Risposta a Emiliano Brancaccio

di Mauro Antonio Miglieruolo

affinché non vi siano equivoci o fughe nella teoria per sottrarsi alle responsabilità politiche del momento.

Premessa: Brancaccio (qui sotto troverete il testo dell’articolo che ho esaminato) naturalmente ha ragione. Impossibile anzi dargli torto, neppure saprei da dove cominciare per comminargli tale ingiustizia. Devo tuttavia precisare che si tratta di ragione astratta, confinata cioè nel cielo della teoria. Perché a scendere sul terreno propriamente politico, la convinzione che produce in ognuno il suo discorso (che almeno produce in me) tende a vacillare. Non per partito preso, non essendo del partito dei praticoni, per i quali l’azione concreta è tutto e il pensiero e lo studio quasi una perdita di tempo, ma perché, in quanto guida all’azione, la pratica teorica deve comunque misurare la congiuntura e misurarsi nella congiuntura, sapere bene che fare, come farlo e cosa invece non fare: da guida trasformarsi in dogma, barriera che occlude l’orizzonte politico-ideologico.  Precisando subito, per la migliore comprensibilità del testo che segue, oltre che per lealtà nei confronti di Brancaccio, che se il suo grido di allarme in quanto tale è da accettare senza riserve, il modo in cui è formulato costringe a avanzarne più di una.

16otta-ndexTradotto in termini amicali, sto semplicemente affermando, affermazione  valida per qualunque tecnico si avventura, da tecnico, nel buio della pratica politica: attento, rischi di restare impiccato nella corda della tua stessa ragione.

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Nel concreto, cosa ci dice di apprezzabile (e criticabile) Brancaccio? Che il problema di dare maggiore libertà di movimento ai migranti è strettamente connesso a quello di darne meno (di imbrigliare) ai capitali; ma che – conclusione dell’articolo – se non sussisteranno le condizioni per collocare la partita per una più civile legislazione sull’immigrazione in una contesa più generale sulla politica economica, la predizione del “monito degli economisti” sarà confermata: una sempre più vasta prateria di consensi verrà  lasciata all’onda nera dei movimenti xenofobi. Il che, data la pratica impossibilità nei tempi brevi di arrivare a un controllo dei capitali se ne ricava, qualunque sia l’opinione-intenzione di Brancaccio, che sarebbe meglio non farne nulla; poiché eventuali successi sul terreno della libera circolazione della merce forza-lavoro, si ritorcerebbe contro chi quei successi ha conseguito (la generica e inesistente “sinistra”). Giusto e legittimo dunque cercare di intercettare il moto di sdegno che ha attraversato il paese, di fronte alla notizia che i superstiti del disastro di Lampedusa subiranno anche la beffa di essere imputati per il reato di clandestinità(1); sbagliato non collocare quella lotta in una più generale analisi della crisi e in uno sforzo di individuazione delle risposte politiche realmente in grado di fronteggiarla.

Riconosco meritorio (necessario ribadirlo) il suggerimento di considerare i due problemi (circolazione del lavoro e del capitale) come due facce di uno stesso problema, con tutte le conseguenze che sul piano strategico e tattico questa unità comporta; non comprendo invece il perché della rigida subordinazione dell’iniziativa politica alla presenza in essa della capacità di attivare una più generale contesa sulla politica economica.

Non la comprendo perché in pratica sta chiedendo di sottomettere un tema all’altro; un tema di civiltà, oltre che di unità dei lavoratori (tema grandissimo) a uno ancora più grande e problematico, il problema immenso di come arrivare a esercitare forme di controllo efficaci sul capitale (di più riesco solo a vedere la presa del potere e l’avvio del processo di transizione). Seguendo questo schema, per come lo schema è enunciato, l’attività politica si ridurrebbe al nulla dei grandi obiettivi di là da venire; essendo che, a causa dei tempi lunghissimi, tempi storici, di questo divenire, qualsiasi obiettivo parziale potrebbe “rivoltarsi contro”; o con il tempo essere annullato(2). Cioè apparire irrazionale, mera manifestazione di velleità ed estremismo.

 Esattamente, si potrebbe argomentare, quel che sta succedendo in questa fase, in cui giorno dopo giorno il capitale recupera il terreno perduto in un secolo di lotte dei lavoratori. Lotte giustissime, che hanno dato sollievo alle masse e allentato per qualche tempo la tendenza secolare all’aumento dello sfruttamento e dell’oppressione, ma che accettando quest’ottica darebbero, a posteriori, ragione ai moderati che allora vi si erano opposti. La condizione di iniziare una lotta solo a condizione che se ne porti avanti un’altra, più larga e generale, rinunciando alla necessità di sporcarsi le mani (e sporcare la teoria) nel concreto delle situazioni concrete, manifesta qui, partendo da una giusta istanza progressiva, i suoi espliciti risvolti regressivi. Essa comporta la rinuncia, impossibile per un comunista, di essere sempre e comunque al fianco dei lavoratori. Anche quando il piano è quelle delle lotte corporative. Stare al loro fianco per contribuire, con i propri mezzi, alla loro crescita. Avendo ben chiaro in mente che non c’è predica o ragione che tenga: senza iniziative di lotta, senza la sperimentazione nel concreto stesso della lotta dei limiti entro cui essa si muove, non ci può essere scoperta della giusta via; e scoperta della propria forza, delle immense possibilità che la pratica della lotta dischiude. Al loro inizio quasi tutte le lotte dei lavoratori hanno aspetti corporativi (si cresce nella vita, si diventa adulti, mai si nasce tali). Ma è propria la possibilità di un qualsiasi inizio che apre la strada a possibili orientamenti più giusti e efficaci.

