Santini, bollini, riforme, vergogna

di Daniela Pia

DanielaPia-SMGoretti

Quando andavo al catechismo, da bambina, la mia frequenza era piuttosto altalenante. Non per mia scelta. I miei genitori avevano un’attività in proprio e sin da piccola dovevo fare i turni per contribuire al menage familiare.
Le suore che insegnavano “la dottrina” mettevano timbri, come presenza, su dei foglietti ad attestare i crediti: quando ne avevi cumulato cinque ti davano un santino. Una di quelle immaginette tutte ali e aureole. I “meritevoli” dalla frequenza inossidabile ne cumulavano tantissime. Io ben poche. Mi sentivo molto discriminata perché non solo lavoravo in casa e facevo i salti mortali per frequentare il catechismo ma cercavo di studiare e comportarmi bene come suggerivano le suore. Eppure non potevo eguagliare i meritevoli che cercavano di accattivarsi la simpatia delle suore con la loro frequenza, ma anche con qualche “presente” che i genitori mandavano alle “sorelle”. Sin da allora ho capito che non ero adatta alla raccolta punti. Mi riesce difficile essere accondiscendente.
Mi porto sulle spalle una bisaccia di fatica, con dentro il bagaglio di una qualche coerenza fra il dire e il fare, avverto che queste continue “riforme” della scuola si somiglino tutte nel tentativo di cancellare la coerenza del nostro agire. La raccolta bollini le accomuna e mi/ci stanno sfiancando. Io non ho mai raccolto i bollini nemmeno al supermercato. Non ho mai vinto la gara delle immaginette. So che non sarò fra i finalisti di questa vomitevole guerra fra poveri insegnanti. Poveri di spirito e di denari. NON raccoglierò bollini. Non lo ritengo dignitoso. Sento questa farsa di san Matteorenzi come un insulto alla nostra professionalità e alla nostra libertà di insegnamento. Provo una vergogna strisciante, eppure so che a vergognarsi dovrebbero essere questa specie di “montagne” di menti di politicanti capaci di partorire solo rachitici topolini a forma di bollini.

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

10 commenti

  • hai ragione!

  • Avrei da ridire, e vorrei domandare in cosa consiste la professionalità di un insegnante, ma dato che mi è stato comunicato a chiare lettere che non servo, allora fate voi. Mi permetto però di aggiungere che nessuna persona è condannata a fare l’insegnante. Può anche decidere di fare altro, se tanto povero è lo spirito, e questo, e quest’altro, e ancora, e di più …

    Tanti auguri e buona fortuna.

    • P. s. … sono dove sono – contento – anche perché c’è chi le prove di selezione le fa da solo/sola, trattandosi di selezioni individuali, poi ci sono altri/altre “insegnanti” che copiano spudoratamente, perché … Forse sono professionali. Ma lascio perdere, perché:
      1 – oggi non ho tempo per essere costruttivo;
      2 – a volte ci si stanca di provare a spiegare che oltre ai diritti nella vita esistono anche dei doveri, e che la totale anomia non è il più efficace dei sistemi in assenza di un adeguato senso di responsabilità. E poi … migliorarsi è faticoso. Vince spesso la pigrizia. Ma ripeto, tanti auguri e buona fortuna.

    • E chiudo …
      A volte forse aiuta parlare chiaramente – l’aggettivo ‘brutale’ non mi piace.

      Esistono così tanti insegnanti demotivati, poveri di spirito e così via?

      Vadano a casa, facciano un altro lavoro, oppure facciano l’umanamente possibile per trovare nuove motivazioni e per arricchire il proprio spirito. Mi dispiace che questo sia il caso per quei bravi/quelle brave insegnanti che hanno fatto parte e fanno parte della scuola italiana. Ma se ciò non è possibile, facciano altro. Nessuna/nessuno è condannato a fare l’insegnante.

      Se siete irrimediabilmente demotivati/demotivate, allora andate a casa.

      Altre persone giovani, a cui finora non è stata concessa alcuna opportunità, attendono con motivazioni fresche e ancora intatte. Quando a loro volta questi/queste giovani saranno irrimediabilmente demotivati/demotivate, allora toccherà a noi scegliere di fare altro nella vita. Fare l’insegnante è una professione molto difficile e di importanza cruciale. Non è una condanna.

      • ciao Ago. non comprendo questa tua polemica. Come si capisce (a me sembra) dai suoi post, Daniela mon appartiene a quel gruppo di insegnanti (ma potrebbero essere cittadine/i in genere) che si lamenta sempre senza però fare e/o proporre, che reclama tutti i diritti e non parla di doveri. Tutt’altro. Mi pare che nelle riflessioni di Daniela come nelle storie concretissime che ogni tanto propone ci sia la rabbia di una persona che – ce ne sono molte altre, certo non la maggioranza (o così pare a me) – credono nella scuola pubblica e vedono come i governi siano del tutto irresponsabili e facciano di tutto per svilire il difficile lavoro educativo fini al punto da progettare di affidarlo alle aziende.

      • Ciao Daniele, la scuola è attraversata da molte tensioni, da molti conflitti, e relazioni conflittuali, anche perché la scuola non è un isola, ma interagisce con moltissimi altri sottosistemi.

        Tra i conflitti che riguardano la scuola, c’è il conflitto con i quadri regolamentari, le regole, stabilite dal ministero, dal governo democraticamente eletto, dallo Stato, cioè Noi/Voi – attraverso un processo più o meno democratico.

