Sarajevo: il «Tribunale delle Donne»

di Stina Magnusson Buur (*)

TribunDonneJugo

«Sono un’eroina» ha detto una delle più giovani donne che ha reso testimonianza. E’ sopravvissuta a un lungo periodo di abusi, stupri e tortura, mentre era adolescente, in un “campo di stupro”, è sopravvissuta a un matrimonio forzato e violento, al divorzio: «Si sono portati via la maggior parte della mia infanzia. Si sono portati via la mia gioventù. Ma il presente e il futuro sono miei».

Dal 7 al 10 maggio 2015, il «Tribunale delle Donne» a Sarajevo ha radunato circa 500 donne provenienti da Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Serbia, affinché testimoniassero e ascoltassero storie di vita su quel che accadde durante le guerre balcaniche negli anni ’90 e successivi – e come questo ebbe e ha ancora un impatto sulle vite delle donne oggi.

La cosa più “potente” del Tribunale è che ha messo le sopravvissute e le loro testimonianze al centro. Erano i soggetti che prendevano il potere dello spazio e delle loro stesse storie. Il resto di noi ascoltava, offriva la propria solidarietà e ovazioni in piedi come tributo al loro coraggio.

Il processo che ha portato alla presenza del Tribunale ha preso parecchi anni. Per quanto ne so io, l’idea fu lanciata la prima volta nel 2001 e l’impegno si è intensificato durante il 2010. Un enorme ammontare di lavoro è stato svolto durante gli ultimi cinque anni in ogni Paese menzionato così come a livello regionale.

E non è stato facile. Ci sono differenti narrazioni della guerra in differenti aree dei Balcani, ci sono stati sviluppi politici come l’avanzare del nazionalismo, i processi del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia sono andati avanti in parallelo con troppi criminali lasciati liberi e molti altri sviluppi ed eventi che hanno influenzato la cosa. A un certo punto, le donne in Serbia non riuscivano a trovare nessuno disposto a lasciar usare loro degli spazi per tenere incontri che riguardavano il «Tribunale delle Donne» o la riconciliazione. Io lavoravo in Serbia per Kvinna till Kvinna durante il periodo 2011-2013, perciò ho seguito la faccenda da vicino.

Ora torniamo al maggio 2015. Penso che tutte abbiamo sentito storie delle guerre nei Balcani negli anni ’90: i “campi di stupro”, la pulizia etnica, il genocidio. Le guerre – e le testimonianze che abbiamo udito contenevano alcune delle cose più orribili e indescrivibili che un essere umano possa fare a un’altra anima vivente, e ascoltarle direttamente dalle donne sopravvissute mi ha distrutta. E io vedo la questione da fuori.

Ci sono state anche testimonianze di madri e mogli di soldati, donne che hanno tentato di impedire ai loro mariti e figli di andare in guerra e donne che hanno tentato disperatamente di recuperare membri delle loro famiglie dopo che questi erano stati arruolati di forza, persino minorenni. Nonostante tutto, i sentimenti che la maggior parte delle donne proiettavano all’esterno erano determinazione a ottenere pace e desiderio di giustizia – non vendetta: per la riparazione, per la sicurezza, per un buon futuro per loro e i loro figli, in solidarietà con tutte le altre donne, oltre ogni possibile confine.

Dare potere alle sopravvissute potrebbe sembrare in contrasto con un tribunale penale, come il «Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia» dove è il “perpetratore” a essere al centro della scena e le testimonianze sono udite in relazione al perpetratore. Perciò, i testimoni risponderanno a domande e non saranno in grado di raccontare la loro intera storia. Entrambi i processi sono necessari, per quanto diversi.

Dopo aver ascoltato più di 30 testimonianze individuali, moltissime immagini e frasi sono rimaste con me. Una donna terminò il suo intervento dicendo: «Noi tutte viviamo le conseguenze della guerra». Questo è vero per la donna che sta ancora cercando i resti del suo figlio maggiore, la donna che sta ancora lottando per riavere la propria casa, la donna che è stata licenziata a causa della sua etnia e oggi non ha pensione, la donna Rom i cui diritti sono ancora non garantiti.

E non riesco a smettere di pensare che chiunque io abbia incontrato per le strade assolate di Sarajevo ha la sua storia personale di quel che gli è accaduto durante le guerre e di quel che ha fatto. E che chiunque sta vivendo le conseguenze. Un’altra frase che non dimenticherò mai è venuta da una donna a cui sono stati strappati i bambini dalle braccia: «Io posso perdonarli per tutto. Posso perdonarli per averci portato via tutto. Ma non posso perdonarli per aver portato via i nostri figli». Una donna ha detto: «Alla fine ho dovuto schierarmi anch’io, sono diventata parte di noi e loro».

Ma ci sono state anche molte storie di resistenza e di umanità, di vicini di casa che si sono aiutati l’un l’altro nonostante i rischi personali, di estranei che hanno aiutato persone mai viste prima. Penso al guidatore di autobus che ha salvato l’intero carico dei suoi passeggeri, donne e bambini, dicendo al soldato che era salito sul mezzo per ucciderli: «Sì, moriranno, ma non sarai tu a farlo. Mi occuperò io della cosa, perciò ora esci di qui!». E come ha testimoniato una delle passeggere, li portò fuori da quella zona e li salvò tutti.

Dopo che ogni gruppo di testimoni aveva parlato, alcuni accademici, attivisti e altri condividevano analisi sui retroscena, sulle strutture della guerra e su ciò che era accaduto e fornivano una cornice per le storie individuali. Per esempio, è diventato ovvio il modo in cui le strutture di genere erano state cementate. Praticamente nessun uomo nelle storie delle donne è sopravvissuto. I bambini e la loro sopravvivenza (e la loro salute fisica e mentale) erano diventati intera responsabilità delle donne, sia perché donne e uomini erano separati, sia perché le donne la presero su se stesse.

L’impunità è davvero diffusa. Numerose donne hanno testimoniato sui perpetratori ancora liberi: camminano per le strade delle loro stesse città o hanno persino posizioni politiche.

Ci sarebbe così tanto da dire e per di più non si riesce a esprimerlo a parole… Il lavoro incessante delle difensore dei diritti umani delle donne e delle organizzazioni delle donne nei Balcani continua. E io credo che questa solidarietà fra donne sia più forte e molto più potente delle strutture della criminalità e della violenza. Per noi che non siamo parte del movimento delle donne nei Balcani, ma siamo parte della solidarietà fra donne, resta da decidere – nel dialogo – come continuare a sostenere al meglio questi sforzi per la riconciliazione.

(*) «Unforgettable testimonies at court for women survivors» di Stina Magnusson Buur per «Kvinna till Kvinna» (13 maggio 2015) – traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo – è ripreso dal bellissimo blog «Lunanuvola». Come al solito, la maggior parte dei media italiani non ha dato nessuna informazione su quanto avvenuto a Sarajevo; fra le poche eccezioni il quotidiano «il manifesto» che ga ripreso quanto pubblicato in «Ossrvatorio Balcani e Caucaso».

La FOTOGRAFIA riprende la dimostrazione d’apertura del «Tribunale delle Donne». Sullo striscione si legge: «Tribunale delle Donne – approccio femminista alla giustizia». La foto è di Milica Mirazic (ripresa da «Lunanuvola»).

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