Roma e i barbari

di Romano Mazzon

Partiamo da un finale.

Per farla finita.

È inutile cercare di insegnare a parlare a chi non ha una lingua. È inutile spaventarsi di fronte a suoni gutturali e a gesti inconsulti. È inutile proporre mediazioni a chi vuole l’impossibile. È inutile implorare libertà a chi impone schiavitù. Lasciamo la pedagogia ai due emissari, assieme al loro spirito poliziesco e missionario. Che i barbari si scatenino. Che affilino le spade, che brandiscano le asce, che colpiscano senza pietà i propri nemici. Che l’odio prenda il posto della tolleranza, che il furore prenda il posto della rassegnazione, che l’oltraggio prenda il posto del rispetto. Che le orde barbariche vadano all’assalto, autonomamente, nei modi che decideranno, e che dopo il loro passaggio non cresca più un parlamento, un istituto di credito, un supermercato, una caserma, una fabbrica. Di fronte al cemento che prende a schiaffi il cielo e all’inquinamento che lo sporca si può ben dire, con Déjacque, che “Non sono le tenebre questa volta che i Barbari porteranno al mondo, è la luce.”

La distruzione dell’Impero difficilmente potrà assumere le consuete forme della rivoluzione sociale, così come ci è dato di conoscerle dai libri di storia (la conquista del Palazzo d’Inverno, la reazione popolare a un golpe, lo sciopero generale selvaggio).

Non ci sono più nobili Idee in grado di smuovere grandi masse proletarie, non ci sono più dolci Utopie pronte ad essere fecondate dai loro amanti, non ci sono più radicali Teorie che aspettano solo di essere messe in pratica. Tutto ciò è stato sommerso, spazzato via dalla melma imperiale. C’è solo il disgusto, la disperazione, la ripugnanza di trascinare la propria esistenza nel sangue sparso dal potere e nel fango sollevato dall’obbedienza. Eppure è in mezzo a questo stesso sangue e al fango che può nascere la volontà – confusa in alcuni, più nitida in altri – di farla finita una volta per sempre con l’Impero ed il suo ordine letale. (pag. 67-68)

Sono le conclusioni di “Barbari. L’insorgenza disordinata”, un libercolo stampato nel 2002 da Impremiere Générale de Chatillon sur Seine, a firma di Crisso e Odoteo. Un libercolo che critica le posizioni del ben più famoso Impero di Hardt Michael e Negri Antonio pubblicato da BUR sempre nel 2002. Quando questi libri escono è passato un anno dai fatti di Genova.

Non so se gli autori di Barbari si riconoscano o meno nei Black Block di quel luglio 2001, se utilizzino termini anglofoni per definirsi o se quel termine sia più che altro un format giornalistico. Fatto sta che rivendicano la desiderabilità di gesti propri di quel blocco nero: bruciare le banche e devastare ogni simbolo dell’Impero. Ovviamente quella che riporto è una citazione e come ogni citazione si presta a diverse interpretazioni ma il nichilismo legato all’assenza di una qualsivoglia prospettiva diversa che lascia come unica soluzione la distruzione, traspare da queste poche righe.

Certo una distruzione simbolica, sia a Genova nel 2001 che a Roma nel 2011. Ciò che viene colpito sono appunto oggetti, spazi, ritenuti simbolo dell’Impero, non vi è alcun assalto ai palazzi del Potere, non è possibile nemmeno soppiantarlo, l’unica soluzione appare il caos, l’assenza di potere come comunque migliore di questo potere.

Non esiste un’organizzazione, esiste più che altro una massa in cui ognuno esprime la propria soggettività. Non vi è alcun richiamo a forme assembleari o a riunioni organizzative, ciò che appare postulato è l’esistenza di una forza distruttrice che in alcuni è più o meno legata ad una critica dell’esistente e in altri è una forza primitiva di annientamento del prossimo, un malessere non compreso.

Non si parla qui di teorie partecipative, Habermas e il suo spazio pubblico non vengono considerati. Non si parla di “occupare le stanze dei bottoni”. Non si parla del mondo che si vuole, si esprime l’insostenibilità del presente e l’emergenza della sua distruzione.

Un po’ il ragazzo biondo, novello gesù bambino, fotografato mentre a volto scoperto si cimenta in atti verso la polizia. Atti emulativi, appresi non in piazza ma alla tv, che in quel momento gli paiono congrui: se non danno un nome al suo dis/sentire almeno lo mettono in atto.

Una visione un po’ all’Heidegger e alla sostanziale differenza tra essere e essere nel mondo, non una semplice presenza ma la manifestazione della propria presenza nel mondo. Certo da questo manifestare la propria presenza, slegato da una qualunque etica di riconoscimento dell’altro come pari, ne esce velocemente il nazismo, e infatti il nostro filosofo plagiava le giovani menti tedesche insegnando vestito da gerarca nazista. Il nazismo dovrebbe aver insegnato che il fare, legato ad un’analisi dei mezzi e dei fini, un modello puramente gestionale non legato al riconoscimento dell’altro, diviene in brevissimo tempo sterminio. Eppure è proprio contro un mondo in cui tutto appare legato solo ad una fredda analisi di costi e benefici che i novelli barbari dichiarano di andare, contro lo sterminio che questo Impero impone quotidianamente. Semplicemente non vedono altra alternativa rispetto all’esistente se non distruggerlo.