IMMIGRAZIONE: A LAMPEDUSA IN NOTTATA ALTRI 310 CLANDESTINIQuesta disponibilità, che era anche uno stare con i piedi ben piantati in terra sulle effettive condizioni politiche dei proletari e loro possibilità di emancipazione, è stata praticata (fortunatamente praticata) nelle fasi altissime in cui – nella teoria e nella pratica – le forze politiche che organizzavano le masse si ponevano il problema e lo ponevano quotidianamente alle stesse, della conquista del potere: non si abbandona il lavoratore arretrato alla sua arretratezza, cioè alla perniciosa influenza del capitale. Se si può, se ci sono le forze disponibili, si sta al suo fianco, lo si sostiene, affinché egli possa vedere la differenza tra i comportamenti degli agenti del capitale, con le loro venature rosa, con i militanti organici al proletariato, con il loro orizzonte tutto interno agli interessi materiali e storici della classe che hanno scelto di servire. In quest’ottica, ad esempio, solo un pazzo avrebbe rinunciato a lasciarsi coinvolgere nella grande stagione di lotte operaie degli anni Settanta in quanto queste erano impossibili da collegarle alla costruzione di organismi di contropotere in fabbrica e nella società. Oppure perché non potevano adoperare la sponda di un partito effettivamente comunista, un partito le cui posizioni reali (non quella dichiarate o statutarie), gli permettessero di guidare le masse stesse contro le istituzioni per costringerle ad aprirsi alle loro esigenze. Per ottenere, ad esempio, una riforma elettorale che facilitasse la rap
presentanza operaia in parlamento (un suffragio universale sbilanciato in favore dei lavoratori all’opposto di quello di oggi che va oltre ogni sbilanciamento, che esclude proprio la possibilità del lavoro di avere una rappresentanza adeguata); per ottenere, altro esempio, la trasformazione delle attività monopolistiche di stato in beni pubblici sottoposti al controllo di organismi effettivamente democratici, sottratti ai maneggioni della politica e sui quali lo stato potesse intervenire esercitando esclusivamente un controllo legale. Obiettivi che, semplicemente perché agitati, costringendo alla difensiva la borghesia, ne avrebbero ritardato di un decennio e forse più la reazione; reazione  che poi  effettivamente si è verificata (inizio degli anni Ottanta – e che dura tutt’ora). Lo stesso “compromesso storico” che prepara la perniciosa “linea dell’Eur” e la rottura verticale con i movimenti (17 febbraio 1977, Università di Roma; nonché la complessa vicenda Fiat, che sindacati e PCI hanno saputo – e voluto – trasformare in rotta dell’intero proletariato) non avrebbe potuto avere la presa che in effetti ha avuto.

Nella prospettiva di oggi, restando ferme tutte le circostanze che hanno determinato le assunzione di responsabilità di allora, la volontà resterebbe ancorata ai medesimi orientamenti “limitati” dei rivoluzionari di quei tempi: apertura di spazi di agibilità in fabbrica; lotte tendenzialmente egualitarie; messa all’ordine del giorno del livello di consumo delle masse ecc. ecc. Anche in assenza di un partito e della necessaria sponda istituzionale di cui ho parlato.

Quello che qui intendo mettere in discussione, per tornare alle obiezioni di Brancaccio, in effetti è l’idea di fondo, imperante tra i moderati, ispiratrice di ogni loro presa di posizione, che esistano obiettivi da non perseguire “sennò è peggio”; idea che onestamente ignoro se sia attribuibile a Brancaccio: so solo che su questa idea ha inciampato. In questi soggetti (socialdemocratici e revisionisti che preparano il terreno all’abbandono di ogni connessione agli interessi operai ecc.) ogni obiettivo che supera il quadro delle compatibilità stabilite suscita immediata paura e avversione; e viene decisamente contrastata o respinta con gli argomenti più vari, dei quali quello centrale è che appunto sarebbe controproducente perseguirlo. O anche solo parlarne. Ma mai è controproducente prodigarsi per favorire i lavoratori. Se mai si può temere la precarietà dei risultati; sapendo che ogni conquista non produce frutti se non produce, essendo stata collocata in una prospettiva politica più larga e decisiva, anche un allargamento della coscienza politica. In ultimissima analisi è solo nella prospettiva della “presa del potere” (espressione fuorviante che qui uso per favorire la brevità del discorso: su di essa, tra rivoluzionari, essendoci volontà di intendersi, facilmente ci si intende) che ogni lotta acquista forza e senso.

Per meglio esemplificare rievoco gli effetti di altre grandi battaglie di quegli anni: chi non ricorda la reazione dei proprietari di case alla legge sull’equo canone? Obiettivo nel quale si è spesa positivamente l’allora esistente “estrema sinistra”. Nonostante i successi che la reazione borghese ha ottenuto nel neutralizzarne gran parte degli effetti, l’obiettivo era giusto ed è stato giusto battersi per imporlo. Giusto anche se la riforma, per vedere stabilizzati i suoi risultati, avrebbe richiesto l’assunzione di altri provvedimenti, gli stessi che non sono stati chiesti (non con sufficiente forza) e quindi non ci sono stati; provvedimenti quali la riforma agraria e una battaglia per il rilancio dell’edilizia pubblica (costruzione di case popolari, la cui maggiore disponibilità avrebbe allentato le tensioni “del mercato” sull’equo canone e il suo sostanziale aggiramento). Lo stesso vale per l’aborto o la legge sull’abolizione dei manicomi, riforme che avrebbero richiesto altre riforme, ma che è stato giusto comunque portare avanti, nonostante le impotenze varie dei movimenti in merito (e stante l’ignavia scontata, alias accattiva volontà, dei partiti dell’arco costituzionale).

