Risposte nella città?
Nella 161esima puntata di «Ci manca(va) un Venerdì» tenete d’occhio Calvino, Heine, Simonide, Žeželj, tre cantanti italici … e persino uno sconosciuto pittore del Rinascimento
di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia
Letteratura e vagabondare spesso proseguono di pari passo. Potrebbe testimoniarlo questa riflessione di Italo Calvino: «Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».
Se è vero che dalla meraviglia nasce la filosofia – come amava dire Aristotele – forse dal vagabondare e dal contemplare la natura (solo di metallo e cemento?) delle nostre città più moderne sorgono spontanee quelle domande universali che prima o poi arrivano a stuzzicare il nostro raziocinio. Più o meno le “solite” domande, come amava definirle Immanuel Kant: cosa posso sapere? Cosa posso sperare? Che cosa devo fare?
Ha senso dunque interrogare il reale? Anche quando sembra puntuale solamente nel darci bastonate? Tanto che oggi di moda l’hashtag #maiunagioia…
Lo scrittore tedesco Heinrich Heine colpisce duro: «L’esperienza è una buona scuola ma le sue rette sono le più care».
Il poeta greco Simonide sembra far eco al vagabondo Calvino: «La città è la maestra dell’uomo». Mentre Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, reduce – vittorioso? – dal suo Jova Beach Party, canticchia: «La montagna è piena di insidie / la città è piena di invidie».
Un suggerimento parriva dall’illustratore e pittore croato Danijel Žeželj: «Amo le città, le strade, gli edifici, le finestre, i balconi, i muri, le strutture… La città è un concentrato di energia umana sul punto di esplodere. È lo scontro fra il vecchio e il nuovo dove passato, presente e futuro sono compressi in un blocco unico. L’architettura per me è un simbolo. Rappresenta lo spirito del tempo, pietrificato nei muri e nelle finestre, fluido invisibile racchiuso nella pietra da misure, proporzioni e forme: gli edifici sono dei perfetti romanzi fatti di pietre e spazi vuoti… ma alla fine è l’energia umana, sono le vite vissute dietro queste pareti che conferiscono loro bellezza».
Italo Calvino sembra trovare in Žeželj un abbraccio fraterno: le città sono coacervi di energia umana pronta a svilupparsi in tutta la sua potenza, dove ritrovare noi stessi persino nel brulicare chiassoso del traffico, dei fumi, delle pareti di metallo, dei miseri edifici fatiscenti dimora dei diseredati, dei labirinti senza fine ritmati dai passaggi ciclopedonali (a proprio rischio?) e ancora dei semafori, degli angoli puzzolenti come latrine a cielo aperto, dei tombini otturati, della pioggia che batte quasi per pulire ferite infette.
La città può essere una musica pietrificata di cui non sentiamo più il ritmo pulsante, come cantava Antonello Venditti: «C’è rabbia al confine di questo quartiere, se esci di casa lo puoi respirare». Con l’eco di Maurizio Vandelli: «Un deserto che conosco».
Deserti, labirinti, rabbia che avvelena e/o ventre materno che tutto accoglie ma con altrettanto amore punisce. Sembrano i simboli del’anima umana, figli più della speculazione edilizia selvaggia che di un piano regolatore ben strutturato ed “ecosostenibile”.
In tutto questo esce malconcia la natura con la N maiuscola.
Ma alla fine ci arriva in aiuto, come un colpo di coda da ultimo ritornello, quel folle poetaccio di Walt Whitman: «Una grande città è quella che ha gli uomini, le donne più grandi, / anche con poche meschine capanne resta la più grande città della terra».
«La Città ideale», che illustra codesto post, è una tempera su tavola di autore sconosciuto, databile tra il 1470 e il 1490: si trova a Urbino nella Galleria Nazionale delle Marche ed è considerata una delle immagini simbolo del Rinascimento italiano.