Ripensare l’handicap

di Laura Tussi (*)

Laura-handicap

Oltre le diverse interpretazioni, le lungimiranti intuizioni, le intenzioni benpensanti, riguardanti l’emergenza handicap, i vari interventi educativi, medici e riabilitativi, a livello professionale, di tipo operativo, risultano spesso “nascosti”, non evidenti, perché l’”altro” – il portatore di diversità e alterità – è fonte di timore, paura e soggetto a segregazione, emarginazione e pregiudizio.

Un’evoluzione positiva dell’intervento professionale, operativo e riabilitativo, si auspica mediante una presa di coscienza generale di ciascun soggetto in causa, dall’educatore, allo psicologo, al famigliare, coinvolti nell’incontro quotidiano con questo sintomo del male sociale, con risvolti individuali e risposte spesso individualistiche ed egoistiche dove la quotidianità nella sua complessità, sfugge alle maglie attanaglianti delle rappresentazioni, che escludono le difficoltà e riducono spesso il problema all’ambito del diritto e dell’uguaglianza.

Gli interventi corretti rivolti ad handicap gravi non devono avere origine in un umanitarismo pietistico o masochista ma nel rispetto dei diritti e nella consapevolezza che l’azione professionale ben fatta a favore del diversamente-abile, volta al bene sommo del “diverso”, è vantaggiosa per l’intera società che riscopre, nell’apertura verso le insondabili e poliedriche sfaccettature, le polimorfe caratteristiche dell’umano, dei valori inalienabili, insostituibili, imprescindibili e arricchenti per una civiltà purtroppo votata al consumismo e al rifiuto della “inefficienza” come la nostra. Dunque il rispetto, il confronto, la tolleranza positiva e non pregna di sufficienza e recondito disprezzo, il dialogo costruttivo, l’interscambio di opinioni, il contatto con ogni aspetto, peculiarità e carattere di “alterità” che permea l’esistenza umana e la sua ontologia.

Gli interventi a favore dell’handicap devono incentrarsi su princìpi di socializzazione, suscitare stimoli socializzanti e non segreganti, che inibiscono la capacità del dialogo, dell’interscambio dia-logico, nell’assenza di abilità relazionali e socializzanti: la necessità di raggiungere risultati positivi nell’azione operativa, di conseguire una giusta integrazione, buoni livelli di autonomia, sono obiettivi fondanti presi in carico da tutta la comunità sociale ed educante. Abbandonare il problema handicap a se stesso significa impoverire una comunità e aprire una ferita profonda sul piano culturale, a partire dal nucleo famigliare del disabile che diventa decisivo con la sua centralità affettiva, in quanto non deve permettere di ridurre il figlio a un caso, a una categoria di disabilità, a un’utenza, indirizzato da “politiche societarie” che valorizzano la soggettività sociale, le reti associative e di volontariato e le relazioni interfamigliari, attribuendo rilievo alla centralità dei legami familiari e sociali. L’intervento riabilitativo non dovrebbe dunque esasperare la differenza, facendo di questa peculiarità la stigmate stessa dell’emarginazione. La segregazione è un fenomeno imperante e onnipervasivo. Le risposte alle esigenze dell’handicap vanno fornite in organizzazioni di servizi come per altri cittadini.

Un’azione riabilitativa corretta deve permettere al soggetto di vivere in modo agiato la città e il quartiere, evitando l’emarginazione segregante in centri residenziali, con eccessivo concentramento di persone. Occorre consentire un’equa distribuzione sociale del peso materiale e psicologico che non dovrebbe gravare totalmente nell’ambito della famiglia, penalizzandola.

In quest’ottica olistica di intervento risulta auspicabile l’adozione di piccole comunità residenziali o semiresidenziali, interventi qualitativi come servizi aperti che facilitino l’interazione e la partecipazione di tutti i soggetti in causa: gli operatori, il personale medico e riabilitativo, gli educatori e i famigliari, che possano interagire nell’ambito di servizi collocati in zone abitate, facilmente raggiungibili e accessibili, perché l’obiettivo principale, il focus fondamentale sotteso all’azione di ogni intervento consiste nell’inte(g)razione.

I miti della società dell’effimero

Una società fondata sul principio del valore e della sopravvivenza del più forte presenta notevoli svantaggi perché conferma princìpi ancestrali e primordiali quali il culto della potenza fisica, la rivalità, l’inimicizia, il dissidio, la supremazia e il principio di onnipotenza che emargina o addirittura annienta i più deboli, la fragilità. In una società che incoraggia la competizione economica, il successo del potere, la supremazia dell’arroganza rispetto al dialogo rispettoso e al confronto pacifico, vengono abbandonati princìpi valoriali basati sull’etica, fondati sulla giustizia che stimolano alla solidarietà e alla cooperazione solidale per l’emancipazione personale di ogni singolo e distinto individuo, in quanto portatore di una insita diversità.

Una civiltà, una società, una comunità basate sul principio di potere e di onnipotenza, fondate sul primato dell’economico – in un’ottica massificatrice ed edonistica del tempo libero dove riecheggia l’eco del prestigio del dio denaro in chiave strettamente consumistica e aleatoria, per raggiungere gli scranni del potere con politiche dell’effimero – portano di conseguenza e inevitabilmente, come la Storia insegna, alla esclusione degli infermi, dei deboli, delle minoranze, degli anziani, dei minorati fisici e mentali, insomma dei cosiddetti “diversi”, e persino – come è stato – al loro annientamento.

In base a questi presupposti si deduce che la questione handicap può arricchire una società di valori e princìpi di apertura al dialogo fra diversità, in un “mito” che qualcuno sta vivendo in una nuova civiltà che finalmente vede nel più debole non più un perdente, ma un’occasione per provare e dare amore.

(*) testo e immagine ripresi da PeaceLink

 

 

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