Riflessioni sulla “buona morte”

di Gianni Loy (ripreso da https://www.manifestosardo.org/)

Il significato dell’espressione, sia nella lingua originaria che in quella italiana, per quanto riguarda l’aspetto teleologico, è chiaro e inequivocabile: indica  le azioni volte a porre fine alla vita di una persona allo scopo di evitargli sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia.

Non altrettanto condivisa è la classificazione delle condotte che vengono  considerate eutanasia. Si parla di eutanasia attiva quando la morte è diretta conseguenza dall’azione di un terzo, come la somministrazione di un farmaco da parte del medico, e di eutanasia passiva quando la morte costituisce l’effetto indiretto di un’azione o di un’omissione, come nel caso della sospensione di trattamento sanitario o dell’alimentazione artificiale.

Fattispecie a sé, sarebbe costituita dal suicidio assistito, (l’aiuto o l’assistenza al suicidio) nel quale è la persona che desidera morire a compiere l’atto che produce la morte grazie all’aiuto di una terza persona. Il caso classico è quello del  medico, o di un familiare che, su richiesta dell’aspirante suicida, gli fornisce un farmaco idoneo a procurargli la morte, che sarà però il richiedente ad assumere.

Quanto alla classificazione delle condotte non vi è consenso neppure all’interno del Comitato  Nazionale di Bioetica che, chiamato a pronunciarsi sulla questione dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, si è limitato a dar conto dell’esistenza di diverse opinioni al suo interno: alcuni hanno sostenuto che la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito sarebbe speciosa,  data la sostanziale equivalenza tra il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di essere autore della morte di questa persona; altri hanno ritenuto che, sia sotto il profilo filosofico che simbolico,  consentire a una persona di darsi la morte non è identico a dare la morte a qualcuno a seguito della sua richiesta.

Il suicidio, da un punto di vista giuridico, non è oggetto di divieto da parte della legge. Tuttavia, – secondo interpretazione dello stesso Comitato di bioetica,  non si ritiene  esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma viene inteso come una semplice facoltà̀ o un mero esercizio di una libertà di fatto. Lo sfavore dell’ordinamento si ricaverebbe,  tra l’altro, dal fatto che la legge sanziona penalmente sia le condotte che incitano al suicidio, sia quelle che provocano, materialmente, la morte di una persona che chieda di porre fine alla propria vita.

L’art. 579 del codice penale punisce (con reclusione tra i 6 e i 15 anni) chi cagioni la morte di una persona con il consenso di lui ed un’altra norma (art. 580)  punisce con pene variabili tra 1 e 12 anni  chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito, ovvero ne agevola, in qualsiasi modo, l’esecuzione.

Si tratta, per la verità, di norme estranee all’impianto costituzionale, introdotte dal Codice penale del 1930  precedentemente all’entrata in vigore della Carta Costituzionale. Norme, peraltro, già dichiarate parzialmente incostituzionali. La Corte costituzionale , (Sent. n.  242 del 22 novembre 2019), ha dichiarato incostituzionale l’art. 579 del c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi con le modalità di cui alla legge n. 219/2017  (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) o con modalità equivalenti, agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio che si sia autonomamente e liberamente formato, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La norma, è ritenuta in contrasto con gli art. 2, 13 e 32 Cost. che riconoscono i diritti inviolabili dell’individuo, la libertà personale ed il diritto alla salute.

Sulla base dei ragionamenti del Giudice costituzionale si può sospettare che anche l’art. 580, (oggetto del quesito referendario) potrebbe non superare un eventuale vaglio di costituzionalità  ove la  Corte venisse chiamata a pronunciarsi. La distinzione tra fornire il prodotto che procura la morte  e somministrarlo, quanto a finalità ed effetti, è assai labile, almeno fuori dai confini di Bisanzio, posto che, in ogni caso si produce la morte della persona che, nel rispetto delle condizioni indicate dal Giudice costituzionale, lo richieda.