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Ma lasciamo il campo del metodo per passare ai più vicini, e gestibili, problemi dell’agire politico. Scontata la connessione tra i due problemi bisogna esaminarli nelle loro differenze per poter arrivare a comprendere come possono essere intrecciati e fino a che punto possa essere realizzato l’intreccio.

Persino a uno sguardo superficiale queste differenze sono visibili. Per questo mi sembra singolare non saltino immediatamente agli occhi di persone intelligenti. Differenze che ineriscono alla loro diversa complessità (differenti difficoltà di gestione) e alle cadenze temporali differenti. Nonché  alle geografie differenti. Il problema dei migranti, infatti, problema mondiale, può trovare soluzioni (parziali) anche a livello locale; quello dei movimenti di capitali invece solo a livello continentale . E forse su un terreno ancora più ampio, quello mondiale. Qualsiasi tentativo locale di esercitare forme di controllo sulla finanza troverebbe immediati ostacoli nell’Europa, le cui strutture sono saldamente in mano proprio ai funzionari delle banche. Per cui restando sul piano nazionale, l’unico dove il residuale agire politico può sperare di incidere, è escluso si possa addivenire a forme concrete di limitazione dell’arbitrio capitalista. Al contrario la disarticolazione o cancellazione della Bossi-Fini e costituisce un obiettivo credibile che non è impossibile si finisca con il conseguirlo in tempi brevi o addirittura brevissimi.

Se la costituzione di un percorso politico di solidarietà (in vista di una futura unità) tra proletari di differenti paesi, riserva non poche difficoltà, rappresentando un percorso percorribile sarebbe criminale da parte nostra non percorrerlo, o solo imporgli la sordina per timore (riprendo Brancaccio) dei soli possibili scontri interni al proletariato. Non si accetta il punto di vista borghese quando non si è in grado di imporre quello proletario. Si portano avanti i propri obiettivi cercando nelle contraddizioni dell’avversario (e nelle mosse dell’avversario) gli elementi utili con i quali riuscire a abbattere gli ostacoli. NON ESISTONO SOLO SOLUZIONI DEFINITIVE E CERTE; anzi queste sono rare (mi azzardo a dire che non esistono): esistono soluzioni provvisorie abilmente modulate in vista della realizzazione di ancor più ampie provvisorie soluzioni. Neppure la “presa del potere” (che non è mero entrare nella “stanza dei bottoni”) può non costituire la soluzione “corretta” e decisiva cercata. Non solo quando il potere non sia stata guadagnato in seguito a un insufficiente lavoro preparatorio, che sia frutto cioè di circostanze storiche favorevoli (vedi Cina: il Partito Comunista Cinese è nato proprio nel e a causa del processo rivoluzionario medesimo, che si è trovato a gestire mentre ancora stentava a esistere); ma anche quando è il frutto di un lungo arare il terreno: come in Russia, dove la rivoluzione è un effetto di venti anni di attività rivoluzionaria  della straordinaria compagine bolscevica, che è riuscita nell’impossibile impresa di dare la scalata al cielo.

In quei tumultuosi e drammatici momenti e in qualsiasi altro della ininterrotta lotta di classe che borghesia e proletariato inevitabilmente pongo in atto, nessun rimando, nessuna condizione (a parte il dovere ineludibile di porsi il problema di allargare l’orizzonte politico ideologico) è giustificato interporre tra i propri slanci di solidarietà e i bisogni dei “poveri” (leggasi: proletari). Si ottempera prima al dovere conseguente all’essere ciò che si è, anticapitalisti e poi ci si solleva all’altezza dei compiti più alti che a ognuno, a seconda delle scelte (menscevichi di sinistra, socialisti riv
oluzionari, bolscevichi, anarchici) spetta assolvere. Lo stesso oggi: si affronta il problema di eliminare le barriere giuridiche crudeli e barbariche elevate contro l’afflusso dei migranti (ponendo – per quel che si può: poco – le soluzioni nel quadro più ampio e complessivo che gli compete); e poi di nuovo lo si affronta e poi di nuovo ancora, cercando di salire la faticosa china dell’ideologia dominante e delle proprie impotenze.

16ottc-ndexAnche perché sarebbe da ingenui ignari non farlo. Non essendo tali norme (quelle contro l’immigrazione) norme  contro i soli immigrati. È bene chiarirlo, sperando sia una volta per tutte: le norme contro l’immigrazione sono norme contro il proletariato tutto. Norme che servono a dividere, stabilendo artificiose differenze; norme che sono utili a far passare una logica repressiva che poi potrà essere adoperata contro altri soggetti; norme quali quelle sui Centri di Detenzione , in realtà galere mal dissimulate nelle quali si entra senza processo, centri costruiti sulla base di orientamenti palesemente in contrasto con la costituzione e tese, oltre a aggirarne le prescrizioni, a screditarne il valore.

