Samuel Ruiz: gli indigeni mi hanno convertito

Don Samuel Ruiz è ancora sulla breccia, a fianco delle comunità indigene del Chiapas, in prima fila nel difendere i loro diritti. Le alte gerarchie ecclesiastiche non avrebbero mai immaginato di aver commesso un grande errore quando, nel 1961, a soli 35 anni, decisero di nominarlo vescovo di San Cristobal de las Casas, divenuta in seguito la capitale zapatista per eccellenza dopo l’insurrezione del 1 gennaio 1994 che segnava l’irruzione sulla scena dei senza volto nel Messico del Nafta (North American Free Trade Agreement, l’accordo di libero scambio con Canada e Stati Uniti).
Più volte Ruiz, durante le sue conferenze in giro per il  mondo in cui raccontava del suo ruolo di mediatore tra l’Ezln e i vari presidenti che si sono succeduti al palazzo presidenziale di Los Pinos, amava ripetere: “Per molti anni sono stato come un pesce, dormivo con gli occhi aperti, guardavo  e non vedevo”. Tutto questo per testimoniare che inizialmente il Chiapas era un mondo sconosciuto anche per lo stesso Ruiz: nato nel centro del Messico, Don Samuel non conosceva granché di questo Stato al confine con il Guatemala e che, in epoca remota, faceva appunto parte del Grande Guatemala. Quando Ruiz comprese le dinamiche della trasformazione sociale e religiosa e cominciò ad avvicinarsi alla teologia india si crearono le premesse per quel dialogo interculturale e interreligioso che ha dato alla popolazione indigena la possibilità di sentirsi padrona della propria storia, della propria dignità e della propria cultura.
Dall’incontro con la complessa realtà sociale del Chiapas, dove le comunità indigene valevano (e per latifondisti, paramilitari e governo valgono ancora) meno delle bestie, Samuel Ruiz trasformò il suo modo di pensare, abbandonò la linea conservatrice e, secondo un percorso non troppo dissimile da quello che aveva condotto monsignor Romero a schierarsi dalla parte del martoriato popolo salvadoregno, prese coscienza dell’oppressione e delle violazioni dei diritti umani a cui andavano quotidianamente incontro i popoli maya. Inoltre, fu illuminante l’incontro con il pensiero della famosa Conferenza di Medellin del 1968, che segnò un punto di svolta epocale per la chiesa sociale sudamericana. Don Samuel lo spiegò bene in Chiapas perché?, pubblicazione curata dal gruppo Mani Tese di Lucca uscita nel 2000, quando ancora non esisteva una solidarietà così diffusa con il movimento zapatista come invece si è registrata negli ultimi anni: “Da noi il problema non è come annunciare Dio a un mondo ateo; il nostro è un mondo credente, solo che qui abbiamo il <<non uomo>>, colui che non ha i diritti umani, colui che si trova calpestato.  In che maniera annunciare qui il Vangelo? In queste circostanze il Vangelo non può che essere decisamente liberatore. Questo ci portò a far si che nell’assemblea di Medellin la Chiesa latinoamericana adottasse l’opzione per il povero (…) E’ una posizione radicale che coinvolge fondamentalmente la Chiesa. Si parla di un’opzione, di una libera scelta, ma in realtà è un’opzione obbligatoria. Se non la facciamo, non siamo più figli del Signore, non saremmo più qui a servire dal punto di vista del Signore”.
Lo scorso gennaio si sono svolte le celebrazioni  per il 50° anniversario di ordinazione episcopale di Ruiz a San Cristobal de las Casas. Nonostante dal 1 maggio 2000 “El caminante” (come è chiamato affettuosamente don Samuel) non sia più vescovo del Chiapas per raggiunti limiti di età, ha continuato a lavorare con e per le comunità indigene. Non è morto, come ha scritto in un superficiale articolo Vittorio Zucconi su La Repubblica del 28 Marzo 2010, che (oltre a scrivere una serie di altre imprecisioni e veri sfondoni sullo pseudo-scoop del desencapuchamiento del subcomandante Marcos, ma questa è un’altra storia) ha parlato di “morte del santo episcopo nel 2000” confondendo probabilmente l’abbandono dell’incarico di vescovo in Chiapas con il suo decesso; anzi è attivissimo.
E’ vero però che sono in molti che lo vorrebbero morto, in particolare i paramilitari e una parte della società chiapaneca appartenente a quelle chiese evangeliche che con sempre maggior forza stanno prendendo piede in America Latina, spesso finanziate dagli Stati Uniti o, nel caso del Chiapas, messe su nel contesto di una delle tante operazioni di guerra a bassa intensità volte a dividere le comunità nel tentativo di smantellare una volta per tutte le comunità indigene e i territori autonomi zapatisti in resistenza. L’Ejercito de Dios è l’organizzazione evangelico-paramilitare che più volte ha chiesto la detenzione di don Samuel e la chiusura del Centro Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas, di cui lui stesso è fondatore.
Sarebbe lungo raccontare nei dettagli la storia di don Samuel, il suo lavoro di mediazione tra insurgentes e governi corrotti che non hanno mai avuto la volontà di occuparsi seriamente delle questione indigena e zapatista, così come ci vorrebbero pagine e pagine per parlare del suo lavoro con la teologia maya, ma di certo Ruiz è riuscito a restituire alle comunità quella dignità che ormai non ricordavano più di avere in una sorta di reciproco interscambio di idee ed esperienze: “Gli indigeni mi hanno convertito” disse una volta. Il fatto che le alte sfere vaticane abbiano sempre dichiarato di voler moderare il lavoro di Ruiz significa che “El caminante” aveva colto nel segno.

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