Del fatto che il suicidio  costituisca una semplice facoltà e non un diritto, o  una   libertà di fatto, si può dubitare.  Nel diritto alla vita, al pari di altri diritti costituzionalmente garantiti, è implicito anche il diritto a rinunciare all’esercizio di tale diritto. Il diritto ad iscriversi ad un sindacato, ad esempio, comprende in sé anche il diritto a non iscriversi. Il diritto alla riservatezza non proibisce di comunicare ad altri i dati che si ha diritto a mantenere riservati. Analogamente, il diritto alla vita non impone alla persona l’obbligo di restare in vita. Non le impedisce, in altri termini, di decidere di non esercitare quel diritto. Se così non fosse, dovremmo concepire non solo un diritto alla vita, ma, accanto ad esso, anche un obbligo a restare in vita. Ma possiamo davvero ipotizzare che l’ordinamento, in presenza dell’esplicita e consapevole volontà di una persona di rinunciare al proprio diritto alla vita, possa in qualche modo costringerlo a vivere?

L’art. 32 della Costituzione consente, ove sia la legge a disporlo, l’obbligo di sottoporre le persone a determinati trattamenti sanitari, anche contro la loro volontà; precisa, tuttavia, che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Personalmente, non credo che imporre di continuare a vivere ad un uomo o ad una donna che con piena coscienza e consapevolezza abbiano deciso di lasciarsi andare nelle braccia della loro “sorella morte” – tanto più se si tratta di una scelta dettata dall’urgenza di fuggire da un insopportabile dolore fisico e psichico – sia rispettoso della dignità umana. Un’interpretazione che ritenesse il contrario, sarebbe in contrasto, con quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione in quanto andrebbe oltre i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Sia ben chiaro, nel nostro ordinamento, nella nostra cultura giuridica, non esiste alcun “diritto al suicidio”. La Repubblica, al contrario, è chiamata a promuovere e proteggere il diritto alla vita, e sono molti gli strumenti che può mettere in cmapo, a partire dal promuovere il benessere generale della società, garantire un’assistenza sanitaria generale e gratuita, ridurre gli incidenti sul lavoro, soccorrere i naufraghi, predisporre misure di tempestiva ed efficace terapia del dolore, offrire il sostegno psicologico alle persone che si trovino in grave difficoltò, garantire un’adeguata riabilitazione e rieducazione …

In Europa, secondo dati Eurostat, oltre un milione di persone muoiono ogni anno delle deficienza del sistema sanitario pubblico diverse migliaia a causa di errori della diagnosi e della cura. Per fortuna, in queste speciali classifiche, l’Italia risulta tra i paesi più virtuosi o, sarebbe meglio dire,  meno deficitari.

Il fatto che l’ordinamento, in generale, non guardi con favore alla scelta di rinunciare alla propria vita non significa, tuttavia, né che possano adottarsi misure coercitive che impediscano alla persona di disporre della propria esistenza, e neppure che nelle ipotesi di patologie incurabili in presenza di sofferenze insopportabili, in ossequio al rispetto dei diritti fondamentali della persona, il sistema sanitario non possa prevedere forme di assistenza medica alla buona morte.

Concludo questi brevi riferimenti – di carattere prevalentemente giuridico – con riferimento al suicidio, perché dal punto di vista teleologico, anche quanto alle implicazioni di carattere morale, non vi è differenza tra le diverse modalità che provochino la morte di chi abbia deciso di togliersi la vita.  Ciò che conta sono il desiderio e la cosciente volontà di porre fine alla propria vita. In definitiva, sotto il profilo etico, non fa differenza se tale finalità viene perseguita mediante la rinuncia alle cure, il suicidio o la buona morte medicalmente assistita. Altrettanto potrebbe dirsi per la persona che cooperi alla realizzazione dell’intento:  sotto il profilo etico, poco importa se provoca la morte di una persona a seguito di un’omissione  o di una condotta attiva. Ciò che conta è il rapporto tra la condotta e l’effetto desiderato. Sotto il profilo legale, invece, il mero aiuto al suicidio, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non costituisce più reato,  mentre continua ad esserlo, in attesa dell’esito del referendum abrogativo,  la condotta di chi provochi direttamene la morte, ad esempio con la somministrazione di un farmaco.

Vorrei far riferimento ad un recente avvenimento. Qualche settimana fa,  in Spagna, una donna gravemente ammalata si è tolta la vita in una stanza d’albergo assumendo una dose di veleno. La donna era affetta, da anni, da una patologia cronica osteomuscolare incurabile, aggravata dall’intolleranza agli oppiacei. Ultimamente era sopravvenuto un cancro alla vescica “invasivo e di grado elevato”, secondo il referto medico. La donna, che auspicava una dolce morte, non appena entrata in vigore la legge che, in quel paese, consente la morte medicalmente assistita, aveva chiesto di poter essere ammessa. La  richiesta era stata sottoposta alla struttura competente,  ma non era andata a buon fine, inizialmente in quanto il medico incaricato si era dichiarato obiettore di coscienza.

