Sars-CoV2: il problema non è il virus

di jolek78

Sono sbarcato nel Regno Unito nel 2013, appena un anno dopo dalla morte di mio padre, e qui ho cominciato la mia seconda vita. Lavoro nel mondo dell’Information Technology, fra server, macchine virtuali, containers e tante, ma tante, linee di codice. Nella mia prima vita, in cui ero giovane aitante e pieno di energie – si vabbe’…- avevo una missione: spiegare la scienza. Nel 1999, quando internet era ancora agli albori e le connessioni erano a 56k, fondai insieme a due amici un portale italiano per l’astronomia, ovvero Astrofili.org. Da quel portale nacque uno spin-off, una e-zine di astronomia chiamata Astroemagazine, e da li’ cominciai a capire che forse, ma dico forse, mi piaceva parlare di scienza.

Cominciai a parlare di scienza pubblicamente nel bellissimo planetario di San Giovanni in Persiceto e poi nei festival scientifici in giro per l’Italia. Successivamente creai un podcast scientifico chiamato Caccia al Fotone. E poi, per un caso ancora non del tutto comprensibile per me, fui accettato come explainer nel Festival della Scienza di Genova. Fino a quel momento pensavo ingenuamente che sapere qualcosa volesse automaticamente dire essere in grado di spiegarla. Ma non era cosi’. Ci furono due persone che modificarono completamente il mio punto di vista. La prima fu Lara Albanese, una straordinaria astronoma “raccontastorie” che mi fece vedere come “scienza” non volesse dire “scientifichese” ma invece un’unione di linguaggi che riusciva a fare della divulgazione un’arte che potesse essere comprensibile ai più. La seconda fu un buffo tipo chiamato Daniele Barbieri che mi spiego’ come società e scienza non fossero due universi separati, e che parlare di scienza mettendoci dentro il proprio “punto di vista” non era una bestemmia ma una necessita’. Sopratutto per noi “de sinistra”.

Ho sempre pensato, per quel poco che vale il mio parere, che trattare la gente come “poveri stupidi” sia il modo peggiore per comunicare la scienza. Elevare il linguaggio, parlare di metodo scientifico, introdurre concetti epistemologici anche complessi – Feyerabend e’ stato un mio amore di gioventù – era non soltanto giusto ma anche necessario. Solo spiegando il metodo si potevano poi introdurre temi complessi. Ai bambini in un planetario non si doveva avere paura di parlare di diagramma H-R. In una radio comunitaria non si doveva avere paura di parlare di teoria delle stringhe. Bastava indirizzare la propria comunicazione a quelli che, per qualche motivo – colpiti magari da ispirazione sulla via di Damasco – decidevano di seguirti. Bastava catturare la loro attenzione per alcuni minuti, e già ne sarebbe valsa la pena. Ma quando si parla di divulgazione il discorso e’ totalmente diverso. La divulgazione e’ un mostro strano. E’ un linguaggio davvero borderline, che gioca all’iper-semplificazione, che tenta di spiegare cose complesse in maniera estremamente semplice, partendo dall’utilizzo di metafore, finendo a giochi di prestigio comunicativi che tentano di catturare l’attenzione per lo scopo più bello del mondo: affascinare e diffondere la scienza.

 

Avendo la fortuna di vivere nel Regno Unito – o sfortuna? aspe’ che ci penso… – ho visto il modello comunicativo che e’ in voga qui e sorprendentemente, nonostante io fossi convinto del contrario, non e’ molto diverso da quello italiano. Certo la scienza e’ più diffusa: giornali come Guardian hanno la loro pagina di scienza fissa e costante. Certo, c’e’ David Attenborough. Certo, c’e’ Patrick Moore. Ma la salsa e’ sempre la stessa: “spiego senza spiegare”, affascino, ipersemplifico perchè tanto il lettore non puo’ capire appieno quello che sto dicendo. Questo non avviene soltanto in Uk, ma in tutto il mondo anglosassone, che fa in fondo da traino. Parlo ovviamente della comunicazione generalista, quella fatta nelle tv, nelle radio e sui giornali. Ma essendo ancora oggi un malato di podcast mi rendo conto che quando il potenziale target e’ differente, il gioco cambia completamente, e ci si spinge nella divulgazione di concetti complessi ed estremamente specialistici. Podcast come “Big picture science”, “Command line heroes” o “Rationally speaking” sono soltanto alcuni dei brillanti esempi a cui mi riferisco.

