Ricordando Senghor

Quattro poesie e un testo di Francesco De Poli (grazie a Remo Agnoletto per la scelta)

JOAL

Joal!

Io mi ricordo.

Mi ricordo le scimmie nell’ombra verde delle verande

le scimmie dagli occhi surreali come il chiaro di luna sulla spiaggia.

Mi ricordo i fasti del Tramonto

nel quale Koumba N’Dofène voleva far tagliare il suo mantello reale.

Mi ricordo i festini funebri quando fumava il sangue delle mandrie sgozzate

dal rumore delle liti, delle rapsodie degli stregoni.

Mi ricordo le voci pagane che ritmavano il Tantum Ergo,

e le processioni e le palme e gli archi di trionfo.

Mi ricordo la danza delle ragazze nubili

i cori della lotta – oh! la danza finale dei giovani, con il busto

piegato e slanciato, e il puro grido d’amore delle donne –

Kor Siga!

Ricordo, ricordo…

La mia testa che ritma

quella marcia stanca durante i giorni d’Europa dove talvolta

appare un jazz orfano che singhiozza singhiozza singhiozza.

MEDITERRANEO

E lo ripeto il tuo nome: Dyallo!

La tua mano e la mia mano che s’attarda; e i nostri pensieri

si cercarono nella mezzanotte delle nostre due lingue

sorelle.

Era nel Mediterraneo, ombelico delle razze chiare, blu come

mai oceano hanno visto i miei occhi

che sorrideva con i suoi milioni di labbra di luce

mentre dieci vasselli di linea, inflessibile, come bocche

sottili, bombardavano Almeria ed esplodevano

macchiando di sangue di cervello i muri neri,

come granate, di teste ardenti di fanciulli.

Noi parlavamo dell’Africa.

Un vento tiepido ci portava il suo profumo più caldo di

una donna nera

o quello che il vento soffia da un campo di miglio quando

si urtano le spighe pesanti e che volteggia come una

polvere d’oro e bruna.

Noi parlavamo di Fouta.

Nobile era il tuo viso e i tuoi occhi d’ombra e dolci le tue

parole di uomo

nobile doveva essere la tua razza e di buona nascita la

donna di Timbo che ti cullava la sera al ritmo notturno

della terra.

E noi parlavamo del paese nero

tra i cordami, la sera, così vicini che le nostre spalle si

sposavano, fraterne l’una all’altra.

L’Africa viveva là, al di là dell’occhio profano del giorno,

sotto il suo viso nero stellato

nelle insenature agitate, sature dal rumore inquieto che

minaccia la tempesta.

E s’alzavano battiti di tamtam con scrosci di risa alate e

grida di rame in duecento lingue

zaffate di vita densa che il vento disperdeva nell’aria latina

fino al ponte di prima classe dove la giovane, liberata dalle

sottoprefetture e dalle loro strette strade

liberata dall’ultimo tempo del tango e dalle braccia del suo

ballerino

sognava, sull’orlo del mistero, foreste dagli odori virili e

spazi che ignorano i fiori…

Una grossa stella sorgeva, l’ultima, rischiarando la tua fronte

liscia quando ci lasciammo.

E io ripeto il tuo nome: Dyallo!

E tu ripeti il mio nome: Senghor!

Dakar, 1938

CAMPO 1940

Ad Abdoulaye Ly

Saccheggiato giardino dei fidanzamenti in una sera

improvvisa di tempesta

falciati i lillà bianchi, appassito il profumo dei mughetti

partite le fidanzate per le Isole della brezza e per i Fiumi

del Sud.

Un grido di disastro ha attraversato da parte a parte il paese

fresco di vini e di canzoni

come una spada di folgore nel cuore, da Levante a Ponente.

È un vasto villaggio di fango e ramaglie, un villaggio

crocifisso da due fosse di pestilenza.

Odì e fame vi fermentano nel torpore di una estate mortale.

Un grande villaggio accerchiato dalla rabbia immota del

filo spinato

un grande villaggio sotto la tirannide di quattro mitragliatrici

sospettose.

E i nobili guerrieri mendicano cicche di sigaretta

disputano le ossa dei cani, si disputano cani e gatti di sogno.