Basterebbe questo a giustificare la vera sinistra nella sua lotta contro la bossi-fini (mantenere il minuscolo, per favore). Tuttavia c’è dell’altro che si può invocare a sostegno. Altro di diverso dai tempi lunghi e attualmente utopici del controllo efficace dei movimenti di capitale. Obiettivi difficili da concretizzare (tutto è difficile in questa fase), ma sui quali è possibile esercitare un’azione in grado di dare alle masse un ben diverso obiettivo all’insorgere dei malumori e dei rancori: il capitale medesimo. E subito dopo: i politicanti che rappresentano il capitale, sostenendo falsamente di rappresentare noi. Obiettivi in grado di rovesciare sulla classe dominante la responsabilità, come in effetti è sua responsabilità, di questa feroce oggettivazione della concorrenza tra “poveri”.

Siamo all’essenziale, al cuore di questa confutazione. Alla ricerca di mete, qui e ora, in grado di offrire prospettive unitarie  all’intero proletariato. Che non è né nero, né bianco, né comunitario, né extracomunitario. È l’oggetto unico, purtroppo ancora non solidale, dello sfruttamento e dell’oppressione, sfruttamento e oppressione crescenti, da parte della borghesia. Le sue divisioni interne, la diversità nelle condizioni di vita non sono altro che l’effetto della lotta di classe borghese che ha bisogno della divisione per sopravvivere. Per opprimere e sopravvivere. Ha bisogno della divisione come ha bisogno di non far capire ai suoi nemici quali siano le mosse da fare per superare questa divisione e realizzare quell’unità necessaria per l’emancipazione degli sfruttati e ferale per gli sfruttatori.

Non è impossibile immaginare infatti, prima dei necessari controlli strategici sul capitale (una riflessione e una iniziativa in merito è necessaria: ritengo che persone come Brancaccio possano suggerire come cominciarla e su quali obiettivi indirizzarla), modalità diverse di contenimento dell’immigrazione. Modalità oggettive, non motivate dal rancore e tese a tutelare tutti, non solo i lavoratori “locali”. Il primo e fondamentale tra questi è spingere per maggiori controlli sul lavoro nero, in prospettiva di una sua riduzione a valori residuali; riduzione che mentre abbassa i livelli di concorrenza (= difficoltà a ottenere forza lavoro ricattabile e con remunerazioni molto al di sotto delle necessità di sopravvivenza a cui gli italiani sono abituati), restituisce dignità (e reddito), con la tutela universale del lavoro, a tutti, immigrati e non. Credo sia evidente quale potente mezzo di regolazione dei flussi sarebbe una gestione meno allegra dei rapporti di lavoro. Né è impossibile immagina il furore con cui la Lega, portabandiera nel campo di coloro che usano l’immigrazione come valvola di sfogo per le frustrazioni che le loro dissennate politiche provocano nelle persone, accoglierebbe una tale inversione di marcia sulla “tolleranza infinita” con cui questo stato affronta il problema dell’evasione contributiva (in più di quella fiscale). In quest’ottica, grande impatto avrebbe anche stabilire che il lavoro debba essere, salvo casi determinati e ben precisati dalla legge, nuovamente tutto a tempo indeterminato. La tariffa di tre euro l’ora, tipica in agricoltura e non solo in agricoltura, con cui si osa compensare il lavoro dipendente, diventerebbe così difficile da applicare  o quantomeno diverrebbe meno diffusa; riducendo in questo modo la tendenza dei padroni a favorire gli uni a danno degli altri (con il venir meno di molte delle ragioni del rancore contro gli immigrati). Altrettanto effetto di elisione dei contrasti avrebbe una maggiore disponibilità di case popolari da assegnare a coloro che ne abbiano bisogno. Misura priva di effetti sull’immigrazione, ma tantissimo sull’antagonismo che la scarsità di alloggi produce.

Ma in generale sono tutti i provvedimenti tendenti a imbrigliare i nefasti effetti della tendenza allo sfruttamento, effetti moltiplicati dalla onnipresente anarchia capitalistica, a essere utili per elidere la competività tra proletari e rendere più agevole e umana la regolazione dei flussi migratori. Si tratta qui non solo di rovesciare sui veri responsabili, il capitale e gli agenti del capitale, l’insofferenza crescente per il crescente aumento del disagio sociale; ma anche evitare di seminare sconcerto e demoralizzazione indicando soluzioni tanto lontane dalla reale portata della sinistra attuale e insinuando che diversamente, non affrontando i temi, si finisca pure per fare peggio. Sarà, ma io ai miei doveri di solidarizzare con “gli ultimi” non rinuncio. Piuttosto rinuncio a essere corretto e correttamente restare nella mia ignavia.

Perché tra le tante incertezze, una è certa: che non possiamo aspettare. Né esitare. Né rimandare. Che proprio se aspettiamo ed esitiamo il peggio evocato non potrà essere eluso. Che proprio se non denunciamo le incongruenze e le responsabilità di chi questo stato di cose ha prodotto (responsabilità che non sono, enfaticamente non sono, di chi si oppone utilizzando il proprio punto di vista, per quanto possa apparire limitato), il peggio annunciato troverà spazio per realizzarsi. La catastrofe maggiore non è aiutare i migranti a ottenere più decente ospitalità, ma rafforzare ulteriormente l’idea che debbano essere i proletari quelli a doversi far carico della crisi. Di qualunque crisi. Anche quella relativa all’immigrazione. Per cui, se non si rinuncia a difendere gli uni, inevitabilmente saranno tutti a pagare.

