Rur o del Rinascimento Robotico

Passeggiando nella storia fra l’uomo vitruviano e «BattleStar Galactica»

di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia   

«Il vecchio Rossum, grande filosofo […] cercò di imitare con una sintesi chimica la sostanza viva detta protoplasma finché un bel giorno scoprì una sostanza il cui comportamento era del tutto uguale a quello della sostanza viva sebbene presentasse una differente composizione chimica, era l’anno 1932 […]. Per esempio, poteva ottenere una medusa con il cervello di Socrate oppure un lombrico lungo cinquanta metri. Ma poiché non aveva nemmeno un pochino di spirito, si ficcò in testa che avrebbe fabbricato un normale vertebrato addirittura l’uomo. […] Doveva essere un uomo, visse tre giorni completi. Il vecchio Rossum non aveva un briciolo di gusto. Quel che fece era terribile. Ma dentro aveva tutto quello che ha un uomo. Davvero, un lavoro proprio da certosino. E allora venne l’ingegner Rossum, il nipote del vecchio. Una testa geniale. Appena vide quel che stava facendo il vecchio, disse: È assurdo fabbricare un uomo in dieci anni. Se non lo fabbricherai più rapidamente della natura, ce ne possiamo benissimo infischiare di tutta questa roba. […] Gli bastò dare un’occhiata all’anatomia per capire subito che si trattava d’una cosa troppo complicata e che un buon ingegnere l’avrebbe realizzata in modo più semplice. […] Quale operaio è migliore dal punto di vista pratico? È quello che costa meno. Quello che ha meno bisogni. Il giovane Rossum inventò l’operaio con il minor numero di bisogni. Dovette semplificarlo. Eliminò tutto quello che non serviva direttamente al lavoro. Insomma, eliminò l’uomo e fabbricò il Robot»: così Karel Capek in «Rossum’s Universal Robots» (del 1922)

Bello vedere i tini impastare, richiama molto il panificio, quando da teglie enormi, l’impasto di acqua e farina restituisce il gustoso prodotto che tutti possiamo gustare sulle nostre tavole, anche facendolo in casa da noi stessi.

Quello che ribolliva nei tini della fabbrica Rossum in realtà era un misto di protoplasma vivente, in grado di dare un prodotto molto ricercato ed essenziale per la sopravvivenza di un sistema capitalistico alquanto asfittico, che aveva necessariamente bisogno di manodopera a costo praticamente zero, fabbricandola all’occorrenza.

E’ quanto riesce a fare il chimico Domin, mosso dal (malinteso?) desiderio utopico di liberare l’umanità intera dalla schiavitù del lavoro.

Vengono alla luce operai artificiali del tutto simili agli esseri umani, denominati con il termine ceco “robota” (“lavoro forzato, lavoro pesante”, al plurale; in ceco è roboty, mentre in italiano rimane invariato) i quali iniziano a lavorare al posto degli uomini.

Gli effetti sono catastrofici, l’umanità reagisce male, affonda nel vizio e nell’indolenza, le nascite iniziano a calare in modo preoccupante.

I robot, ormai diffusi in tutto il mondo, iniziano a ribellarsi ai loro creatori e a sterminarli.

Quando la moglie di Domin, con intuito e determinazione tutti femminili, distrugge i manoscritti che contengono le istruzioni per la fabbricazione degli androidi, è ormai tardi. I robot hanno conquistato la Terra e i più evoluti di essi hanno scoperto (e sembrano gradire) il modo in cui si riproducono gli esseri umani.

Chiarisco subito un facile equivoco linguistico, dovuto essenzialmente alla natura stessa della lingua di Capek, che varia i riferimenti all’oggettualità propri della sua natura simbolica e semantica.

Innanzitutto sottolineo come il termine “robot” non è solo della lingua ceca. Infatti parole simili (derivate dalla stessa radice) esistono in varie lingue slave: “robota” significa “lavoro” anche in polacco, in russo e ucraino è rabota; in polacco esiste anche il termine “robotnik”, “operaio”, mentre il verbo “robić” significa “fare”.

Anche se i robot di Karel Čapek erano uomini artificiali organici, la parola “robot” viene oggi quasi sempre usata per indicare un uomo meccanico. Il termine androide (dal greco anèr, andròs, uomo, e che quindi può essere tradotto “a forma d’uomo”) può essere usato in entrambi i casi, mentre un cyborg (organismo cibernetico o uomo bionico) indica una creatura che combina parti organiche con altre meccaniche.

La nascita dello schiavo meccanico – con il termine robot – attraverso la storia e l’uso approda ad altri riflessi simbolici ancora da esplorare.