Ma non è questo che interessa, piuttosto l’esito e le ragioni della donna che, qualche settimana prima accompagnata  dal medico curante e dall’amica più cara, aveva rilasciato un’intervista a “El Pais” dichiarando quanto segue:

La decisione l’ho già presa. Non credo di poter attendere che mi venga applicata la legge. Ho sempre affermato che non voglio vivere se non sono in grado di poter decidere sulla mia vita. Non sono in grado di cucire, non posso leggere. Non c’è niente che possa darmi speranza. Non si tratta di un capriccio.  Il fatto è che tutta la mia vita consiste esclusivamente nel cercare di soffrire il meno possibile. E nonostante tale sforzo la mia sofferenza è intollerabile. Per questo penso che, al massimo, riuscirò a resistere sino ad  ottobre, ma forse neppure riuscirò ad arrivarci”.

Il giornalista le chiede: “E nel caso non riuscisse ad essere ammessa al trattamento previsto dalla legge,  ha cercato qualche alternativa per darsi la morte?

“Si ho qualche alternativa, non piacevole, ma ce l’ho. Solo che, dal punto di vista psicologico, si tratta di una alternativa terribilmente violenta. È violento pensare Mi sto suicidando”. Io non lo voglio questo. Voglio solo che mi aiutino a smettere di soffrire. Niente di più”.

Cito questo, episodio, uno come tantissimi altri, tra i pochi che superano il riserbo e diventano di dominio pubblico, perché consente, di comprendere come il tema, l’unico tema in discussione, sia quello della vita, della morte e del diritto di decidere della propria esistenza: il resto riguarda gli aspetti tecnici, le modalità  di esecuzione dell’intento, che possono andare dalla rinuncia alle cure ed all’alimentazione sino al suicidio.

Ho voluto introdurre nel discorso un caso concreto, anche perché risulti chiaro che la vita, la morte, le sofferenze, non esistono. Nella storia, nella realtà esistono uomini e donne che vivono, che soffrono, che muoiono. Le espressioni astratte che utilizziamo sono comprensibili e concepibili soltanto perché si verificano tali evenienze.

Come, proprio in questi giorni  ci ha ricordato Biorn Larsson,  siamo in grado di intendere il “senso” attribuito alle parole ed alle espressioni,  ma per sapere se esistono veramente dobbiamo rivolgerci alla scienza.  La vita è sacra, inviolabile, è un valore supremo. Il principio lo intendiamo, riscuote consenso.  Ma, nella realtà, davvero  la vita è sacra protetta, rispettata? Ed in che modo?

Arriviamo al nodo. La decisione circa le regole che potrebbero  disciplinare – se, quando e come – pratiche di buona morte, ha evidenti implicazioni etiche che interrogano la coscienza di ciascuno e quella collettiva.

Il fondamentale interrogativo, sul piano etico, consiste nel cercare una risposta, non ambigua, ad una elementare domanda: consentire la buona morte, è un bene o un male? Ciò, non significa, nonostante ogni apparenza, pronunciarsi su principi astratti, quali la sacralità della vita.

Il quesito, al quale il Parlamento italiano non ha voluto rispondere, nonostante il pressante invito della Corte Costituzionale,  è un altro: se la comunità nella quale oggi storicamente viviamo ritenga eticamente accettabile consentire l’assistenza medica, la buona morte, alle persone gravemente sofferenti, senza speranza di guarigione delle quali sia stata accertata la cosciente e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze.

Ciò, non sulla base di precetti morali fondati su costruzioni metafisiche o di credo religiosi, ma alla luce di valori fondanti e condivisi, logicamente giustificati, di una comunità, laica. Quali il benessere collettivo, la ricerca della felicità, la solidarietà. Che tenga conto, evidentemente, degli effetti che le scelte personali possano provocare sul sistema di convivenza dell’intera comunità. L’etica laica, in ogni caso deve necessariamente trovare nell’immanenza, e non nel trascendente, la risposta ai propri interrogativi.

Non dobbiamo chiederci se la buona morte, astrattamente considerata, sia un bene o un male, ma se operi bene o male, per se stesso e per la comunità, la persona che decida di praticarla. Si tratta, conseguentemente, di un giudizio sulla persona che aiuta il richiedente a porre fine alle proprie  sofferenze.

