articoli di Enrico Campofreda, Matteo Saudino, Antonio Maria Mira, Olivier Turquet, Andrea Paco Mariani, Marco Omizzolo
L’Italia dei braccianti dimezzati – Enrico Campofreda
Un bracciante che perde un braccio, cos’è? Una certa Italia, mai benevola col lavoro delle mani, lo trattava da un uomo dimezzato nell’efficienza produttiva e lo compensava con mezza paga. Non importava se il malcapitato s’affannasse a lavorare sodo dimenando velocemente l’altro arto, il salario era dimezzato. Accadeva nel Novecento giolittiano e in quello della rivoluzione fascista, che però ai mutilati d’ogni guerra, ancor più se coloniale, concedeva compensazioni. L’Italia della ricostruzione e del boom economico accordava qualcosa agli incidentati delle braccia da lavoro. Allora si parlava di progresso e di tutele. Alcune sono arrivate, ma tanti diritti sono stati smarriti o sono rimasti sogni. Nell’Italia digitalizzata le difese sono scemate sebbene, o non a caso, si registrino un anno via l’altro mille e passa caduti di pacifico lavoro. “Morti bianche” le chiamavano con un ossimoro pazzesco perché non c’è luce né chiarezza in tanti di questi assassini legalizzati. L’altro alibi è la fatalità o peggio la disattenzione per la quale il boomerang della menomazione o del decesso s’addossa a chi ne è colpito. La classe che frequenta campagne e cantieri e le fabbriche che restano e i tanti magazzini dove s’accumula la robbba da riversare negli scaffali delle vendite – ingrosso o dettaglio non fa differenza – la classe operaia è l’unica a guardare in faccia la morte o la lesione di corpi martoriati da impalcature, trivelle, presse, muletti su cui si lavora in una sicurezza resa insicura da inosservanze, assenza di controlli, ritmi, subappalti, caporalato. Fino a giungere a Borgo Santa Maria nel Pontino, vicino alle case che sanno di patria: Borgo Piave, Bainsizza, Podgora. Campagne con una storia densa di contraddizioni che qui non trattiamo, e da tempo al centro di cronache di super sfruttamento bracciantile, fatto da sikh ultimamente ribelli a padroncini e moderni campieri. Lì un bracciante indiano ha avuto l’arto tranciato da una falciatrice meccanica ed è stato “soccorso” in questo modo: infagottato e trasportato su un pulmino verso l’abituale alloggio. E lasciato lì. Però i padroni benevoli non gli hanno fatto mancare il braccio, gettato accanto al corpo martoriato. I contadini del Punjab rischiano trattamenti simili? Può darsi. Ma intanto questo accade da noi e vedremo cosa faranno le festaiole istituzioni da G7.
Nella giornata di mercoledi 19 giugno è morto Satnam Singh il bracciante indiano mutilato e abbandonato in un’azienda agricola di Latina
Satnam Singh era arrivato in Italia tre anni fa dal Punjab, regione del nord dell’India. Come 12 mila suoi connazionali di religione sikh era venuto a lavorare nell’agro pontino, probabilmente indebitandosi con un’organizzazione che gestisce la tratta di migranti. Si era stabilito con la moglie, anche lei indiana, a Borgo Santa Maria, una frazione di Latina ed era impiegato in un’azienda agricola della zona, probabilmente senza un contratto regolare e anche senza permesso di soggiorno.
Per questo lunedi mattina, quando è stato schiacciato da un macchinario avvolgi-plastica a rullo trainato da un trattore che gli ha tranciato il braccio destro, schiacciato entrambe le gambe e provocato un grave trauma cranico, i datori di lavoro invece di chiamare i soccorsi lo hanno caricato su un pulmino, mettendo il braccio amputato su una cassetta degli ortaggi, e lo hanno scaricato davanti a casa sua. Sul posto sono arrivati i soccorritori del 118, chiamati dai vicini, e pure la segretaria della Flai Cgil Laura Hardeep Kaur, che aveva ricevuto delle foto dell’infortunio da un collega di lavoro di Singh con la richiesta di intervenire. I medici del pronto soccorso, vista la gravità delle condizioni, hanno chiamato un’eliambulanza che lo ha trasportato all’ospedale San Camillo di Roma, dove è stato operato d’urgenza. Ieri mattina Singh è morto a causa della gravità delle ferite e del ritardo nei soccorsi, che ha provocato una grave emorragia e un forte abbassamento della pressione arteriosa. Aveva appena 31 anni.
Sebbene sia noto a tutti che nella provincia di Latina vivono da anni migliaia di braccianti indiani di religione sikh, spesso costretti a lavorare in condizioni di grave sfruttamento e minaccia, le istituzioni, qui come in altre parti d’Italia, continuano a non intervenire, di fatto rendendosi responsabili di omicidi – perché questo è il termine da usare – come questo.