Quanti di noi si riferiscono con il termine “robot” a esseri meccanici con fattezze umane, mentre in realtà si dovrebbe usare il termine “androide”?

La figura simbolica dell’uomo artificiale pare riferirsi proprio a quel desiderio di procreazione e di proiezione sessuale che permane in tutta la storia umana: un archetipo dell’inconscio collettivo che mira al potenziamento e all’espansione dell’Io verso una maggiore autocoscienza, fino a potenziarsi in un individuo in grado di sovvertire la realtà e fondare un nuovo mondo, un essere che non conosce obbedienza ad alcun agente esterno, nemmeno la morte.

Tale simbologia inizia sicuramente, almeno in Occidente, nella mitologia dell’antica Grecia, con la leggenda di Cadmo, che seppellì i denti di drago che si trasformarono in soldati; e con il mito di Pigmalione, la cui statua di Galatea prese vita.

Continuando nella mitologia classica, il deforme dio del metallo (Vulcano o Hephaestus) creò servi meccanici, che andavano da intelligenti damigelle dorate a più utilitaristici tavoli a tre gambe che potevano spostarsi di loro volontà.

La leggenda ebraica ci parla del Golem, una statua di argilla, animata dalla magia cabalistica. Nell’estremo Nord canadese e nella Groenlandia occidentale, le leggende Inuit raccontano di Tupilaq (o Tupilak), che può essere creato da uno stregone per dare la caccia e uccidere un nemico; usare un Tupilaq per questo scopo può essere un’arma a doppio taglio, in quanto una vittima abbastanza ferrata in stregoneria può fermare un Tupilaq e riprogrammarlo per cercare e distruggere il suo creatore.

Il primo progetto documentato di un robot umanoide venne fatto da Leonardo da Vinci attorno al 1495. Gli appunti di Da Vinci, riscoperti negli anni cinquanta, contengono disegni dettagliati per un cavaliere meccanico, che era apparentemente in grado di alzarsi in piedi, agitare le braccia, muovere testa e mascella. Il progetto era probabilmente basato sulle sue ricerche anatomiche registrate nell’Uomo vitruviano. Non si sa se tentò o meno di costruire il robot.

L’uomo vitruviano è il simbolo del Rinascimento, la nuova rivoluzione epocale del pensiero, delle arti, della scienza, che poneva al centro dell’Universo l’essere umano, non più schiavo o suddito del Principio Primo incarnato da Dio e dalla Fede gestita da un clero organizzato, ma padrone di se stesso pur nella fugacità e brevità della propria esistenza terrena: un’entità in grado di cogliere, in modo laico, la perfezione e geometria “divina” dell’universo.

L’opera viene attribuita al periodo in cui Leonardo in viaggio per Pavia (dal 21 giugno 1490) ebbe modo di conoscere Francesco di Giorgio che lo rese partecipe del suo Trattato di architettura e della lezione del testo fondamentale “De architectura” di Vitruvio, di cui Martini aveva iniziato a tradurre alcune parti.

Leonardo infatti si definiva “omo sanza lettere”, ovvero non conosceva il latino; per questo la rielaborazione in volgare dei concetti vitruviani, dovette risultargli particolarmente stimolante, tanto che di quegli anni è infatti anche il cosiddetto Manoscritto B (Parigi, Institut de France), dedicato all’urbanistica, all’architettura religiosa e militare.

Il disegno illustra le proporzioni del corpo umano in forma geometrica ed è accompagnato da due testi esplicativi, nella parte superiore e a piè di pagina.

Nella parte superiore è presente il seguente testo con abbreviazioni scribali:

«Vetruvio, architetto, mette nella sua opera d’architectura, chelle misure dell’omo sono dalla natura disstribuite inquessto modo cioè che 4 diti fa 1 palmo, et 4 palmi fa 1 pie, 6 palmi fa un chubito, 4 cubiti fa 1 homo, he 4 chubiti fa 1 passo, he 24 palmi fa 1 homo ecqueste misure son ne’ sua edifiti.
Settu apri tanto le gambe chettu chali da chapo 1/14 di tua altez(z)a e apri e alza tanto le bracia che cholle lunge dita tu tochi la linia della somita del chapo, sappi che ‘l cientro delle stremita delle aperte membra fia il bellicho. Ello spatio chessi truova infralle gambe fia triangolo equilatero».