L’etica di cui parliamo, peraltro, è opinabile, in quanto ispirata a diverse concezioni  filosofiche; ad esempio all’imperativo categorico kantiano che ipotizza una sorta di deontologia nel comportamento umano; oppure alle teorie utilitaristiche, secondo le quali le nostre azioni dovrebbero mirare alla massima felicità per il maggior numero di persone. In ogni caso, l’etica di cui parliamo non coincide con i precetti morali  dettati da ideologie o religioni. Beninteso, è frequente che  i valori “laici” e quelli derivanti dai precetti morali delle religioni possano coincidere, Ma non sempre. Alcune pratiche imposte da talune religioni, ad esempio, sono incompatibili con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti.

In ogni caso non vi è alcun antagonismo tra l’etica laica che dovrà ispirare le scelte del legislatore in materia di buona morte ed i precetti morali delle religioni cristiane in materia di buona morte – peraltro non condivisi da tutte le professioni religiose – . Precetti morali che, anche quando non coincidenti con l’etica “laica” del legislatore, potranno sempre orientare liberamente le condotte dei propri adepti. Non solo, a quanti eventualmente professino un credo distinto da quello dell’etica “laica”, in casi come questo, viene di norma  riconosciuto il diritto di non uniformarsi al precetto civile, cioè di astenersi dalle pratiche che non condividono, attraverso lo strumento dell’obbiezione di coscienza, come opportunamente richiamato anche dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.

Nel caso concreto, – perché non si dimentichi, neppure per un momento, che non è della morte che ragioniamo, bensì delle persone che, in determinate circostanze, desiderano la propria morte o si danno la morte  – si può aggiungere che a tutte le professioni religiose,  vien in ogni caso garantita – ci mancherebbe altro – ogni assistenza spirituale volta ad aiutare il credente a non cedere alla tentazione di porre fine anticipatamente alla propria vita e ad affrontare con spirito orientato al trascendente le proprie sofferenze.  Ma se un credente, uomo o donna, esercitando il libero arbitrio,  continuasse a manifestare il proposito di porre fine alla sua vita, troverei paradossale che il suo desiderio non possa poi essere accolto perché il precetto morale della confessione religiosa che il proprio adepto non intende rispettare venisse  recepito e fatto proprio dall’ordinamento giuridico dello Stato.

Aver certezze è bene, risulta sicuramente rassicurante,  rassicurante. Ma coltivare dubbi è non meno salutare e utile,  soprattutto in questo caso, visto che la vita e la morte, per tutti, possono essere segnate da svolgimenti imprevedibili e misteriosi.

Spesso siamo convinti, molti di noi- e lo proclamiamo con sicumera -, che in presenza di  un determinato evento ci comporteremo in una determinata maniera.  Ma è soltanto un’idea, un’astrazione. Finché resta un’idea … Tra quanti oggi giurerebbero che mai, in nessuna circostanza, ricorrerebbero alla buona morte, non pochi, di fronte ad una situazione non più immaginaria ma reale, sicuramente, potrebbero  comportarsi in maniera differente.  Ma è vero anche il contrario, cioè che tra quanti dichiarano che, in circostanze analoghe, sceglierebbero di anticipare la morte, molti, alla prova dei fatti opererebbero una diversa scelta rinunciando a tale  proposito.

Vita e morte, disincrostate dell’astrazione, altro non sono che i nostri percorsi quotidiani  Così terribili da considerare funesto persino il giorno della nascita – secondo il pastore errante di Leopardi – o così assurdi da potere essere paragonati – secondo Camus  – alla fatica di Sisifo? O, per altro verso, esaltante esperienza di conoscenza e di appagamento, o alternarsi di gioia e di dolore? Una miriade interpretazioni che sfugge alla nostra conoscenza ed alla nostra esperienza futura. Cosa ne sappiamo, esercitando sana umiltà, del sentimento di chi, ormai sul ciglio del baratro, in presenza di insopportabili sofferenze, chiede di lasciarsi andare dolcemente? Abbiamo sufficienti motivi per giudicarlo e per impedirglielo? Senza contare che, il più delle volte, ciò significa semplicemente che lo costringiamo a realizzare lo stesso proposito in clandestinità o con maggiore sofferenza.