E se invece, lottando e non vedo come altro sia possibile se non con la lotta, affermassimo che è il capitale che deve porre riparo alle proprie malefatte?

***

(1) Non per intercettare un moto di sdegno si muove un comunista, mai; ma perché un determinato obiettivo merita di essere conseguito e perché offre la possibilità di far fare un salto di qualità alla coscienza dei lavoratori. Poi si può anche utilizzare il “moto di sdegno” a fini di mera opinione, ma DOPO. Dopo che il tema sia stato adoperato affinché il “moto” diventi consapevolezza anticapitalistica di massa.

(2) È il peccato in cui volentieri avversari e nemici ci accusano di cadere. Il peccato di rimandare la soluzione dei problemi a un ideale indomani di cui si ignora quando potrà arrivare. Che è esattamente ciò che i praticoni veri dell’attività politica, centristi liberalborghesi o socialdemocratici, effettivamente fanno: rimandare
all’indomani della soluzione della crisi o a provvidenziali “secondi tempi” l’assunzione di provvedimenti favorevoli al lavoro. Rimando che noi rifiutiamo con fermezza di avallare. Perché per noi la proiezione futura delle speranze non è castrazione del progresso di oggi, è suo rafforzamento invece; è coraggio e spinta a porre con decisiva fermezza gli obiettivi che impone la quotidianità dello scontro di classe; e porli indipendentemente dai processi di involuzione-evoluzione del sistema capitalistico.

ECCO IL TESTO DELL’ARTICOLO ESAMINATO

10 ottobre 2013, emilianobrancaccio.it,

 Contestare il reato di immigrazione clandestina senza aprire una  contesa più generale per il controllo dei movimenti di capitale e per un’alternativa di politica economica, costituisce un suicidio politico. Spunti di riflessione per una “sinistra” allo sbando, da tempo incapace di dare coerenza logica alle fondamentali battaglie contro l’avanzata dei movimenti xenofobi e razzisti.

Emiliano Brancaccio

Emiliano Brancaccio

di Emiliano Brancaccio

Pubblicato sul Financial Times il 23 settembre scorso, il “monito degli economisti”  denuncia la mancata volontà delle classi dirigenti europee di concepire una svolta negli indirizzi di politica economica, e individua in tale mancanza una causa delle “ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa” e dei relativi “sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo”.  La recente tragedia di Lampedusa costituisce un esempio terrificante delle conseguenze di questa palese ignavia politica. Il riferimento non è solo al raccapricciante tentativo del Presidente della Commissione europea Barroso di mettere un velo su questa vicenda ricorrendo a una elemosina.  Il problema sta pure nel modo in cui le forze di sinistra si sono lanciate in una battaglia per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina previsto dalla legge Bossi-Fini.

Naturalmente, nessuno qui nega che sia giusto cercare di intercettare il moto di sdegno che ha attraversato il paese, di fronte alla notizia che i superstiti del disastro di Lampedusa subiranno anche la beffa di essere imputati per il reato di clandestinità. Ma bisogna rendersi conto che oggi più che mai la politica non può esser fatta solo di sdegno o di mani passate sulla coscienza. Soprattutto in tempo di crisi, la politica è alimentata in primo luogo dalla volontà dei singoli e dei gruppi di difendere i propri interessi, di dar voce alle proprie istanze. Le forze di sinistra dovrebbero ricordare che siamo nel mezzo di una catastrofe occupazionale che dall’inizio della crisi ha visto crescere i disoccupati di 7 milioni di unità in Europa e di un milione e mezzo soltanto in Italia. Per le forze politiche avverse agli immigrati si tratta di una manna, di un terreno elettorale fertilissimo. Se non si vuole che la lotta contro il reato di immigrazione clandestina si trasformi in un boomerang dal punto di vista dei consensi, occorre allora collocare quella lotta in una più generale analisi della crisi e in uno sforzo di individuazione delle risposte politiche realmente in grado di fronteggiarla.

A questo scopo, bisognerebbe iniziare a fare i conti con il nuovo “liberismo pragmatico” di questi ultimi tempi,  che da un lato difende a spada tratta la deregolamentazione finanziaria e la relativa, completa libertà di movimento internazionale dei  capitali, e dall’altro lato asseconda aperture alternate a repressioni sul versante delle migrazioni di lavoratori. Il problema è che fino a quando i capitali potranno liberamente spostarsi da un luogo all’altro del mondo, la quota del prodotto sociale attribuita ai profitti e alle rendite resterà indipendente e quindi prioritaria rispetto alla quota destinata al lavoro. Prima che arrivino a intaccare seriamente i profitti, le eventuali pressioni salariali e fiscali verrebbero infatti inibite dalla minaccia di una fuga dei capitali all’estero. Per i lavoratori residenti, dunque, sotto queste condizioni non ci saranno molte possibilità di influire sulla distribuzione del prodotto sociale. Essi saranno costretti a ripartire con gli immigrati una parte residuale della produzione. Questa ripartizione del residuo evidentemente rischia di scatenare la più classica guerra tra poveri, specialmente in una fase in cui la produzione cade o ristagna. Scopo dei reati di clandestinità e dei controlli repressivi alle frontiere può allora consistere nel tenere questa guerra a un livello di bassa intensità. Queste misure assumono cioè il ruolo di “cuscinetto” tra nativi e stranieri, che può essere sgonfiato o meno a seconda delle circostanze, e che permette di gestire lo scontro tra lavoratori interni ed esterni secondo i fini prioritari della riproduzione del capitale.