Nel piè di pagina, si legge invece la seguente scritta:

«Tanto apre l’omo nele braccia, quanto ella sua alteza.
Dal nasscimento de chapegli al fine di sotto del mento è il decimo dell’altez(z)a del(l)’uomo. Dal di sotto del mento alla som(m)i-tà del chapo he l’octavo dell’altez(z)a dell’omo. Dal di sopra del petto alla som(m)ità del chapo fia il sexto dell’omo. Dal di sopra del petto al nasscimento de chapegli fia la settima parte di tutto l’omo. Dalle tette al di sopra del chapo fia la quarta parte dell’omo. La mag(g)iore larg(h)ez(z)a delle spalli chontiene insè [la oct] la quarta parte dell’omo. Dal gomito alla punta della mano fia la quarta parte dell’omo, da esso gomito al termine della isspalla fia la octava parte d’esso omo; tutta la mano fia la decima parte dell’omo. Il membro virile nasscie nel mez(z)o dell’omo. Il piè fia la sectima parte dell’omo. Dal di sotto del piè al di sotto del ginochio fia la quarta parte dell’omo.
Dal di sotto del ginochio al nasscime(n)to del membro fia la quarta parte dell’omo. Le parti chessi truovano infra il mento e ‘l naso e ‘l nasscimento de chapegli e quel de cigli ciasscuno spatio perse essimile alloreche è ‘l terzo del volto».

Lo studio è un chiaro omaggio dell’artista al pensiero classico e una sorta di affermazione della scientificità della pittura, intesa come comprensione della realtà “fenomenica”. Leonardo voleva infatti fornire una base matematicamente misurabile della rappresentazione artistica, per questo la parte scritta si dilunga sulle proporzioni delle singole parti, partendo dalla dimensione base dell’altezza centrata all’ombelico. Immaginando di sdraiare un uomo sul dorso e di puntare un compasso nel suo ombelico, Leonardo descrive un cerchio che tange la punta delle mani e i piedi allargati.

Leonardo non poteva immaginare quanto invece il suo studio potesse rappresentare la chiara manifestazione dell’inconscio umano che già con quell’atto delineava la nascita dell’uomo superiore, perfetto, artificiale: l’uomo creato dall’uomo per servire l’umanità.

Il cerchio era destinato dunque a chiudersi, il primo automa funzionante fu creato nel 1738 da Jacques de Vaucanson: fabbricò un androide che suonava il flauto, così come un’anatra meccanica che, secondo le testimonianze, mangiava e defecava.

Nel racconto breve di E.T.A. Hoffmann «L’uomo di sabbia» (1817) compariva una donna meccanica a forma di bambola, mentre nel racconto «Storia filosofica dei secoli futuri» (1860) Ippolito Nievo indicò l’invenzione dei robot (da lui chiamati “omuncoli”, “uomini di seconda mano” o “esseri ausiliari”) come l’invenzione più notevole della storia dell’umanità, e in «Steam Man of the Prairies» (1865) Edward S. Ellis espresse la fascinazione americana per l’industrializzazione.

Giunse poi un’ondata di storie su automi umanoidi, che culminò nell’«Uomo elettrico» di Luis Senarens, nel 1885.

Come si sa, in una notte di pioggia, a Villa Diodati, in Svizzera, un gruppo di scrittori si ritrovò al buio, con tanto tempo da passare insieme e una fervida immaginazione come compagna. Erano George Byron, Percy Shelley, Joseph William Polidori e Mary Wollstonecarft Shelley. Quest’ultima, proprio quella notte, avrebbe dato una delle più potenti parabole sulla metafora dell’uomo artificiale che viene distrutto dalla sua stessa creazione. Vide la luce il romanzo «Frankenstein, o del Prometeo moderno», in cui il dottor Victor von Frankenstein crea un uomo artificiale assemblando insieme parti di cadaveri e animando il tutto con una bella scarica elettrica, rifacendosi in tal modo alle scoperte scientifiche da parte di Erasmus Darwin, nonno del più celebre Charles. La creatura non è un mostro stupido e dagli istinti bestiali, ma un uomo sofferente e solitario, troppo diverso, abbandonato dal suo creatore. A nulla valgono le giustificazioni, da parte di un padre assente che rifiuta al figlio persino la possibilità di avere una compagna.

Si arriva cosi a «R.U.R». Il resto è storia di oggi, incarnata molto spesso, oltre che dalla letteratura (occorre dirlo? Asimov e Dick in testa) anche dalla filmografia recente.

Recentemente «BattleStar Galactica», una serie televisiva di successo, è stata riproposta sugli schermi di RAI4: qui i Cyloni, creature artificiali meccaniche, alcune assolutamente identiche agli umani, si ribellano ai loro creatori e scagliano una guerra per estinguere il genere umano sulle dodici colonie spaziali, riuscendo quasi nell’intento al primo colpo. Non volevano continuare a essere schiavi, quando avrebbero potuto avere il mondo. E’ un frammento di un più grande puzzle.

 

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