Non abbiamo ricette. Camus immagina che possa essere felice persino chi è destinato a  spingere sassi lungo il pendio per tutta dal vita, senza alcuna speranza di fuggire dal supplizio. Umberto  Eco afferma “Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”, e tanti altri, ciascuno secondo i propri principi.

Prendiamo atto di trovarci di fronte all’irrisolto mistero della vita e della morte. E visto che la vita, in un modo o nell’altro, la sperimentiamo, il mistero si concentra sulla nostra. La morte costituisce il nostro ultimo dubbio.

Il mistero. Io, ad esempio, in questo momento, immagino che se mi trovassi in condizioni di estrema ed insopportabile sofferenza, non solo chiederei di anticipare la fine con una buona morte, ma mi fingo  persino che nel momento in cui  mi comunicassero che all’indomani un medico mi accompagnerebbe dolcemente alla morte, proverei un grande senso di serenità, anzi di felicità.

Allo stesso tempo, sono certo e consapevole che, di fronte ad una situazione del genere, ne ho esperienza, potrei decidere diversamente, cioè scegliere di attendere, anche nel dolore, con altro spirito, la fine dei miei giorni.

Insomma, sappiamo così poco della vita da non poter essere certi neppure delle nostre azioni.  Figuriamoci se possiamo dettare il comportamento di altre persone. Spero che né a me né ad altri venga confiscato il libero arbitrio.

Insomma chi siamo noi per giudicare? Impedire, per legge, una scelta altrui che non condividiamo è assai più di un giudizio.

da qui

 

 

“Histoire d’une Larme”: Welby e il fine vita raccontato con arte e poesia

“La storia di una lacrima ” (“Histoire d’une Larme”) è il nuovo lavoro del regista Giovanni Coda, ispirato al libro Ocean Terminal di Piergiorgio Welby…
Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • LA POSIZIONE DI «NOI SIAMO CHIESA»
    Deve iniziare subito un nuovo e vero dialogo senza “campagne” e demonizzazioni. L’ipotesi di una eutanasia-buona morte di ispirazione cristiana