Qualcuno avrà forse notato che nel ragionamento suddetto non vi è spazio per alcuni tipici luoghi comuni della politica corrente, come quelli secondo cui «l’immigrazione è indispensabile alla nostra economia» oppure «gli immigrati, in quanto giovani, sono gli unici in grado di evitare il collasso del nostro sistema previdenziale». Queste affermazioni trovano il loro appiglio nei teoremi della economia neoclassica dominante, dai quali scaturisce il fantasioso convincimento secondo il quale la disoccupazione non esiste, e quindi l’immigrato contribuisce automaticamente alla crescita del prodotto sociale. Per quanto costituisca tuttora uno degli alibi preferiti da parte dei policymakers europei, questa tesi è priva di fondamento, è  smentita dai dati empirici e dai fatti storici. Né vale la tesi della teoria mainstream più recente, secondo cui i mercati del lavoro sarebbero segmentati, per cui il lavoro svolto dagli immigrati sarebbe complementare e non si sostituirebbe mai a quello dei nativi. La verità è che in condizioni di libera circolazione dei capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo la  volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione,
della composizione e del livello della produzione e dell’occupazione. In un simile contesto l’immigrato non costituisce di per sé un fattore di crescita della ricchezza. Piuttosto, è la dinamica capitalistica a determinare il suo destino, ossia il suo impiego in aggiunta oppure in sostituzione – e quindi in competizione – con i lavoratori nativi. Bisognerebbe insomma guardare in faccia la realtà, e abbandonare sia gli alibi della teoria dominante sia le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli ultimi epigoni del negrismo. Il migrante, infatti, non rappresenta necessariamente né una “forza produttiva” né una “forza complementare” né tantomeno una “forza sovversiva”, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali.

Alla luce di quanto detto, dovrebbe esser chiara un’esigenza: alle giuste mobilitazioni contro il reato di immigrazione clandestina bisognerebbe affiancare, in primo luogo, il rilancio delle proposte finalizzate al controllo politico dei movimenti di capitale. Dove per controllo dovrebbe intendersi il ridimensionamento dei mercati finanziari e il riassorbimento, nell’ambito della dialettica politica, della questione cruciale del riequilibrio dei conti esteri. Il ripristino di una rete di controlli sui capitali è una delle condizioni necessarie per impedire che lo scontro distributivo e occupazionale continui ad esprimersi solo tra i lavoratori, in  particolare tra nativi e migranti. Potremmo affermare, insomma, che se l’intenzione fosse davvero quella di “liberare” i migranti allora bisognerebbe
iniziare ad “arrestare” i capitali, ad imbrigliarli cioè in un sistema di controlli simile a quello che sussisteva fino agli anni ’70 del secolo scorso [1]. Se non sussisteranno le condizioni per collocare la partita per una più civile legislazione sull’immigrazione in una contesa più generale sulla politica economica, la predizione del “monito degli economisti” sarà confermata: una sempre più vasta prateria di consensi verrà  lasciata all’onda nera dei movimenti xenofobi.

Emiliano Brancaccio

[1] Per approfondimenti, si rinvia al capitolo “Contro il
liberoscambismo di sinistra”, in Emiliano Brancaccio e Marco
Passarella, “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa”, Il
Saggiatore, Milano 2012.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Nessun essere umano deve essere considerato straniero o clandestino in nessuna parte della terra.
    E’ questo l’ obiettivo strategico. Brancaccioe ha paura dell’ approfondirsi delle contraddizioni. Ma questa e’ la conditio sine qua per la rivoluzione, che necessariamente non deve ripercorrere strade già percorse, quella della rivoluzione, sovietica, cinese od altre. Brancaccio fa il suo mestiere di ritagliarsi una nicchia di mercato per vendere i suoi libri dove predica e ripete il mantra non e’ sufficente, non e’ sufficente. Personalmente lo lascierei alle sue polemiche con La Grassa, che tra l’ altro sembra non gli risponda.

  • LEGGO IN RETE QUESTO COMMENTO DI DOMENICO STIMOLO E LO POSTO con la poesia di iGNAZIO BUTTITTA da lui ritrovata

    I vivi e i morti
    I VIVI. Enrico Letta, presidente del Consiglio: 9 ottobre, ore 12.25, solenne pubblica promessa in conferenza stampa – puntati gli occhi del mondo -, presente il Presidente della Commissione Ue Manuel Barroso : “ la decisione che posso qui annunciare è che sarà funerale di Stato quello che riguarda le vittime di quello che è avvenuto…….”
    I MORTI. Trecentosessantatre, affogati a pochi centinaia di metri da Lampedusa. Proprio in questi giorni è iniziata la tumulazione delle salme in diversi cimiteri siciliani…..in ordine sparso.

    I morti ripartono, in silenzio e in “clandestinità”. Non hanno ricevuto discorsi, fanfare, bandiere, stendardi e benedizioni.

    La promessa è stata vacua! Vanamente consumatosi in pochi giorni.

    Da buon “veggente”, il sommo poeta siciliano Ignazio Buttitta lo scrisse in versi:
    “L’emigranti ripartono”

    Ottu jorna di festa Otto giorni di festa

    e ora si vannu e ora se ne vanno

    ca non è chiù Natali perché non è più Natale

    e mancu Capudannu e nemmeno Capodanno

    Ritornanu nta vivi Ritornano nella neve

    unni c’è negghia e scuru, dove c’è nebbia e scuro,

    unni sunnu chiamati dove son chiamati

    e c’è un patruni strania e c’è un padrone straniero

    e c’è un travagghiu duru e il lavoro è duro

    Unni sunnu chiamati Dove sono chiamati

    pi ncìuria, terroni, per offesa, terroni,

    e l’òmini da Sicilia e dicono che noi siciliani

    non semu genti boni. non siamo gente buona.