Non riesco a staccarmi dall’Italia. Mi sento italiano fin nel midollo, e dall’estero vivo la situazione dello “stivale” a volte con speranza a volte con rassegnazione. Dicono sia importante fare esperienze, conoscere nuovi mondi, integrarsi in nuove culture. Ma farlo perché lo si decide e’ un conto. Farlo perché il tuo Paese non offre più opportunità e’ un altro paio di maniche. Detto questo vivere l’esplosione della pandemia del Covid-19 da dentro (il Regno Unito) e da fuori (l’Italia) e’ strano. E’ strano perche’ si leggono dati, si ascoltano interviste, si leggono pareri piu’ o meno fantasiosi e si vorrebbe urlare “basta fermatevi tutti, fate silenzio per favore”. Avviene quello che Alvin Toffler chiamava information overload e non si sa più’ dove sia il giusto, con che parametri analizzare i dati, con che approccio analizzare gli eventi che rapidamente cambiano. E poi si vede l’esplosione della comunicazione complottista, di quelli che proprio non ci hanno capito niente e che continuano a non capirci niente. Si ascolta la Capua e Montanari, Burioni e Bacco, la Gallavotti e Mazzucco. Poi si legge Agamben e Cacciari. Con che parametri devo interpretare il mondo che mi circonda?

Durante questo periodo di pandemia secondo me e’ stato fatto un grande errore: parlare troppo. A mio parere bisognava fermarsi e far silenzio. Invece fiumi di parole sono state spese per cercare di spiegare questa situazione, per comunicare cosa fosse un virus, cosa fosse un vaccino e quanto fosse importante indossare mascherine protettive sul volto. Erano tutti diventati virologi ed esperti di scienza, un po’ come fosse una partita di calcio, e ovviamente più parametri metti nel sistema più entropia finisci per generare nel sistema. Il mio passato da comunicatore e divulgatore scientifico mi ha letteralmente salvato. Mi ha permesso di tenere la barra dritta, di fare silenzio nella mia testa, di analizzare, come facevo un tempo le systematic reviews e gli abstract dei paper che avevano maggiore impact factor sull’argomento. La biblioteca Jstor infatti – Aaron Swartz sarebbe fiero di questo – ha deciso di pubblicare tutti i paper su argomento Covid-19 in open access, in modo da renderne accessibile la loro lettura a tutti. Grande avanzamento del “public science” di cui pero’, sui media si e’ parlato forse troppo poco.

Fermandomi un attimo anche dal punto di vista lavorativo – sono andato in completo burnout e ho dovuto lasciare per qualche mese – ho analizzato cosa stava accadendo. Da fuori pero’. E questo mi ha permesso di comprendere molto. Per esempio mi ha permesso di capire che tipo di comunicazione scientifica veniva realizzata. Comunicazione bianco-nero, come se la scienza fosse non il miglior modo, ma imperfetto, d’interpretare la realtà, ma come se fosse la panacea per tutti i mali. Come se insomma l’interlocutore fosse un perfetto ignorante, che doveva ricevere una comunicazione paternalistica mirata al concetto del “fidatevi perché ve lo diciamo noi”. Chi invece ha bazzicato la scienza anche da turista, sa benissimo che la scienza non e’ questa. Certo eravamo e siamo in situazione di emergenza ma il lupo (il virus) non mangia cappuccetto (gli esseri umani) perché e’ cattivo ma perché ha fame. E banalmente questo bisognava fare: evitare che si cibasse di noi.

Le mascherine ci proteggono dal virus. No, le mascherine erano il miglior metodo che avevamo per ridurre la diffusione del virus che si trasmette attraverso le droplets. Il lockdown impedisce al virus di diffondersi. No, il lockdown e’ uno dei metodi contenitivi migliori che conosciamo per rallentare la diffusione del virus. Il tampone testa la presenza del virus. Sì, non è un metodo perfetto, ma è il migliore che abbiamo al momento. I vaccini ci proteggono dal virus e sono sicuri. Si, ci proteggono dal virus ma non al cento per cento, ogni vaccino ha tecnologie diverse; e no, ovviamente come ogni medicina possono avere effetti collaterali.

