coscienza di un’altra dolorosa e tragica frattura, quella tra Chiesa e Sinagoga, fra cristiani ed ebrei. Mentore di tale riflessione è un importante intellettuale ebreo francese, Jules Isaac, autore del celebre volume Gesù e Israele, grande opera storico-teologica che denunciava le responsabilità dell’insegnamento cristiano sull’ebraismo, che chiamava l’insegnamento del disprezzo. «Lo conobbi grazie alla Biennale veneziana, dove lui tornava ogni anno in omaggio alla memoria della moglie, pittrice, morta nel lager di Auschwitz insieme alla figlia e al genero. La sua era una vera e propria missione di vita: la Chiesa cattolica doveva cambiare il suo atteggiamento e soprattutto il suo insegnamento sugli ebrei». Sapendo della relazione di stima che legava Vingiani al nuovo papa, Isaac intravide la possibilità di un vero incontro con il pontefice, diverso da quello fuggevole e assolutamente inconcludente avuto a Castelgandolfo il 16 ottobre 1949. «Isaac venne da me, ormai a Roma, convinto che l’incontro con il papa fosse ormai a portata di mano. Roncalli, del resto, aveva già annunciato il Concilio e Isaac sperava che la revisione dell’insegnamento cattolico sull’ebraismo potesse entrare nell’agenda dei lavori dei padri conciliari». In realtà, anche il semplice incontro fra il vecchio professore ebreo e il vescovo di Roma incontrerà ostacoli burocratici, protocollari e politici insormontabili. Isaac l’aveva intuito e, assumendo come base romana la sua amica Maria, ricorse alla mediazione dell’ambasciata di Francia che decise di intervenire a sostegno di uno dei suoi pensatori più prestigiosi.

La formula adottata per passare tra le maglie protocollari senza destare troppi sospetti sarà quella di una semplice udienza, senza anticiparne contenuti e finalità. Il sospirato appuntamento ha luogo il 13 giugno 1960: «Avevo tanto insistito
che portasse con sé un dossier da lasciare al papa – riferisce Vingiani – e proprio quello fu l’errore. Il testo, infatti, non fu preso dal papa o dal suo segretario, ma arrivò negli uffici della Segreteria di Stato, proprio dove non doveva andare a finire». Forti infatti erano i sospetti che, come successo altre volte, s’insabbiasse tutto.
 
Missione fallita, dunque? «No, quei pochi minuti lasciarono una traccia profonda nell’animo di Roncalli, vedendo di fronte a sé un uomo ormai anziano e provato dalla vita, che in quella missione spendeva le sue ultime energie. Già qualche mese dopo fu chiaro che il tema di Israele sarebbe arrivato ai padri conciliari: vi è una nota del cardinal Bea, presidente del Segretariato pontificio per la promozione dell’unità dei cristiani, che attesta che la questione dovrà essere posta all’attenzione dell’imminente assise».

Benché non previsto, il tema irruppe in effetti nelle fasi preliminari del Concilio: quell’udienza nello studio papale, inosservata e sottovalutata, aveva così posto le fondamenta della futura Dichiarazione Nostra aetate, un testo destinato a segnare una delle svolte conciliari più clamorose. Il movimento ecumenico, le amicizie ebraico-cristiane, le esperienze di dialogo inter-religioso hanno avuto origine dall’intreccio di queste vicende, piccole e grandi, di cui Maria è stata protagonista e testimone. «Di fronte abbiamo ancora molta strada da percorrere – conclude. – La diversità è un dono di grazia e di vita, e non cancella i doni che il Signore offre a ciascuno. Semmai ci invita a metterli in comune. Ce la potremo fare, perché, in ogni caso, non siamo più come prima: il mondo è cambiato, la Chiesa è cambiata…e definitivamente!».

Maria Vingiani è morta (un anno fa) il 17 gennaio: in una data molto significativa, come ricordava Brunetto Salvarani in una nota che potete leggere di seguito.

Un regista misterioso, ma dalla vista lunga, ha scelto per il suo dies natalis la data più giusta: il 17 gennaio scorso, tradizionale Giornata del dialogo con gli ebrei. Quella che proprio lei aveva fortemente voluto trent’anni fa, a un cuor solo con figure del calibro del vescovo di Livorno Alberto Ablondi, il rabbino capo di Roma Elio Toaff e Tullia Zevi, presidentessa dell’Unione delle comunità ebraiche. La morte di Maria Vingiani, evento tutt’altro che inatteso per una donna che stava veleggiando verso il secolo di età (era nata il 28 febbraio 1921) ha il sapore di un punto e a capo per l’intero mondo del dialogo, ecumenico e interreligioso, chiamato a caricarsi sulle spalle l’eredità esigente di una matriarca appassionata come nessun altro in quel campo. Un campo che prese ad arare quando non ne esistevano neppure i presupposti: educandosi a pensare ecumenicamente mentre persino la parola ecumenismo era aborrita nel linguaggio cattolico; studiando l’ecclesiologia luterana per la tesi; dedicandosi poi anima e corpo alla politica, fino a diventare, poco più che ragazza, assessore alle Belle Arti in una giunta-laboratorio di una città unica, la Venezia del tempo del patriarca Roncalli. Che, eletto inaspettatamente vescovo di Roma (cioè papa) fu il suo sponsor nella scelta esistenziale di spostarsi nella capitale, lasciando carriera e affetti, in vista di quel Concilio di cui Maria divenne protagonista nascosta ma costante: favorendo il fatidico incontro fra Giovanni XXIII e lo storico ebreo francese Jules Isaac, autore di Gesù e Israele (1948), destinato ad avviare l’iter verso l’epocale dichiarazione Nostra aetate, ma anche dando vita a un’associazione – il Segretariato Attività Ecumeniche – che il Vaticano II prese per mano per decenni, fino a oggi, traducendolo in centinaia di iniziative nelle diocesi e nelle parrocchie. Chi aveva la fortuna di ascoltare il suo appassionato racconto di quella stagione pionieristica ed effervescente, restava di norma a bocca aperta per l’audacia creativa di quella signora minuta e battagliera che letteralmente inventò il movimento ecumenico nel nostro Paese, abbattendo barriere e sfidando inerzie e incrostazioni secolari.

 

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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