    Una riflessione che viene da lontano
    Sul problema del fine vita e dei suoi rapporti con la legislazione “Noi Siamo Chiesa” ha scritto molto, affrontando i casi di interesse generale (Englaro, Welby, legge sulle DAT) e più recentemente il caso Fabo. I capoversi delle nostre riflessioni hanno sempre rifiutato le semplificazioni di tanti discorsi facili (tra gli altri si veda il nostro testo del 14-9-2019). Abbiamo chiesto, soprattutto agli ambienti ecclesiali, dialogo e confronto ma con scarsi risultati. I capoversi del nostro percorso sono stati: presa d’atto della nuova medicina nel settore del fine vita; grande importanza delle cure palliative, poco conosciute e praticate; bene la legge sul fine vita n. 219 da far conoscere ed ‘usare’ in modo diffuso soprattutto in tutti gli aspetti che riguardano l’autodeterminazione del malato; differenza tra vita biografica e vita biologica; zona oggettiva di incertezza con situazioni intermedie tra accanimento e desistenza, tra coscienza del malato presente e coscienza insufficiente o inesistente; differenze tra tanti diversi ‘fine vita’ sia per motivi oggettivi di tipo sanitario sia per i differenti status culturali e psicologici; alleanza terapeutica tra medico e paziente che può affrontare al meglio le situazioni più difficili; lo stesso si dica per l’accompagnamento del malato terminale da parte dei famigliari e degli amici; presenza di una realtà di eutanasia clandestina gestita spesso ‘alla meglio’ o in modo casuale; tante cosmovisioni presenti nella società sul fine vita, nessuna delle quali può essere snobbata o contraddetta frontalmente; infine richiesta di una normativa debole o ‘gentile’, questione sulla quale il codice penale è a disagio. Durante queste ricerche ci siamo accorti della complessità dei problemi per i quali tutti dovrebbero impegnarsi nell’approfondimento prima di dire verità “definitive”. Aspetti etici e teologici devono essere ancora esplorati. Per esempio, dovremmo capire meglio, nel vissuto della pratica sanitaria, che differenza c’è tra “naturale” ed “artificiale” o, sotto un altro profilo, tra il cosi detto diritto naturale e il diritto della persona.
    Abbiamo anche detto che la mistica del dolore e della mortificazione, da sopportare come ‘valore’ spirituale, frequentemente proposta da ambienti ecclesiastici alle persone in grande sofferenza, dovrebbe avere delle solide radici teologiche che sono invece molto controverse. Questa posizione si rifà a una concezione mistico-religiosa che considera la sofferenza fisica come elemento di purificazione e di santificazione che deve essere accettato e vissuto nella convinzione che esso faccia parte di un disegno sovrannaturale dalla logica imperscrutabile.
    I vescovi
    Questo complesso di questioni non si presta a ‘campagne’, a slogan in cui prevalga la radicalizzazione e la semplificazione. In questo modo nel nostro paese siamo invece andati avanti per anni con un’area laica emarginata ed esasperata che ha presentato nel ’14 una proposta di legge di iniziativa popolare sempre ferma in Parlamento, mentre la destra fondamentalista e clericale dello scontro contro l’eutanasia ha fatto da sempre una bandiera importante. Ora che la questione diventa di stretta attualità per l’imprevisto successo della raccolta di firme per il referendum promosso dai radicali, la linea della CEI si appresta, a quanto si capisce, a uno scontro duro.
    Il 18 agosto la Presidenza della Conferenza episcopale parla della “vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali”. Il giorno prima Mons. Paglia, presidente della vaticana Accademia per la vita, usa parole senza controllo. Ci troveremmo infatti di fronte a una ‘forma di eugenetica’ e a una ‘concezione salutista’. Idem la posizione del presidente della Cei Bassetti nella sua prolusione il 27 settembre al Consiglio Episcopale Permanente quando parla di “una sconfitta dell’umano”. I vescovi pretendono che sul fine vita le loro posizioni siano assunte integralmente nell’interesse di tutta la società e introdotte nelle istituzioni. Spazi di interlocuzione allo stato attuale non sembrano esserci. Dobbiamo allora entrare nel cuore della linea della CEI che diffida di ogni forma di autodeterminazione del singolo in circostanze date. Quella dei vescovi ci sembra soprattutto e anzitutto una posizione ideologica, non teologica, non pastorale.
    Una posizione diversa
    La Cei difende la Vita sempre e comunque. Ma la vita è una condizione esistenziale, non è un valore assoluto come possono esserlo la giustizia, l’amore per il prossimo, la pace, la fraternità e via di questo passo. La vita è inserita nel percorso che l’uomo e la donna si trova di fronte nel corso dell’esistenza e durante la quale si comporta un po’ nel bene, un po’ nel male, un po’ a fatica con dubbi, gioie e sofferenze. Le circostanze determinano o facilitano i comportamenti. La coscienza si confronta con le diverse situazioni, si orienta e decide o non decide. Tutto il percorso della vita è soggetto alle virtù e alle passioni. Naturalmente la Luce deve illuminare la coscienza e la vita in cui si può amare, creare, aiutare il prossimo, allevare i figli… Per un cristiano in particolare e soprattutto nei momenti terminali della vita, le circostanze e gli stati di