Bastava poco in fondo. E invece no, convinti che, per qualche motivo, l’interlocutore non potesse comprendere, si e’ spostata la comunicazione sul vero-falso, su “la scienza e’ perfetta, fidatevi della scienza”. Come si stesse raccontando una favola, dove ci fossero i buoni e i cattivi, e dove per arrivare al lieto fine bastasse cambiare strada per non incontrare il lupo. Ma anche il lupaccio poteva cambiare strada, magari mettersi il vestito della nonna e mutare. Ed e’ ovvio che immettendo nel sistema un tipo di comunicazione di questo tipo, si favorisce l’esplosione delle comunicazioni alternative, alla Byoblu per intenderci, che fanno vedere le fallacie del sistema e che fanno passare il messaggio del “vedete, quello che dicono non e’ completamente vero, fidatevi invece di noi”.

Dobbiamo smettere di comunicare la scienza in questo modo. E dobbiamo anche smettere di pensare che i nostri interlocutori siano perfetti ignoranti, o, come si dice oggi, “analfabeti funzionali” e utilizzare questo momento storico per creare nuove modalità di comunicazione che vadano dritte al cuore, che non trattino il metodo scientifico come un’imposizione calata dall’alto ma come esso e’: un metodo, il migliore che abbiamo, per interpretare la realtà. Soltanto comunicando con onesta’, spiegando tutto, anche nei suoi difetti intrinseci, possiamo avere un ritorno di fiducia. Altrimenti non solo si fa un cattivo servizio alla scienza, ma anche allo scopo per cui stiamo comunicando scienza in questo preciso periodo: salvare vite.

Lara si siederebbe in mezzo al planetario e risponderebbe con dolcezza a tutte le domande. E voi cosa fareste?


leggi anche: sul metodo
https://www.labottegadelbarbieri.org/il-metodo-questo-sconosciuto/

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jolek78
Un tizio che pensava di essere uno scienziato. Si ritrovò divulgatore scientifico. Poi si addormentò su un aereo e si risvegliò informatico. Ma era sempre lui.

8 commenti

  • Mariano Rampini

    Finalmente una voce sensata. E il finalmente è doveroso. Perché ho la personalissima impressione che la comunicazione dei fatti avvenuta all’inizio della pandemia e compiuta dagli “esperti” sia stata in realtà una sorta di reazione al movimento no-vax che, non dimentichiamolo mai, già esisteva e aveva i suoi proseliti. In sostanza la comparsa del Covid ha permesso a chi prima si trovava a dover rispondere alle pretese di conoscenza dei no-vax (alcune di queste erano anche logiche ma mischiate a un insieme di nefandezze cervellotiche) senza avere uno strumento adeguato. Spiegare al colto e all’inclita – è un semplice esempio – che esiste nel mondo un sistema di controllo dell’influenza, sistema che agisce da un emisfero all’altro e che, via via permette di mettere a punto vaccini adeguati a virus che ogni anno presentano qualche differenza rispetto ai loro predecessori, non è facile. Perché l’influenza uccide, sì, ma in modo pressoché inavvertibile. Sciorinare l’intero corollario delle misure da adottare per contenere una pandemia era assai più facile. E così, al di là delle affermazioni contraddittorie poi via via spentesi con l’aumentare delle conoscenze intorno al virus (ricordo le affermazioni “destrorse” di Zangrillo che il giorno dopo s’è trovato a dover curare il suo illustre (?) paziente) l’unica forma di comunicazione è diventata quella dell’imposizione: mettete le mascherine per non diffondere il virus (tutti untori? si sarà pensato) e non mette le mascherine per difendere voi stessi ecc. com’è stato acutamente osservato nel post dell’amico (me lo permetta) Jolek78. Si è pensato solo a una comunicazione istituzionale senza studiare una strategia che sapesse coinvolgere la popolazione che è stata abituata ormai da anni a diffidare da chi possiede un qualsiasi sapere. Come spiegare in altro modo la reazione dei no-vax? La loro diffusione? Le paure che un vaccino ispira? Chiunque sia abituato a parlare di scienza e, in particolare, di scienze biomediche sa bene (lo spero. almeno alla luce delle mie personali conoscenze nel settore) che il sistema vaccinale ha avuto periodi di buio estremo: basti pensare a quanto accadde all’inizio delle vaccinazioni anti-polio che causarono un numero nient’affatto trascurabile di eventi avversi. Eppure poi arrivò il buon Sabin a regalare (un gesto che sarebbe stato auspicabile in questa situazione) il suo vaccino al mondo. Sono questi i fatti da cercare e raccontare, con attenzione alla verità. Certo, l’emergenza e tutto il resto hanno lasciato poco tempo per disporre un’adeguata strategia comunicazionale. Ma passato il primo momento, visto l’avanzare della ricerca nella produzione di vaccini efficaci (per quanto? Noi ci vacciniamo ogni anno contro l’influenza, non si dimentichi), si sarebbe dovuto pensare a spiegazioni che sapessero convincere la gente, coinvolgerla con campagne e quant’altro. Chiudo questo mio commento (ancora bravo Jolek78) sottolineando un ultimo elemento: la responsabilità di vite perse da attribuire a tutti coloro che hanno sparso la paura o, almeno, hanno fatto crescere quella esistente. E non parlo della paura del virus ma di quella verso l’estraneo, il diverso. E’ stata quella la base sulla quale hanno prosperato e prosperano i virus dell’incultura e dell’inciviltà…