Soli hanno conservato il candore del loro sorriso, e soli la

libertà della loro anima di fuoco.

E la sera cade, singhiozzo di sangue che libera la notte.

Vegliano grandi fanciulli rosei, grandi fanciulli biondi,

grandi fanciulli bianchi

che si girano e rigirano nel sonno, tormentato dalle pulci

dalle angosce e dai pidocchi della prigionia.

Li cullano le favole delle veglie nere, e le voci gravi che

sposano i sentieri del silenzio

e le ninne-nanne dolcemente, ninne-nanne senza tamtam e

senza batter di mani nere

– sarà domani, all’ora della siesta, il miraggio delle epopee

e la cavalcata del sole sulle savane bianche dalle sabbie

senza limiti.

E il vento è chitarra tra gli alberi, i fili spinati più melodiosi

che le corde delle arpe

e i tetti si chinano ascoltando, le stelle sorridono con i loro

occhi senza sonno

– lassù, lassù, il loro viso è blu-nero.

L’aria si fa tenera nel villaggio di fango e ramaglie

e la terra si fa umana come le sentinelle, i sentieri invitano

alla libertà.

Non partiranno, non diserteranno la fatica e i loro doveri

di gioia.

Chi farà i lavori più umilianti se non chi è nato nobile?

Chi dunque danzerà la domenica al tamtam delle gavette?

Non sono liberi della libertà del destino?

Saccheggiato giardino dei fidanzamenti in una sera

improvvisa di tempesta

falciati i lillà bianchi, appassito il profumo dei mughetti

partite le fidanzate per le Isole della brezza e per i Fiumi

del Sud.

Front Stalag 230 (*)

A New York

New York! Mi ha confuso, dapprima, la tua bellezza, queste grandi
ragazze d’oro dalle lunghe gambe.
Così timido, dapprima, di fronte, ai tuoi occhi di metallo blu, il tuo
sorriso di brina.
Così timido. E l’angoscia nel fondo delle vie dei grattacieli
Che leva ai suoi occhi di civetta fra l’eclisse del sole.
Solforosa la tua luce e livide le antenne, le cui punte folgorano il cielo
I grattacieli che sfidano i cicloni sui loro muscoli d’acciaio e la pelle
patinata di pietre.
Ma quindici giorni sui marciapiedi calvi di Manhattan
-E alla fine della terza settimana vi assale la febbre con un balzo di
giaguaro.
Quindici giorni senza pozzo né pascolo, tutti gli uccelli dell’aria
Che cadono morti all’improvviso sotto le alti ceneri delle terrazze.
Non un riso di bimbo in fiore, la sua mano nella mia fresca mano
Non un seno materno, solo gambe di nylon. Gambe e seni senza
sudore né odore.
Non una parola tenera nell’assenza di labbra, solo cuori artificiali
pagati con moneta solida
E non un libro in cui leggere la saggezza. La tavolozza del pittore
fiorisce di cristalli di corallo.
Notti d’insonnia e notti di Manhattan! Così agitate di fuochi fatui,
mentre i claxon urlano ore vuote
E le acque scure trasportano amori igienici, come i fiumi in piena
cadaveri di bambini.
Ecco il tempo dei segni e dei conti
New York! Ecco il tempo della Manna e dell’issopo.
Basta ascoltare le trombe di Dio, il tuo cuore battere al ritmo del
sangue il tuo sangue.
Ho visto in Harlem fremente di rumori di colori solenni e di odori
folgoranti
Questa è l’ora del tè in casa del rappresentante di prodotti farmaceutici
Ho visto prepararsi la festa della Notte alla fuga del giorno.
Proclamo la notte più veritiera del giorno.
Questa è l’ora in cui nelle vie, Dio fa germogliare la vita di prima
della memoria.
Tutti gli elementi anfibi raggianti come soli.
Harlem Harlem! Ecco che ho visto Harlem Harlem! Una brezza verde
di grano sorgere dai selciati solcati dai piedi nudi di danzatori Dan
In groppa onde di sera e seni come punte di lancia, balletti di ninfe e
maschere favolose
Ai piedi dei cavalli di polizia, i manghi dell’amore rotolare dalle case
basse.
E ho visto, lungo i marciapiedi, ruscelli di rum bianco ruscelli di latte
nero nella nebbia azzurra dei sigari.
Ho visto il cielo nevicare alla sera fiori di cotone e ali di serafini e
pennacchi di stregoni.
Ascolta New York! Ascolta la tua voce maschia di rame la tua voce vibrante
di oboe, l’angoscia ostruita delle tue lacrime piombare in
grossi grumi di sangue
Ascolta battere in lontananza il tuo cuore notturno, ritmo e sangue del
tam-tam,tam-tam sangue e tam-tam.
New York! Dico New York, lascia affluire il sangue nero nel tuo sangue
Che lubrifichi le tue articolazioni d’acciaio, come olio di vita
Che dia ai tuoi ponti la curva delle groppe e l’elasticità delle liane.
Ecco tornare i tempi antichissimi, l’unità ritrovata la riconciliazione
del leone del toro e dell’albero
L’idea legata all’atto, l’orecchio al cuore, il segno al senso.
Ecco i tuoi fiumi sonori di caimani muschiati e di Lamantini dagli
occhi di miraggio. E nessun bisogno di inventare le sirene.
Ma basta aprire gli occhi all’arcobaleno d’aprile,
E le orecchie, soprattutto le orecchie, a Dio che con un riso di
sassofono creò il cielo e la terra in sei giorni.
E il settimo giorno, dormi del grande sogno negro