        Questi conflitti vanno gestiti, perché altrimenti ci si riduce alla guerriglia, che non mi sembra molto efficace a lungo termine.

        Per gestire questi conflitti, e trasformarli in opportunità per costruire compromessi, occorre, è cruciale, la motivazione professionale, perché saper gestire questi conflitti è a mio parere parte della professionalità di un insegnante.

        Ovvero, la motivazione professionale è condizione necessaria per poter fare o continuare a fare l’insegnante.

        Se questa motivazione è irrimediabilmente danneggiata, compromessa, irrecuperabile, ribadisco:

        che vadano a casa, facciano un altro lavoro, facciano altro, ma non l’insegnante, perché non sono condannati a fare l’insegnante, così come i medici non sono condannati a fare i medici, e i giudici non sono condannati a fare i giudici e così via.

        Poi forse Daniela Pia vorrà chiarire lei stessa il suo punto di vista.

      • Daniele, abbiamo tutti i nostri impegni e pensieri, ma posso inviarti questa pubblica richiesta, di modo che magari nel corso della settimana Daniela Pia, che ci ha dato questo editoriale, possa magari articolare ulteriormente il suo punto di vista, e risponda a queste precise domande:

        – Che cosa significa essere professionale, in pratica, per un insegnante?

        – Che ruolo ha la motivazione, per l’insegnante che si comporta in modo professionale?

        – Un insegnante deve essere in grado di saper gestire i conflitti?

        – È importante la motivazione, come condizione necessaria per essere in grado di gestire i conflitti?

        – È una condanna, fare l’insegnante?

        Una risposta sarebbe benvenuta, lo scrivo come lettore, tanto per aiutarmi a capire quale sia la qualità di queste prese di posizione editoriali.

        Cioè, l’insegnante bravo/brava/professionale, pur impoverito/impoverita nello spirito, è in grado di dialogare, no?

  • Non è una condanna il mio lavoro, la mia professione. Ho scelto di essere insegnante. Metto sempre al primo posto l’ individuo e i suoi bisogni. Cerco, con i miei limiti, di suscitare la discussione, introdurre punti di vista diversi. “Addirittura” promuovere competenze critiche. Il mio lavoro si svolge in aula con gli infimi mezzi messimi a disposizione e con quelli che sono il mio bagaglio di : tempo, letture , aggiornamento, strumenti acquistati con i miei denari. Ho una lunga storia di precariato alle spalle strade impervie, scuole di estrema periferia, considerate ghetto. Scuole e studenti che mi porterò sempre nel cuore. Che mi hanno fatto quella che sono. Ancora lavoro in una scuola di trincea. Penso che la maggioranza dei miei colleghi lavori con onestà e competenza. C’ è una discreta percentuale di cialtroni, come in ogni ambito lavorativo. Quella che tentavo di ” raccontare ” è la deriva del ” divide et impera” nella quale la poltica sta mettendo all’ angolo la scuola. Per quaranta danari. Misere prebende fatte di miseria e sgomitamenti fra capponi ignari. Ciò detto ho sentito gli interventi di Ago prorpio come il risultato di questa guerra tra poveri. Dolorosa.

    • Grazie per il chiarimento.

      Mi avrebbe fatto piacere/ sarei stato orgoglioso/ mi avrebbe reso felice avere la possibilità di poter esserci per dare una mano, anzi per fare del mio meglio, ma questa possibilità non mi è stata concessa – estrapolando dovrei aspettare altri 3 anni, inutilmente qualora venga bandito un altro concorso, probabilmente con regole simili, con il conseguente annullamento dell’attuale graduatoria.

      Sto facendo altro, anzi lo stesso, ma altrove.

      Ma ovunque sia questo dove, e per chiunque, a cui quel ‘dove’ si riferisca, rimane centrale, per me, il problema della motivazione, necessaria, anche se non sufficiente, per poter insegnare, per potere gestire i conflitti che sempre attraverseranno la scuola, e per poter onestamente assumersi la responsabilità di guidare, sostenere, ascoltare, riconoscere, dialogare con decine e decine e decine di giovani fragili esseri umani, persone, ecosistemi.

      Io sono all’inizio della mia quarta vita, e ho chiuso ognuna delle 3 precedenti perché la motivazione fondamentale era venuta meno, ma al tempo stesso ognuna di queste precedenti 3 vite partecipa a questa nuova quarta vita.

      Nessun lavoro è una condanna, e ogni fine è al tempo stesso un nuovo inizio (mi piace T. S. Eliot).

      Spero che la mia quarta vita, come insegnante – altrove, sia anche l’ultima, ma se la motivazione venisse meno, sarà allora il momento di avviare la quinta vita.

      Non so come salutarti, però grazie per ciò che hai scritto.

      Ago

      • Da “Little Gidding” di T. S. Eliot

        What we call the beginning is often the end
        And to make an end is to make a beginning.
        The end is where we start from. And every phrase
        And sentence that is right (where every word is at home,
        Taking its place to support the others,
        The word neither diffident nor ostentatious,
        An easy commerce of the old and the new,
        The common word exact without vulgarity,
        The formal word precise but not pedantic,
        The complete consort dancing together)
        Every phrase and every sentence is an end and a beginning,
        Every poem an epitaph. And any action
        Is a step to the block, to the fire, down the sea’s throat
        Or to an illegible stone: and that is where we start.

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