«Rosso cobalto»: l’infinito saccheggio del Congo

Un libro importante di Siddharth Kara. A seguire link per chi vuole saperne di più.

di Louis Perez

Molte persone che pure si credono decentemente informate sul mondo in cui vivono si stupirebbero nel sapere che c’è un legame stretto fra Apple, Samsung, Tesla, Daimlerone, Google, General Motors e altre potenze economiche mondiali da una parte e dall’altra alcuni luoghi della Rdc (Repubblica democratica del Congo) – Likasi, Kamowe, Kipushi, Lualaba, Kolwezi, Kamilombe – mai sentiti.

E un’affermazione come «il Congo è uno dei Paesi più ricchi al mondo anche se la sua popolazione è povera» sarebbe difficilmente creduta (o compresa).

Infine a una domanda tipo «nella seconda metà del ‘900 qual è stata la guerra più sanguinosa?» improbabile che si risponda «quella in Congo» (iniziata nel 1998).

Il libro «Rosso Cobalto» di Siddharth Kara – sottotitolo «Come il sangue del Congo dà energia alle nostre vite» – è stato pubblicato da un piccolo editore italiano, People (traduzione di Francesco Foti) e decisamente merita la spesa (22 euri per 350 pagine) se avete voglia di conoscere qualche scomoda verità. Del tipo: la stragrande maggioranza delle persone ha a che fare quotidianamente, anche in Italia, con tecnologie che dipendono dai minerali (alcuni rarissimi) di cui il Congo è ricco. E se in un futuro prossimo le energie dette “pulite” avranno il sopravvento, il cobalto diventerà ancor più centrale perchè – riassume Kara – «questo raro metallo argenteo è una componente essenziale di quasi ogni batteria, prodotta oggi, ricaricabile agli ioni di litio».

Se guardate una carta geografica troverete che una vasta area della Rdc si chiama Katanga: «questa regione trabocca di rame, ferro, zinco, stagno, nickel, manganese, germanio, tantalo, tungsteno, uramio, oro, argento e litio». Si calcola che il Katanga abbia «più giacimenti di cobalto di tutti quelli del resto del mondo messi assieme»: circa il 75 per cento è lì.

A far da contraltare a queste ricchezze c’è la grande povertà dei congolesi. Come ricorda Siddharth Kana «nella classifica Onu, basata sull’Indice di sviluppo umano, la RDC è nella posizione 175 su 189. Più di tre quarti della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; un terzo soffre di malnutrizione; l’aspettativa di vita è di soli 60,7 anni; la mortalità infantile è l’undicesima peggiore del mondo; solo il 26% degli abitanti ha accesso all’acqua potabile e solo il 9 per cento all’energia elettrica».

LE MENZOGNE DELLE MULTINAZIONALI

Nelle pagine del libro incontriamo più volte tragedie nelle miniere con decine o centinaia di morti che però non fanno notizia a livello internazionale. Ma di altre stragi più recenti nessuno avrebbe avuto notizia se Kara non si fosse trovato sul posto.

Qualcche giornalista senza museruola in passato ha cercato di “bucare” il muro dell’omertà, in particolare sulla BBC. Non è impossibile dunque trovare testimonianze (persino qualche video) sullo sfruttamento dei minori e dei cosiddetti artigiani, sulla distruzione delle foreste, sull’inquinamento che avvelena gli abitanti vicino ai giacimenti di cobalto, persino sulle frustrate che i cinesi infliggono a chi “lavora con lentezza”.

Quasi nulla invece sapevamo – anche se alcune ong avevano provato a indagare – sui “siti modello” lanciati in Congo a partire dal 2017. Qui le multinazionali promettono di tutto. Anzi (come racconta Kana da pagina 274 in poi) sui cancelli di Chemaf – uno dei soli due siti “modello” – si legge: «I nostri valori. Trasparenti, dinamici, rispettosi, responsabili, socialmente responsabili. La nostra visione: costruire un’azienda mineraria responsabile e orientata ai valori. La sicurezza è la nostra priorità numero uno» come si legge a Mutoshi, «vicino al villaggio di Mukoma». E così strombazzano rispondendo a chi “osa” accusare o fare pur timide domande.

Siddharth Kara ha fatto le verifiche che nessuno prima di lui aveva potuto – o voluto – fare: si è recato sul posto, è riuscito ad entrare (passando persino un paradossale «test dell’etilometro») e ha visto che si trattava essenzialmente di propaganda. E comunque, pochi mesi dopo la visita di Kara CHEMAF ha chiuso. Persino peggio nell’altro sito: la miniera gestita dalla CDM (Congo DongFang Mining) a Kolwezi «aveva fallito la propria missione in modo più grave rispetto a Chemaf». Minori al lavoro, «totale mancanza di dispositivi di protezione individuale».