«Il nome di Léopold Sédar Senghor va iscritto tra quelli che hanno fatto grande la poesia moderna. E se il poeta, a un certo punto della sua vita, si è fatto anche uomo di Stato, alla base di questa sua scelta stanno le intuizioni della bruciante stagione creativa che, con un’infinita serie di rimandi tra Europa e Africa, prese il nome di négritude.

La “négritude” – definitasi negli anni ’20 e ’30 a fianco del surrealismo – covò le sue braci sotto il fuoco e le ceneri della seconda guerra mondiale, tra quel 1939, quando la rivista Volontés dedicò un intero numero al poemetto di un giovane negro della Martinica – il Cahier d’un retour au pays natal di Aimé Césaire – e quel 1945 in cui vide la luce la prima raccolta di versi di Senghor, Chants d’ombre. Entrambi di pelle nera, entrambi scrittori di lingua francese, Césaire e Senghor – anche amici, nella vita – hanno rappresentato le due anime della “négritude”. Il martinico tornava, con slancio di partecipazione fisica ed emotiva, al continente dal quale erano stati strappati, come schiavi, i suoi progenitori. Il senegalese proveniva dal cuore dell’Africa nera, portando con sé le immagini di cui s’era nutrita la sua infanzia…”

Dalla prefazione di Francesco De Poli a «Canti d’ombra e altre poesie» (Passigli 2000)

(*) quando Senghor era prigioniero dai tedeschi

UNA BREVISSIMA NOTA BIOGRAFICA

Léopold Sédar Senghor è nato a Joal il 9 ottobre 1906 ed è morto a Verson, il 20 dicembre 2001. Poeta e politico, fu il primo presidente del Senegal. Fra gli anni ’30 e ’40 Senghor – insieme ad altri intellettuali africani venuti a studiare nella Francia coloniale – coniò il termine e concepì il concetto di negritudine, intesa come riscoperta e riappropriazione delle culture africane, in risposta alla cultura europea imposta dai colonizzatori.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Remo Agnoletto

2 commenti

  • Grande Senghor. Poeta immenso. Da ricordare solo come un poeta.
    Poeta immenso e politico mediocre.
    Ha predicato molto bene nella sua poesia. MA ha razzolato molto male come presidente, reprimendo la cultura e le lingue locali a favore del francese. Tenendo il Senegal sotto il giogo del dominio francese. Era il lato presentabile dell’odioso sistema della Françafrique.
    Contrariamente al grande Aimé Césaire, la “Negritude” di Senghor è andata a finire come “servitude”.

  • Alberto Campedelli

    Meraviglioso! Di una bellezza sconvolgente. Ho pianto a Leggere quelle poesie! SE l’Africa esprimesse più figure come lui forse le cose andrebbero meglio…..!

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