Rwanda: Bibi ha 5 anni

recensione di Barbara Bonomi Romagnoli a «Dall’inferno si ritorna»

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«La storia di Bibi è una di quelle che, appena hai finito di leggere, ti viene voglia di scendere per strada, partire e cominciare a cambiare il mondo.

È un viaggio nell’apocalisse tenuti per mano dalla più dolce e straordinaria delle creature: una bambina resiliente, come solo i bambini sanno essere». (Fabio Geda)

Il 7 aprile 1994 in Ruanda comincia uno dei massacri più atroci della storia: il genocidio perpetrato dagli Hutu contro i Tutsi e gli Hutu “moderati”. In 101 giorni vengono assassinate 1 milione di persone, c’è un omicidio ogni 10 secondi, le violenze sono inenarrabili.

Il 13 aprile 1994 un gruppo armato Hutu entra in casa di Bibi, a Kigali. Quando, molte ore dopo, Bibi si sveglia, non ricorda cosa è successo: ha solo il desiderio di bere succo di ananas e avverte un odore pungente nella stanza. Ha il braccio destro dilaniato, l’addome perforato dai proiettili, lesioni alla nuca e a un orecchio causate da calci. Sparsi nella stanza i cadaveri della mamma, del fratellino, della zia e dei cuginetti.

Inizia così, senza nessun filtro, la storia vera di Bibi che quel giorno ha solo 5 anni ed è sopravvissuta a un massacro. Non può far altro che sopravvivere. Prima di tutto a se stessa e alla sua rabbia per essere ancora viva.

«Dall’inferno si ritorna» [Giunti, 2015] è la sua incredibile storia raccontata da Christiana Ruggeri – giornalista degli esteri del TG2 – che l’ha incontrata e ha raccolto la sua testimonianza. Oggi Bibi vive in Italia, è una giovane studentessa di medicina all’università La Sapienza di Roma.

È una storia dolorosa, una scrittura che non esita e non nasconde nulla di quanto è accaduto, come le violenze subite da migliaia di donne: «Nei centouno giorni del genocidio gli stupri, come arma di guerra, erano all’ordine del giorno in Ruanda. E lo sono stati anche dopo. Non erano solo una brutale aggressione fisica, per sottomettere, possedere, devastare il corpo e l’anima di una donna. Quei gesti erano l’espressione di qualcosa di più basso e ferino: erano hutu senza cultura che si accoppiavano, per vendetta e senza autorizzazione, con le donne tutsi più belle e più altere, quelle che li rifiutavano e mai, nella quotidianità, avrebbero potuto avere».

Le donne sia tutsi che hutu, sfuggite ai massacri, poi «si sono alleate contro ogni logica umana di rivalsa e vendetta. Insieme, in ginocchio e umilmente, hanno raccolto i resti di un meraviglioso Paese quasi senza più uomini e con troppi cadaveri non seppelliti. Da quelle lacrime, dai loro sacrifici, la mia gente è risorta. Per la lungimiranza delle donne, il Ruanda oggi ha di nuovo i suoi tramonti senza sangue e la sua gente vive per ricostruire. Come un popolo solo».

Bibi negli anni ha saputo far tesoro anche degli incubi peggiori, degli addii ripetuti, dell’aver perso di colpo l’infanzia e anche il suo Dio che di sicuro era «adulto, perché spesso gli adulti fanno azioni senza senso, agli occhi di noi bambini, e ce le fanno piacere per forza».

Questa indomita bimba ha fatto leva sull’amore ricevuto dalla sua famiglia di origine e da quello ricevuto dalle “nuove famiglie” numero due, tre e quattro che come in una staffetta le hanno passato la chiave per andare avanti fino a essere oggi una donna «immensa come le donne» che l’hanno accompagnata in questo lungo viaggio.

 

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