IL FUTURO?

La chiusura del libro è molto bella: riprende una lettera che Patrice Lumumba – l’unico vero presidente libero del Congo – scrisse alla moglie mentre era prigioniero dei golpisti finanziati appunto da Belgio e Usa. Quelle poche righe aprono il cuore alla disperazione … per chi sa cosa è successo poi. Chi invece nulla sa (ma è colpa dei grandi media, non sua) non è stato neppure raggiunto dalla notizia che in Congo a partire dal 1998 sono morte 4 milioni di persone, forse persino 5… Calcolare un numero esatto è impossibile in un Paese che non fa censimenti da 70 anni e dove comunque la vita umana costa – e conta – poco o nulla.

Chiudendo questo tragico ma prezioso libro ovviamente ci si domanda se è possibile invertire la rotta: restituire cioè ai congolesi una parte delle ricchezze rubate e assicurare loro un lavoro dignitoso, una speranza.

Nelle storie raccolte da Kara troviamo due risposte diversissime. La prima (a pagina 233) è di una donna chiamata Lubuya: «Le persone muoiono tutti i giorni a causa del cobalto e raccontarlo non cambierà nulla».

La seconda ci arriva (a pag 321) quando Kara incontra i genitori di Lucien, un diciassettenne gravemente ferito in un crollo e chiede loro di raccontare quel che sanno sulle miniere di Kasulo. Questo il dialogo .

«A cosa servirà?».

«Se le persone fuori dal Congo vengono a sapere come i bambini vengono feriti mentre scavano per il cobalto, possiamo aiutare a migliorare le condizioni qui».

Dopo aver esitato, i genitori si convincono che se Lucien parlerà… forse qualcosa potrà cambiare.

E questo grande «forse» potrebbe scuotere chi legge il libro e spingere alcune persone a impegnarsi. Non è poco. Sapere quanto sangue c’è, in quel cobalto che usiamo, è un primo passo. Poi bisognerà capire, sentire che quei morti sono carne della nostra carne. E agire insieme per progettare un altro futuro possibile.

UN LIBRO FACILE DA LEGGERE

Ma le pagine di «Rosso cobalto» saranno comprensibili anche a lettori e lettrici «che non conoscono la differenza tra un minerale, una roccia e un metallo»? La risposta è sì: perchè anche Siddharth Kara all’inizio si trovava in questa ignoranza e per fortuna sa spiegare molto bene quel che via via capisce.

Siddharth Kara sa anche raccontare. E dal suo libro si capisce che il coraggio non gli è mancato anche se – con grande correttezza – riconosce che non avrebbe potuto fare quasi nulla senza la collaborazione “dal basso” di congolesi incontrati lungo il viaggio: «le persone più importanti, quelle per le quali la mia gratitudine non può essere misurata, sono quelle che non possono essere nominate senza mettere a rischio loro e le famiglie».

«Rosso cobalto» porta in luoghi dove «il lavoro vale pochi centesimi, la vita anche meno». Chi è troppo curioso (giornalisti o alcune ong davvero indipendenti) passa i suoi guai. «Il governo comgolese ha storicamente fatto di tutto per insabbiare la situazione delle province minerarie». Per la banalissima ragione che la sua omertà viene ben ricompensata dalle multinazionali (europee, statunitensi, giapponesi e ora anche cinesi) che saccheggiano i minerali. Sarebbe possibile pagare un giusto salario ai congolesi e bloccare il lavoro minorile ma se chi ruba è d’accordo con chi dovrebbe vigilare tutto si riduce a chiacchiere più “buone” intenzioni mai messe in pratica, cioè bugie.

Difetti? Come ogni libro, anche questo ha le sue (minime) pecche. Forse soprattutto un occhio di riguardo verso gli Usa (“una giovane e ingenua fanciulla” rispetto alla cattiva strega cinese?), in alcune ripetizioni e in una certa ingenuità che talvolta l’autore manifesta. Ma «Rosso cobalto» è così importante che ogni critica scompare: in primo luogo per il tabù finalmente rotto e poi perchè quella di Siddharth Kara è una ricerca sul campo, condotta nel 2018 e 2019, poi completata nel 2021 dopo l’interruzione del Covid (che ha bloccato i viaggi non certo lo sfruttamento delle miniere). E questo nessuno lo aveva fatto.