    E partinu cu suli E partono con il sole

    nto trenu senza suli su un treno senza sole

    cu cori chi ci chianci con il cuore che gli fa male

    e un gruppu nni li guli e un groppo nella gola.

    Nto trenu senza suli Sul treno senza sole

    cu cori chi ci chianci col cuore che gli piange

    “ Addiu bedda Sicilia, “ Addio bella Sicilia,

    oh terra mia d’aranci! Oh terra mia d’arance!

    Oh terra mia d’aranci Oh terra mia d’arance

    d’aranci e di canzuni; d’ arance e di canzoni;

    u latti mi lu dasti il latte me l’hai dato

    ma pani un mi nni duni!. Ma il pane me l’hai tolto.

    Partinu a la vintura; Partono alla ventura;

    i trenu sunnu chini; i treni sono pieni;

    i manu chi salutanu le mani che salutano

    fora di finistrini. stanno fuori dai finestrini.

    Salutanu l’amici, Salutano gli amici,

    i matri e i picciriddi; le madri ei bambin;i

    e i stazioni o scuru le stazioni sono al buio

    e u celu senza stiddi. e il cielo senza stelle.

    Pari ca fussi a guerra Come ci fosse la guerra

    e iddi si u surdati e loro sono i soldati

    ca vannu a fari a guerra che vanno a fare la guerra

    chi zaini affardillati con gli zaini affardellati.

    Surdati disarmati Soldati disarmati

    e senza distintivi e senza distintivi

    ca partinu e non sannu che partono e non lo sanno

    si tornanu fra i vivi se tornano tra i vivi.

    Pi armi hannu i vrazza Per armi hanno le braccia

    e hannu i caddi e manu; hanno i calli alle mani;

    a patria non hannu la patria non hanno

    e né travagghiu e pani. che dia lavoro e pane.

    I vrazzi e i caddi hannu Hanno le braccia e i calli

    e i carini forti hanno le schiene forti

    pi fari i casi a l’àutri, per fare le case agli altri,

    palazzi e aeroporti. palazzi e aeroporti.

    Pi costruiri scoli Per costruire scuole

    fabbriche e arsenali fabbriche e arsenali

    autostradi, ponti autostrade, ponti

    grattaceli e spitali. grattacieli e ospedali.

    Pi l’autri, i terroni, Per gli altri, i terroni,

    a carni siciliana, la carne siciliana,

    nto furnu du travagghiu nel forno del lavoro

    sdivaca sangu e scana. Versa sangue e impasta.

    E cu l’occhi di figghi E con gli occhi di figli

    vidinu i luntanu vedono da lontano

    a Sicilia mpiccata la Sicilia impiccata

    e si mùzzicanu i manu. e si mordono le mani.

    da “Il poeta in piazza” Feltrinelli ed. 1974

    (postato in rete da Domenico Stimolo)

  • Il mio dubbio è se dobbiamo immischiarci in queto ciarlare di cambiare o eliminare la Bossi -Fini. Comunque si tratta di cambiarla, non di instaurare la libera circolazione al di là dei confini. Pare anche a me strano chiedere di occuparsi prima del capitale per non attirarsi le ire del proletariato (tra l’altro non comprendo questo porsi al di fuori, quasi il non appartenere a questa classe).
    Quello che chiedo è se sia opportuno perdere tempo in questa diatriba. La questione viene posta in particolare da due fazioni:
    1) i vari Letta, Napoitano, Turco e loro confratelli e consorelle. Insomma i fautori di questo sistema bestiale.
    2) i professionisti del soccorso umanitario, coloro che hanno legato in un abbraccio mortale la possibilità della loro esistenza a quelli del punto 1. Dipendono da questo sistema come un neonato dalle mammelle della madre.
    Lasciamo a loro questa battaglia, non diamo loro man forte, di questo ce ne pentiremo perché dal cambiamento della Bossi – Fini non potrà che uscirne una legge ancora più bestiale, e questa volta giustificata dal voler essere umanitari e quindi ancora più difficilmente attaccabile. Un esempio è la richiesta di chiarimenti di Amesty Italia circa la vile operazione Mare Nostrum: appellandosi al governo e all’Unione Eurpea per fermare la strage, si è ottenuto un risultato peggiore. Amnesty, i cui dirigenti dipendono dai contributi di Governi e Partiti non può fare altro che sollevare dubbi. Non riduciamoci a chiedere che i passeggeri dei treni verso lo sterminio ottengano condizioni di viaggio più umane.

    • L’ abolizione della Bossi Fini significa un passo in avanti verso l’ abolizione del reato di clandestinita’. In questa prospettiva va intesa l’ azione per abolizione della Bossi Fini.