Lo sfruttamento e la morte di questo lavoratore, e ricordiamolo stiamo parlando di lavoratori e lavoratrici, è il prodotto di una legislazione criminale e razzista. Una legislazione che marginalizza o addirittura criminalizza la manodopera migrante al solo fine di renderla sfruttabile da una filiera agricola e distributiva in cui troppi guadagnano letteralmente sul sangue di chi lavora e sullo sfruttamento selvaggio dell’ambiente.
Chiedere giustizia per Singh non significa quindi soltanto auspicare che i responsabili del suo omicidio siano puniti, ma soprattutto significa lottare per cambiare la legislazione e il sistema produttivo italiano, battendosi contro chi ci racconta che i lavoratori come Singh sono il nemico mentre fa gli interessi delle peggiori oligarchie di questo paese.
Marco Omizzolo, sociologo e docente all’Universita La Sapienza di Roma e autore di un articolo pubblicato oggi dal quotidiano Domani e intitolato “Il dramma del lavoro nero. Il bracciante Singh ucciso dal cinismo e dallo sfruttamento”.Ascolta o scarica
Andrea Paco Mariani, regista del film The Harvest, che racconta le condizioni di lavoro nella comunità Sikh nell’agropontino. Ascolta o scarica
Caporalato. Tra gli indiani sikh dell’Agro Pontino. Lo sfruttamento (sotto il sole) – Antonio Maria Mira
Sottopagati, senza pause, vittime di caporali senza scrupoli. Sono le donne a pagare il prezzo più alto
Ore 14, il termometro dell’auto segna 36 gradi. Il sole è a picco ma nel campo che stiamo osservando alcuni braccianti stanno caricando cocomeri su un rimorchio trainato da un trattore. Siamo in località Fogliano, nel Comune di Latina, e i lavoratori sono indiani sikh e africani. Per loro evidentemente nessuna pausa nelle ore più calde come deciso dalla Puglia e da alcuni comuni dopo la drammatica morte di Camara Fantamadi, nelle campagne del Brindisino.
Qui nell’Agro Pontino nessuna pausa. Lo abbiamo potuto vedere nel giro nelle campagne accompagnati da Marco Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni dell’Università La Sapienza di Roma, e da anni al fianco dei braccianti per rivendicare i loro diritti. In primo luogo in questi giorni torridi il diritto alla salute. Eppure oggi tra le 13 e le 15 abbiamo visto braccianti sotto il sole e piegati in due raccogliere melanzane sempre a Foglia- no e a Borgo San Donato (Latina), zucchine a Molella, frazione di Sabaudia, e ancora cocomeri sulla Migliara 56.
Decine di immigrati al lavoro, in svariate aziende agricole. Alcune già finite sotto inchiesta per sfruttamento dei lavoratori, anche con arresti, ma dove lo sfruttamento continua, ancor di più durante pandemia e lockdown. Tanti turbanti sikh ma anche ragazzi subsahariani. Con evidenti rischi. «Pochi giorni fa a Latina un bracciante si è sentito male per il gran caldo – racconta Omizzolo –. Malgrado fosse in regola col permesso di soggiorno e col contratto, non hanno chiamato i soccorsi. Invece lo hanno costretto a tornare a casa in bicicletta da solo, 15 chilometri fino a Borgo Hermada», dove vive una grossa comunità indiana. Il nostro giro tra le campagne del Sud per raccontare lo sfruttamento al tempo del Covid-19 comincia da Sabaudia.
Sotto il palazzo comunale una lunga fila di persone attende di essere vaccinata nell’ambulatorio mobile della Asl. Tra loro molti indiani, quelli col permesso di soggiorno e la tessera sanitaria. Per gli altri, gli irregolari, è partito un programma della Asl di Latina con la collaborazione di Emergency (vedi articolo sotto). Due braccianti che si sono appena vaccinati riconoscono Omizzolo e lo salutano. Uno di loro è il primo bracciante ad aver denunciato lo sfruttamento nel 2013.
Dopo il primo sciopero dei sikh del 18 aprile 2016, organizzato proprio grazie a Omizzolo, in un anno furono più di 150 i lavoratori che presentarono denuncia. Successivamente non meno di 30-40 l’anno. Nel 2020, nel pieno del lockdown sono state appena 3 per poi risalire negli ultimi mesi. Perché lo sfruttamento non è calato. Sono aumentate le ore di lavoro, anche 14 al giorno, anche di notte per poter essere presto sui mercati e spuntare i prezzi migliori. E sono scese le paghe, dai 4,5 euro l’ora, ottenuti grazie allo sciopero, a 3 euro, meno di un terzo di quanto prevede il contratto collettivo.
Aumentano i contratti in grigio dove vengono segnate 3-4 giornate di lavoro mentre in realtà sono 28. «L’aumento delle ore è stato causato dall’aumento della richiesta dei prodotti agricoli ma anche dalla forte diminuzione dei controlli durante il lockdown» spiega ancora la nostra guida. Malgrado questo, tra gennaio 2020 e maggio 2021 nella provincia di Latina l’Inps ha accertato un’evasione contributiva di quasi 7 milioni e mezzo di euro. Lo ha comunicato lo scorso 30 giugno alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, in missione nella provincia di Latina. Un altro dato molto preoccupante, sempre riferito dal-l’Inps, riguarda le aziende agricole. Nella provincia sono più di 7mila ma appena 114 si sono iscritte alla rete del lavoro agricolo di qualità che nasce con l’intento di arginare il fenomeno del caporalato nel settore agricolo, dando vita ad una sorta di white list. Sono attualmente 4.506 le aziende italiane che hanno aderito. Troppo poche e ancor meno nell’Agro Pontino. La conferma che mentre la parte repressiva della legge anticaporalato, la 199 del 2016, sta funzionando molto bene, non è ancora attuata la parte della prevenzione.