Non per pignoleria invece ma… per segnalarlo anche all’autore, nel libro ci sono una imprecisione e un’omissione, nella parte storica. L’errore riguarda la morte nel 1961 di Dag Hammarskjold, allora segretario delle Nazioni Unite. A pagina 162 Siddharth Kara scrive non è chiaro chi abbattè quell’aereo. Ma oggi invece molto sappiamo delle responsabilità di Belgio e Stati Uniti, come è stato scritto anche qui in “bottega”.

L’omissione – dimenticanza, se preferite – riguarda anche in questo caso il passato: giustamente Kara denuncia le responsabilità («l’orrore, l’orrore» scrisse Joseph Conrad) di re Leopoldo del Belgio per i milioni di morti congolesi e correttamente cita più volte i meriti di Roger Casement e di Edmund Dene Morel nel denunciare i massacri e lottare contro la nuova schiavitù degli africani; avrebbe però potuto aggiungere due righe sull’impegno di Mark Twain e sul successo mondiale di «Il soliloquio di re Leopoldo» che nel 1905 aprì gli occhi sulle stragi belghe (13 milioni di persone, assassinate «pari alla metà della popolazione all’epoca»).

Un grazie anche a People che appena uscito (nel 2023) negli Usa ha tradotto «Red Cobalt». Ed è una piccola ma buona notizia che da allora sia stato ristampato 3 volte.

POI C’E’ IL COLTAN

In altre parti del Congo (soprattutto il Kiwu, ma il lungo reportage di Kara non ha coinvolto queste zone) nella sabbia nera si trova facilmente un’altra ricchezza: il coltan – una miscela di columbite e tantalite – usato per videocamere, telefonini e tutti gli apparecchi hi tech (come le playstation). Il coltan si trova anche altrove ma quello del Kiwu costa poco. Viene estratto da adulti e bambini congolesi (in condizione di semi-schiavitù) ma i guadagni vanno tutti a due Stati confinanti, Ruanda e Uganda, che però sono privi di coltan. Si direbbe dunque che questi due Stati lo rubino al Congo; lo dicono anche i rapporti delle Nazioni Unite. Ogni tanto la questione del furto viene sollevata ma in breve tutto torna come prima. Proprio come per il cobalto.

CHI E’ SIDDHARTH KANA

Nato a Knoxville (Tennessee) da genitori indiani di origine indù e parsi Kana è cresciuto fra gli Usa e l’India. Questo suo libro (Cobalt Red: How the Blood of the Congo Powers Our Lives) è stato nella lista dei bestseller del NY Times e finalista nella sezione saggistica del Premio Pulitzer 2024. Primo libro in assoluto a indagare sui diritti umani e sugli abusi ambientali che coinvolgono l’estrazione di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo.

Dal 2016, Kara è docente di «povertà globale e pratica» all’ Università della California, tenendo corsi sulla schiavitù e sulla tratta.

Le sue caratteristiche di indiano “tipico” lo hanno favorito nei suoi viaggi in Congo perchè si è potuto mascherare come un nativo; «c’è una considerevole popolazione indiana in Congo» a gestire hotel ma anche a lavorare come commercianti o braccianti. Sono lì dal 1840 quando «gli inglesi iniziarono a spedirli in Africa a lavorare come schiavi per (presunti) debiti su ferrovie e piantagioni».

 

In “bottega” parliamo spesso di temi tabù per i media, come il saccheggio del Congo, alimentato a suon di guerre dalle libere democrazie dell’Occidente. Qui sotto troverete link a 7 nostri articoli recenti, con altre indicazioni per chi vuole saperne di più.

Congo: il grande saccheggio di oro e cobalto

di Ilaria De Bonis

RDC: l’estrazione di cobalto minaccia le foreste comunitarie

di Jonas Kiriko 

Congo: la maledizione del cobalto

di Oscar Nkala

La sovrapproduzione di cobalto abbassa i prezzi…

(…ma non ferma le violazioni dei diritti umani)

ripreso da diogeneonline.info

Co-co-co-co-co: cobalto, coltan, Congo, complicità e…

(… colonialismo)

articoli di Alessandro Spinnato e Francesco Gesualdi

Le vene aperte del Congo

Cominciò 55 anni fa con il golpe belga-statunitense seguito dall’assassinio di Lumumba (e poi di Dag Hammarskjold) il calvario che ancora dura

di Raffaele K Salinari

Una speranza per il Congo?

di Gianni Boccardelli

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