ROSSANA ROSSANDA e la salvatrice BELLEZZA DEL MONDO

 

ROSSANA ROSSANDA

 

“E’ STATA LA BELLEZZA

DEL MONDO A SALVARMI 

DAL FALLIMENTO POLITICO”

 

Intervista di Antonio Gnoli

la Repubblica – 1 febbraio 2015

 

 

Nella sua casa di Parigi la fondatrice del manifesto ricorda incontri e incomprensioni, amici ed avversari, delusioni e grandi sogni vissuti con il partito comunista

  Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l’avere il sopravvento sull’immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po’ rassegnata e un po’ incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l’amore è stato un’esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato », dice.

Quando vi siete conosciuti esattamente?

«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur. Quell’anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese».

Collera perché?

«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico».

Cosa?

«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi».

Ma non era comunista?

«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere “Louis Aragon”! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».

 Lei come è diventata comunista?

«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all’insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l’avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo ».

E lei?

«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?

«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c’era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».

Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.

«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».

Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.

«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».

Ma anche una linea da osservare.

«Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».

Con chi si è complicata la vita?

«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L’aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».

Pensava di essere nel giusto?

«Pensavo che l’Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato ».

Quell’anno alcuni restituirono la tessera.

«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».

Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.

«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all’Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti».

Dove?

«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest’ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l’un l’altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».

Foucault aveva sparato a zero contro l’esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l’erba sotto i piedi».

Ha conosciuto Foucault personalmente?

«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un’intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l’Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno».

Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.

«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un’amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt’altro modo».

Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.

«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis».

Quale malattia?

«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all’incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci».

Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.

«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».

A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?

«Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane».

Tra le figure importanti nella sua vita c’è stata anche quella di Luigi Pintor.

«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme».

Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?

«Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall’Italia non sono stati rovinati».

Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?

«Ho una certa invidia per le mie amiche — come Margarethe von Trotta — che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un’altra».

Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?

«Non ho più un’idea di Dio dall’età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio».

Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?

«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».

Il rapporto con suo padre come è stato?

«Era un uomo all’antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C’era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell’impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent’anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola».

Dove lei è nata?

«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po’ strana».

Si riconosce un lato romantico?

«Se c’è si ha paura di tirarlo fuori. Non c’è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell’innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro».

Come vive il presente, questo presente?

«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita».

Ha mai pensato di tornare in Italia?

«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe».

È l’orgoglio che glielo impedisce?

«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh».

E le sue radici: Pola? L’Istria?

«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me».

11mar4rossana-rossanda pubblicata su la Repubblica di domenica 1 febbraio 2015

***

Inzio con una confessione. Rossana Rossanda è l’unica tra le personalità politiche che si sono formate nel vecchio partito comunista (parlo di quelle ancora in vita) che avrei piacere di consocere per poterle esternare affetto e gratitudine. Ed è anche l’unica che desidererei intervistare. Mi muovo poco, anzi pochissimo, ma a Parigi ci andrei volentieri per poterle parlare.

Effettuato questa sorta di outing politico, mi concedo di effettuare alcune osservazioni sull’intervista medesima. Inizio dall’invidia che la compagna Rossanda, per dirla all’antica, manifesta per Margarethe von Trotta e le amiche “che hanno fatto cinema”. Ammissione alla quale fa seguire il commento: “In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito.” No, compagna Rossana, il tuo lavoro non è sparito ed è valido quanto e più di quello di molti ottimi cineasti. Il libro del tuo lavoro è rimasto inscritto nella coscienza di migliaia di militanti e in quella collettiva di quel po’ di movimento comunsita sopravvissuto all’alluvione del liberismo. Qualcosa di quella tua attività risorgerà (a breve) con l’inevitabile risorgere dell’opposizione di classe.

In proposito rimando a un post sull’immortalità, ispirato proprio dall’osservazione di Rossana Rosanda, che troverete IVI il prossimo mercoledì 25 febbraio.

Finisco con quella realtiva a Louis Althusser e alla svalutazione degli scritti pubblicati dopo la morte del filosofo. Osservazione di vecchia militante, cresciuta all’interno di una formazione ideologica-politica che, in molti aspetti, aveva adottato visioni del mondo pre-marxiane. Tra le quali spiccano volontarismo e determinismo. Non rimprovero Rossana Rossanda per essere quella che è stata, una militante chiusa nella gabbia dello revisionismo terzointernazionalista (in quella gabbia per lunghi anni mi sono autoimprigionato anche io). Considerato le circostanze in cui è stata costretta a operare, ha saputo emanciparsene quel che bastava per concepire un’altra politica, una diversa concezione della militanza e dell’intellettuale collettivo (il Partito). Coraggio e flessibilità che molti non hanno avuto e che è bastato a aprire la strada ai tanti che, dopo di lei e con minore efficacia, hanno tentato di aprire ulteriormente le strade, a beneficio del proletariato italiano (purtroppo non “con” il proletariato italiano).

Questa seconda parte della nota è data per invitare i lettori interessati alla ricostruzione ed ulteriore evoluzione del marxismo di leggere proprio queste opere pubblicate postume (in particolare “Il marxismo Aleatorio”). Nelle quali si può trovare di che pensare una teoria dei modi di produzione non più inquinata dallo storicismo, economicismo e determinismo com’era invece nelle caratteristiche portanti del marxismo del secolo scorso.

Mauro Antonio Miglieruolo

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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