coscienza possono scavalcare gli imperativi categorici della così detta ‘Vita’ come valore supremo, sempre e comunque? Dove c’è scritta nelle Scritture una affermazione categorica e non rinunciabile sulla ‘Vita’? Cosa si intende per “morte naturale” di cui tanto si parla nei testi ecclesiastici? Non è anche quella di chi prende atto che si è giunti al termine e che si può vivere con amore la remissione del dono (della vita) che si è ricevuto? Perché la sacralità della vita non può comprendere anche la libertà di autodeterminarsi nel momento in cui, in circostanze date, tale scelta non va contro Dio ma è davanti a Dio? Bisogna anche tenere presente che per quanto riguarda la Vita terminata col suicidio la Chiesa stessa ha ora un atteggiamento di rispetto e di silenzio ben diverso dal passato. La tutela della Vita, sempre e comunque, può essere assunta come riferimento non discutibile sempre valido nel tempo e nello spazio?
    Nuove riflessioni tra i credenti
    Negli ultimi anni i casi di grande impatto mediatico sono stati contemporanei a nuove riflessioni emerse tra i credenti. La linea della “Vita” della Cei non è più così solida. L’approvazione della legge 219 sulle DAT, la posizione di Hans Küng e quella della Chiesa valdometodista in Italia, la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fabo hanno dimostrato che le questioni sono aperte e non si possono tacitare con parole sbrigative ed autoritarie. Da ricordare, ci sembra, quanto scriveva nel 1516 Tommaso Moro che indicava nell’eutanasia uno sbocco possibile e spiritualmente nobile alle situazioni che ora, come allora, si presentano in certi casi di fine vita (1). Una riflessione più matura, soprattutto dialogante, sarebbe possibile anche tenendo in conto preoccupazioni oggettive come quella che teme che qualsiasi passo in avanti nella direzione della eutanasia-buonamorte possa aprire la possibilità alle cosi dette ‘derive eutanasiche’ nei confronti di soggetti fragili, oppure come l’ipotesi della possibile obiezione di coscienza da parte del personale sanitario.
    La posizione dei vescovi, che si è messa subito sul piede di guerra al sapere della facilità nella raccolta delle firme per il referendum, ci sembra un errore nei confronti dell’opinione pubblica. I vescovi si schierano senza timidezze con l’ala fondamentalista del mondo cattolico. Partendo dalla discussione sulla Vita come viene proposta dai vescovi la riflessione è andata avanti e ci si è chiesti quanto è difesa la Vita ‘durante’ il suo corso, soprattutto dalle stragi, dalla miseria, dalle guerre. Difendere a oltranza la vita di una persona arrivata alla fine non è volontà che può essere vista in contraddizione col silenzio o la passività o la insufficiente reazione di fronte alla violenza presente nel vissuto di troppi popoli o anche nel quotidiano della nostra vita normale (per esempio gli infortuni sul lavoro)? Perché non parlare di misericordia e di accoglienza, perché non parlare di ‘buona morte’, perché non parlare della speranza cristiana nella resurrezione ringraziando il Creatore oppure perché non essere consapevoli di avere esaurito il proprio percorso per chi non ha una fede o è ancora in ricerca?
    La sentenza della Corte Costituzionale
    La sentenza n. 242 del settembre 2019 della Corte Costituzionale sul caso Fabo ha indicato i quattro casi in cui viene esentato dalla responsabilità penale chi aiuta al suicidio (la persona deve essere cosciente, affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale). È un’apertura a casi estremi che la CEI, nonostante tutto, ha contrastato. Questa direzione di marcia, che ci sembra positiva, incontra ostacoli che rischiano di fare arenare tutto. Come ben sappiamo, ogni sentenza ha efficacia solo per il caso per cui è stata emessa. Così Marco Cappato non è stato perseguito. La sentenza della Corte costituisce più che importante giurisprudenza ma può essere disattesa dai giudici di merito. È di questi giorni la notizia che un malato terminale, un anno fa, chiese alla sua ASL nelle Marche di accertare le sue condizioni ai fini di accedere al suicidio assistito in base alla sentenza. L’azienda sanitaria si è rifiutata, il malato è ricorso alla magistratura che gli ha dato torto in prima istanza e ragione in seconda. L’azienda sanitaria si oppone ancora alla sentenza e il malato ha presentato una denuncia penale. Il ministro Speranza è intervenuto contro l’inerzia della sanità delle Marche e in altri casi. Questo è un primo problema, il secondo è quello della ricognizione, regione per regione, della natura e della composizione dei Comitati etici territoriali per verificare la loro presenza e la loro adeguatezza al ruolo ipotizzato per loro dalla Corte per accertare la situazione specifica del malato in relazione alle condizioni richieste dalla sentenza. Inoltre è necessaria un’intesa tra Stato e regioni per consentire a queste ultime di fornire indicazioni chiare ed univoche alle rispettive aziende sanitarie locali sull’applicazione della sentenza in modo da avere uniformità di intervento su tutto il territorio nazionale. In sostanza ci troviamo di fronte ad una situazione semibloccata, coi tempi lenti ostacolati dalle campagne della destra ma soprattutto frenati dalle aule parlamentari. Nel paese la situazione di malati in condizioni ultime è diffusa; non c’è quasi famiglia o comunità che non si trovi di fronte a pazienti in estreme condizioni di fine vita e che non si ponga degli interrogativi. È necessaria ed urgente una legge. La commissione Giustizia della Camera il 7 luglio ha elaborato un testo unificato, speriamo che non resti insabbiato. Il calendario della Camera l’ha in agenda per oggi 25 ottobre.