    • Ringrazio Rom Vunner, per ringraziare tutti quelli che hanno dedicato il loro tempo prima alla lettura e poi al commento dell’articolo. Intendo precisare però che nel mio criterio non esistono argomenti sui quali non vale la pena intervenire; esitono obiettivi dei quali non abbiamo la possibilità di farci carico. Quello sull’immigrazione, qualunque sia il livello della nostra impotenza, non è tra quelli che possiamo ignorare. Sui quali invece è obbligatorio adoperare il massimo di energia per mantenere in piedi tracce di una presenza di sinistra.
      Contrastare le leggi sull’immigrazione: ma non a condizione, come sembra adombrare Brancaccio, che questi immigrati rappresentino quacosa di ideologicamente (e umanamente) gradevole e politicamente corretto; almeno non è così nella mia opinione. Perché io non sono con loro, gli immigrati, perché neri o gialli o verdi (del mio colore quando soggetto a disturbi intestinali); o perché soggetti di cui servirsi per innestare lotte progressiste. Io sono con loro perché a loro viene fatta ingiustizia e valuto questa ingiustizia grave e imperdonabile; perché sono lavoratori e esseri umani sui quali viene esercitata una violenza che la mia coscienza respinge e spingerebbe me nel baratro della complicità se non levassi la mia voce per protestare, per stigamitizzare, per denunciare e chiedere di farla finita, poiché non se ne può più dell’inciviltà e dalla barbarie imperante paludata di belle parole.
      Sia chiaro che io sono con loro perché sono per ME, sono qui a difendere la MIA dignità e a tutelare la MIA coscienza di libero, responsabile cittadino.
      Anche semplicemente con una mezza paginetta di parole.

      • “io sono con loro perché sono per ME, sono qui a difendere la MIA dignità e a tutalare la MIA coscienza di libero, responsabile cittadino.”
        concordo pienamente

  • @Francesco Cecchini, Brancaccio se ne frega di vendere libri. E quando è intervenuto su La Grassa lo ha fatto una volta e bene, per mettere in evidenza la deriva fascistoide che caratterizza certi affrettati liquidatori di Marx. Quanto a te, se pensi di potere replicare con un ridicolo imperativo categorico kantiano alla ferrea logica storico-materialista di Brancaccio, è meglio che torni a studiare e che se ne riparli quando avrai qualche nozione di marxismo in più. Di marxismo, mi raccomando, e non delle buffonate di Toni Negri e dei suoi accoliti.

    Restiamo sul punto. Miglieruolo risponde con onestà a Brancaccio. Il punto però è che secondo me Brancaccio non vuole affatto bloccare i processi di ricivilizzazione delle norme sull’immigrazione. Vuole però denunciare con forza il totale silenzio sui movimenti di capitale. Su questo ha TOTALMENTE ragione. Anziché girarci intorno, dovremmo interrogarci su questo silenzio, anche alla malandatissima estrema sinistra dello spazio politico.

    Saverio

    • Prof. Brancaccio fa bene a fregarsene di vendere libri, sembra che anche le sue dispense di economia politica o meno all’ Università del Sannio non circolino molto. Prof . Brancaccio più che un ferreo storico materialista e’ un keynesiano dei giorni d’ oggi. Uno che afferma che la decrescita felice può funzionare se pianificata dallo stato ed altre cose del genere.
      Comunque sono convinto che Prof. Brancaccio vada letto come vada letto Latouche, La Grassa, Toni Negri e Michael Hardt. Perfino Preve benche’ se francese voterebbe Le Pen.
      Sono convinto che lo studio debba essere un’ attività permanente di un comunista. Sto studiando.
      Colgo l’ occasione per ribadire quello espresso in una mia nota precedente. Sono d’ accordo, a parte l’ entusiasmo quartinternazionalista, con quanto affermato nell’ intervista dal compagno del Partito per l’ Alternativa Comunista. Confermo che per me gli obiettivi di abolizione della legge Bossi Fini e del reato di clandestinità e l’ opposizione all’ operazione mare nostro sono obiettivi sui quali costruire un ampio fronte di lotta senza necessita’ di mescolarsi al ” keynesianismo” di Prof. Brancaccio. Quanto alla ” kantiana” (sic!) affermazione che nessun essere umano deve essere considerato straniero o clandestino in nessun luogo della terra. E’ questa una parola d’ ordine che si sta facendo strada nel movimento di lotta. Comunque quando sarà realizzata vi sarà assieme ad altre condizioni una società egualitaria, il comunismo insomma. Chiudo affermando che non ho nessuna intenzione di leggere eventuali commenti di Lorenzo ne tanto meno di rispondere a questi. Quindi ti prego, Daniele di non notificarmi niente proveniente da Lorenzo.

  • Grazie di nuovo Rom Vunner. E permettemio di aggiungere (l’argomento è infinito) contro la lega che NON si tratta di aiutare gli immigrati nel loro paese d’orgine: questo impietoso “aiutare” nei paesi d’origine pertiene a tutt’altra materia, quello della lotta allo sviluppo ineguale e allo scambio ineguale, tema altrettanto prezioso, ma non nel senso auspicato dalla lega, che li vuole aiutare là per meglio fregarli; si tratta invece di aiutarli qui con modalità nuove, altrattanto inconcepibili per i partiti “democratici”. Aiutarli senza elevare barriere, ma promuovendo l’eguaglianza tra i proletari, costruendo un fronte unico di lavoratori aventi gli stessi diritti e perciò i medesimi obiettivi. Aiutarli qui per aiutare i lavoratori tutti, anche quelli di qui.
    Per non lasciare che i padroni creino un proletariato depauperizzato che assuma il ruolo oggettivo di quinta colonna contro il resto dei lavoratori. Progetto che non è solo della lega o della destra, ma di quasi tutte le forze politiche presenti in parlamento.

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