Così l’illegalità si è aggravata in questo anno di emergenza sanitaria. Gurwinder Singh racconta: «Sono mesi che lavoro per 3,50 euro l’ora, anche se so che il mio contratto ne prevede 9 per lavorare 6 ore e mezza al giorno. E invece ne lavoro anche 14, domenica compresa. Ma non posso lamentarmi anche se il padrone non mi fornisce la mascherina che sono costretto a comprarmi. Molti italiani stanno morendo per il Covid-19 e non credo che la mia denuncia in questo periodo sarà ascoltata dal giudice o dalla polizia. Lo so che ho diritto ma ora sto in silenzio. Lo so che mi sfruttano, ma ora tanti italiani muoiono e nella mia cultura si deve dare una mano. E io ci provo».
La condizione è peggiorata ancor di più per le donne. In un’azienda di Sabaudia erano obbligate a parlare solo italiano anche tra di loro. Se parlavano in Punjabi venivano multate anche di 30 euro, quanto un giorno di lavoro… in nero. E lo sfruttamento riguarda anche le italiane. Sono, infatti, in crescita le donne che vengono dai paesi dei Lepini, l’entroterra pontino, spesso trasportate su furgoni da caporali bengalesi. E nel lockdown sono aumentati anche i pensionati ‘assoldati’ in nero per le raccolte straordinarie, 200-300 euro al mese per integrare pensioni molto basse. E sono cresciuti anche gli incidenti sul lavoro, ma vengono nascosti. Un bracciante che lavorava in una serra, dopo una caduta da quattro metri, malgrado le gravi ferite è stato portato via dai caporali e lasciato in un campo di patate a 8 chilometri di distanza. Ma ha avuto il coraggio di denunciare e ci sono indagini in corso.
Industrializzazione, caporalato, altro modello di società – Olivier Turquet
Dopo l’ultimo tragico e macabro episodio di morte sul lavoro si sono, al solito, scatenate le polemiche e le rivendicazioni sulla piaga del caporalato, con scioperi e proposte giuste che però temo non affrontino i problemi di fondo che questa organizzazione della società, così indiscutibile, inesorabilmente produce.
Così nel tentativo di analizzare l’essenza del problema ho riportato la mente a quando, studente, sono stato anche io bracciante per qualche mese alla mercé di un caporale.
Erano gli anni ’70 in Sicilia dalle parti di Canicattì, a raccogliere a raccina che cresce in modo sistematico e continuativo in un raggio di trenta chilometri dal centro del paese, in filari alti, quasi interamente dedicati all’uva da tavola Italia. Un residuo della trasformazione della Sicilia nel granaio d’Italia di mussoliniana memoria, un lucido esempio di devastazione del territorio in nome del progresso, dell’autarchia e della gloria nazionalistica.
Si stava seduti sul muretto della piazza principale verso le 6 di mattina aspettando i caporali che cercavano uperari per la giornata. Questa cosa di chiamarci operai era una cosa che lo studente del Classico non capiva perché i suoi professori gli avevano insegnato che gli operai sono quelli della fabbrica, quelli che lavorano i campi sono contadini.
La successiva esperienza mi fece capire che la parola era quella giusta: nella vigna vigeva una struttura industriale, operai semplici, operai specializzati, capireparto, padroni e padroncini che nulla avevano a che vedere con la visione comunitaria della vecchia agricoltura.
Questa esperienza e la sua comprensione mi fanno pensare che sia la struttura industriale che l’agricoltura ha intrapreso dalla fine dell’800 a oggi, contemporaneamente all’industrializzazione di tutta la società, sia il nocciolo della questione.
Il capitalismo massimizza ed efficentizza la produzione con l’obiettivo di ottenere il massimo profitto con il minimo sforzo. In questo il progresso tecnologico dà una mano ma solo il progresso sociale può garantire che le condizioni di lavoro siano migliori. E se su questo la tremenda forza dei lavoratori organizzati ha prodotto grandi avanzamenti dobbiamo però riconoscere che questa lotta è lontana da essere finita perché anche in una società sostanzialmente terziarizzata, dove gli operai sono diventati esigua minoranza, ancora sussistono tassi intollerabili di morti sul lavoro, situazioni indecenti di sfruttamento, ora basato essenzialmente sulla mano d’opera proveniente dal Sud del mondo, quel sud a cui son state derubate le materie prime, dove la cultura industriale ha prodotto le devastanti monoculture che hanno fatto a pezzi l’economia di sussistenza che esisteva precedentemente…
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.
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