Qui sicuramente un richiamo va fatto al situazionismo e alla sua idea di arte e rivoluzione. Le distruzioni inscenate sia a Genova che a Roma assumono spesso la forma della performance e, come tali, vengono documentate o lasciate documentare. La partecipazione si manifesta in quell’atto, in quel gesto. Per il resto la persona si mimetizza, proprio come scrisse Husserl ne “Il trattato del ribelle”: sparito il tradizionale bosco in cui il ribelle poteva nascondersi ecco la necessità di divenire invisibili mascherandosi nella quotidianità. Nuova prospettiva del ribelle quella di possedere un’utilitaria e avere un lavoro. Ovviamente quando il libro uscì non c’erano ancora le possibilità attuali di controllo attraverso telecamere e simili ma il senso appare rimanere il medesimo. Quindi non una divisa che renda riconoscibili, non vessilli da portare orgogliosamente ma il mischiarsi alla folla, alla folla indifferenziata che anima le città o le manifestazioni. I vessilli e la divisa fanno parte della rappresentazione, della performance, e compaiono solo in quel momento, abiti di scena.

La creazione di questa nuova categoria degli incappucciati: la felpa con cappuccio è uno degli indumenti più diffusi, è solo quando il cappuccio serve a riparare durante gli scontri che quell’indumento definisce gli incappucciati, per il resto è un simpatico accessorio a basso costo distribuito in anonimi magazzini.

Esistono diverse forme di partecipazione a manifestazioni tramite performance artistiche. Forse non tanto conosciute e praticate in Italia. A questo proposito si possono segnalare degli articoli apparsi sulla rivista A nel 2010 a proposito di mediattivismo e comunicazione-guerriglia rintracciabili nella versione online della medesima rivista. L’analisi parte dall’osservazione di alcune situazioni durante il Cop 15 a Copenaghen nel 2009:

Durante il Cop15, vertice mondiale svoltosi a Copenhagen a metà dicembre 2009, si sono susseguite manifestazioni e azioni per protestare contro le finte politiche eco-green dei grandi potenti. Per le strade la presenza della “Pink Samba Band” è stata determinante in molte situazioni e spesso si è riusciti a creare momenti e scenari imprevedibili e in continua evoluzione, cogliendo alla sprovvista la polizia danese e non solo...” (A , rivista anarchica anno 40 n. 352, aprile 2010).

Sono gesti difficili, ti butti in mezzo agli scontri. Esistono i gruppi di Samba, Capoeira, e via dicendo. Anche questi hanno un atteggiamento nichilista, non promuovono un rivoluzione sociale ma l’annientamento del sistema attuale. Per farlo utilizzano un diverso canovaccio rispetto a quello che prevede di spaccare vetrine e bruciare auto.

A questi gruppi che potremmo definire “più consapevoli” c’è da aggiungere tutto quel gruppo di persone che sembra uscito da un testo dei Sex Pistols “I don’t know what I want but I know how to get it: I wanna destroy”. Ragazzi che sanno che così non va. Escono dal punk dei Sex Pistols (ci vogliono anni prima che i messaggi diventino cultura) e anche qui la rappresentazione teatrale ha un ruolo determinante. Quando si trovano nello scenario giusto possono reagire come a Roma, unendosi ingenuamente agli scontri, oppure esprimersi con atti di violenza indifferenziata, anche contro sé stessi, alla cazzo. Meglio del silenzio accondiscendente.

Dopo i fatti del 15 ottobre molto si è speso nel giudicare questi atti che però sono rappresentazioni, canovacci. Nelle analisi fatte manca una possibile alternativa al nichilismo della distruzione. Ossia una chiarezza su cosa si voglia proporre, si intende mantenere l’esistente contrattando alcune migliorie? Si vuole cambiare il mondo verso un progetto di sviluppo diverso? E in entrambe i casi, come lo si intende fare? Attraverso una cogestione con gli attuali detentori del vero potere? Attraverso un rovesciamento per far salire al potere altre forze? Come?

Mi pare che se non si risponde a queste domande rimane solo un accerchiare il potere nella speranza che qualcosa succeda, che qualcuno faccia succedere qualcosa, un qualcuno che non si sa bene chi e un qualcosa che non si sa bene cosa. In questa indeterminazione segno, significato e significante divengono liberi, una grande possibilità certo ma anche la fine della rivoluzione e lo spazio per l’insorgenza disordinata richiamata dagli autori di Barbari.

Rom Vunner

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