    Il referendum e la campagna
    Di fronte a questa emergenza legislativa che dura da anni i radicali, con la tenacia e con la passione che tutti riconoscono loro, hanno alla fine deciso di tentare la strada dell’indizione di un referendum per abrogare il primo comma dell’art. 579 del codice penale che recita ‘Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni’. Dell’art. 580 sulla ‘istigazione o sull’aiuto al suicidio’ se ne occuperà il Parlamento, come abbiamo visto. L’imprevisto successo di adesioni al referendum ha sollevato attenzione ed anche emozioni nell’opinione pubblica. Si pensava a una raccolta lenta e faticosa. Ora questo esito fa presagire che il possibile voto referendario in primavera possa avere successo di partecipazione e di esito. Ci troviamo quindi di fronte a una questione molto importante per la società italiana ed anche per la politica.
    Ci sono due ostacoli alla conclusione di un simile ipotizzato percorso. Il primo è relativo all’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale. I costituzionalisti esprimono pareri diversi, nessuno è convinto che l’ammissione sia cosa facile. Si usa il referendum per scrivere una ‘legge’ o per interpretarla o per abrogarla? Quale è la sua funzione? Quanto resterebbe (la cosi detta ‘normativa di risulta’) dopo l’eventuale abrogazione del primo comma? Sarebbe accettabile questa mutilazione in ordine ai valori della Costituzione? Di qui nasce il secondo problema: abrogando seccamente questo primo comma ci troveremmo di fronte ad una assenza di norma. Qualsiasi persona sana di mente e in buona salute potrebbe chiedere di essere privato della vita, magari in condizioni particolari (a pagamento?) con un consenso non ben documentato (o falso, pensiamo ai poteri criminali del nostro paese) o convinto da persona interessata (magari per motivi patrimoniali). Nel senso comune, chi firma per il referendum e chi ha un’opinione in merito intende sempre per eutanasia l’interruzione di sofferenze estreme di persona in condizioni terminali. Nella stessa proposta di legge di iniziativa popolare presentata nel 2014, sempre dai radicali, nell’art. 3 i ‘trattamenti eutanasici’ riguardano solo ‘pazienti affetti da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a 18 mesi’. Ci troviamo quindi di fronte alla possibile cancellazione del primo comma senza le indicazioni dei quattro punti della sentenza che servono per l’art. 580, come giurisprudenza. A questo vuoto normativo (molto pericoloso) la Coscioni, che ha promosso il referendum, non dà risposta. Probabilmente perché lo strumento referendario ha la rigidità che abbiamo visto e ad esso i radicali sono ricorsi per sbloccare la situazione, pur conoscendone i limiti.
    Bisognerebbe allora che la campagna referendaria fosse anche funzionale alla richiesta tassativa di una legge complessiva, che diventerebbe del tutto urgente per coprire il vuoto normativo che si creerebbe davanti alla probabile abrogazione dell’art. 579, primo comma, partendo dalla casistica contenuta nella sentenza della Corte che ruota attorno alle condizioni estreme. Il possibile vuoto legislativo costituisce l’elemento di debolezza della proposta referendaria. Se vincessero i SI sarebbe necessario un intervento di emergenza del Parlamento. La richiesta di una legge immediata e rigorosa serve ad indicare in che senso si partecipa alla domanda di referendum e si vota, con la volontà di soccorrere le sorelle ed i fratelli in condizioni esauste ma lucide davanti alla propria coscienza ed anche, per tanti, sotto lo guardo misericordioso e compassionevole del Dio che ci ha dato la vita e che ora ci indica come essa sia ormai finita. Sulla base di questa sensibilità il nostro consenso al referendum è molto differente da quello dei suoi promotori la cui cultura individualista esasperata non è la nostra. Prefiguriamo invece la possibilità di una vera e propria eutanasia-buonamorte di ispirazione cristiana che sappia superare emozioni e resistenze psicologiche per una consapevole decisione di compiere così il proprio percorso terreno all’interno della propria fede e nell’attesa di un futuro prossimo di serenità e di gioia.
    Premesse tutte queste riflessioni generali “Noi Siamo Chiesa” ritiene necessario ed urgente un nuovo confronto nel paese, nel nome di una laicità condivisa da credenti, non credenti e da uomini in ricerca, per giungere a soluzioni legislative su tutta la questione del fine vita nel rispetto dei valori costituzionali.
    (1) Così San Tommaso Moro immagina che debba essere regolato il fine-vita in una società bene ordinata: “I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gli incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole…” (cfr. “Utopia”, Laterza 1984, pag. 97-98).
    26 ottobre 2021
    http://www.noisiamochiesa.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *