Rifiuti

Castelli di sabbia, una barca che fa acqua, i loro bambini e i nostri freezer da smaltire

di Daniela Pia   

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Donna, giovane, l’ estate davanti agli occhi, Il cofano dell’auto aperto, dentro un ombrellone, secchiello formine e paletta, il mare come meta. Un mare benevolo, dove sonnecchiare e fare castelli di sabbia vicino al suo bambino.

Davanti a lei un giovane nero le rivolge la parola: “buongiorno signora, un aiuto?”.

Lei sbotta, indignata: “sì, sì buongiorno signora! già siamo messi bene, per carità, toh spostati. Altri tremila ce ne vogliono mandare, già siamo messi bene”.

Chiude il cofano, innesta la prima, dopo aver sbattuto lo sportello, lanciando un inequivocabile segnale di indignazione. Madre, chissà quali narrazioni scaturiranno, nel quotidiano svolgersi delle sue giornate, per quel bambino che ha assorbito la scena in modo indelebile.

Memoria bizzarramente selettiva questa nostra: avvertiamo come rifiuti gli esseri umani che fuggono dalla fame o dalla guerra e non riconosciamo come rifiuti ciò che espelliamo di immondo dal nostro benessere. Chissà se la giovane madre, prima di progettare la mattinata al mare ha trovato il tempo di scorgere la notizia che dalle pagine di «L’Unione Sarda» raccontava la doppia morale, quella che contraddistingue il nostro ambiguo dibatterci dove si dipana la miserevole litania del “noi contro loro”.

È di venerdì la notizia: un carico di rifiuti illegali, uno dei tanti e troppi, stava prendendo il largo proprio dal porto di Cagliari diretto in Africa, viene intercettato dai funzionari dell’Agenzia delle dogane I quali sulle bolla di accompagnamento leggevano trattarsi di freezer da bar dismessi ma funzionanti. Di quelli che si usano per i gelati. Aperto il container diretto in Africa, hanno potuto constatare che si trattava di ben altro: molti cavi elettrici erano tranciati, altri erano stati strappati, i tubi per la refrigerazione non avevano più i motori, da altri colavano già i liquidi di raffreddamento; rifiuti speciali e pericolosi secondo la legge, devastanti per chi li avrebbe ricevuti. Roba che doveva essere smaltita secondo rigorose procedure e che, naturalmente, non poteva in alcun modo essere vomitata nel sud del mondo.

La pratica inveterata di rovesciare sul continente africano la feccia del nostro benessere è nota da tempo, lo ha denunciato Greenpeace, dopo aver condotto uno studio concentrandosi in particolare sul caso specifico delle discariche di Accra e Korforiuda, in Ghana, dove lo stoccaggio e lo smaltimento di rifiuti pericolosi coinvolge soprattutto i bambini ai quali viene affidato il compito di bruciare le componenti interne delle macchine per poterne recuperarne il rame e l’alluminio. Bambini che si intossicano con le esalazioni dei roghi intorno ai quali operano senza alcuna protezione e a mani nude. Figli di un dio minore, di madri che sognano di fuggire dalla miseria, forse stipate in una stiva dalla quale non riemergeranno. Figli di donne che muoiono a grappoli. Numeri in fuga e che, sempre più spesso, trovano la morte cercando la vita. Ventuno solo l’altro ieri, donne senza volto, senza nome.

Madri che hanno indirizzato il loro sguardo verso il mare, con la speranza che potesse farsi ponte e non tomba. Donne che hanno scommesso non su castelli di sabbia ma sul galleggiamento di trabiccoli fatiscenti. Barchette. Giocattoli che hanno ingoiato estati e futuro di bambini le cui mani non hanno frequentato acqua di onde in riva; braccia che di acqua conoscono bene quella preziosa e recuperata con fatica a chilometri di distanza dal proprio villaggio. Non acqua cristallina dunque ma di pozze torbide, indispensabile da portare come conquista a madri velate e con un velo negli occhi.

Numeri fra i numeri. Li ha ricordati Medici Senza Frontiere gli ultimi: da gennaio 500 migranti al mese, quindi 3000 a oggi, hanno interrotto il loro viaggio verso la nostra Itaca dove moderni Lestrigoni e Ciclopi uniti alla la furia di un Nettuno cieco li ha avvolti fra le onde dell’indifferenza.

Questi i numeri di donne e uomini come me, come miei figli, come la giovane madre di stamattina. Mi porto dentro un profondo senso di colpa, quello di essere l’inutile spettatrice di un Titanic che naviga tronfio della sua possanza, trasatlantico ignaro della formina dell’iceberg che gli dèi hanno forgiato per lui, mentre a bordo passeggeri in prima classe ballano e levano in alto i calici.

 

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

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