    • troppo buono 😉
      trovo infatti che tutto questo tipo di comunicazione, tipico di chi sbrigativamente risponde “perche’ si, e non far domande” abbia dato della scienza un’idea sbagliata, e successivamente abbia creato nel pubblico un’aspettative che, ovviamente, non potevano essere esaudite. si e’ persa una grande occasione, ed e’ un peccato assolutamente non veniale.

  • Contenuto azzeccato. Però è insufficiente per il titolo, il quale in realtà dovrebbe farci pensare che di fronte alla pandemia oltre la scienza c’è anche la politica. E che la politica si è appoggiata al modo di “divulgare” la scienza che qui viene criticato, imponendo provvedimenti politici ingiustificabili e scelte sanitarie inconcepibili (mi limito, per intenderci, all’approccio “tachipirina e vigile attesa”). E che i cosiddetti “alternativi” hanno quindi ottime ragioni per scavare nelle contraddizioni e nelle omissioni di stampo medico.
    Chi si definisce “de sinistra” può pensare a Melenchon, in Francia.
    Insomma sì, “il problema non è il virus” ma non basta una rivisitazione comunicativa per far quadrare tutto, men che meno per creare fiducia.

    • certo, vero, c’e’ anche la politica. ma infatti nel post ho lasciato fuori la politica proprio perche’ (a mio parere, ovvio) e’ stato principalmente un problema di comunicazione. comunicazione adottata da molti scienziati – non tutti, la dott.ssa Gallavotti, per esempio, e’ stato un ottimo esempio di comunicazione fatta bene – e da molti politici che ripetevano cose sentite e consigliate dai loro spin-doctor. nel post precedente, quello sul metodo, consigliavo di far silenzio invece che parlare a sproposito di tutto perche’ e’ giusto parlarne. credo che, in questo momento di estrema specializzazione, sia importante che ognuno parli solo se ne ha le competenze.

  • angelo maddalena

    consiglio un libro che ne comprende altri: A piedi in un mondo sospeso, Appunti e canzoni di un anno terapeutico, e c’è anche il cd con 13 canzoni, più “divulgativo” di così? e perché no il monologo tratto in parte dal libro: il canto degli invisibili, Pasolini addio, ieri in scena al Teatro di Sacco (nel giardino!) di Perugia. La prefazione del libro, preziosa e azzeccata, è del nostro Db

  • Giuliano Spagnul

    Che dire? Forse occorrerebbe riprendere in mano l’amore giovanile per Feyerabend e aggiungere una buona dose di Isabelle Stengers. Ma non voglio entrare nella discussione sul metodo, il migliore che abbiamo, per interpretare la realtà, mi limiterei a sostituire il “migliore” con il più “potente”. Qui per questo commento mi limito ad alcune osservazioni sulla questione covid: le mascherine sono utili dispositivi medici solo se vengono usate correttamente e per farlo a livello di tutta la popolazione (non del personale medico) occorre che vengano usate il meno possibile, nelle situazioni più critiche, altrimenti sono controproducenti e assolvono solo a una funzione apotropaica. Stesso discorso sul lockdown, siamo un paese tra i più ricchi e potevamo fare dei lockdown mirati, mettere le persone contagiate in situazioni assistite e non lasciate a se stesse ecc.; se la situazione è sfuggita di mano (per quali motivi?) non significa considerare il lockdown una misura valida. I vaccini non possono essere l’unica arma e neanche la principale (e già il termine arma dovrebbe farci riflettere sull’idea di scienza che abbiamo), la medicina territoriale ha dimostrato, dove è stata praticata, la sua particolare efficacia (ma quali media ne hanno parlato?). E l’dea del vaccino in sé, come rimedio di tutti i mali, ci pone una serie di problemi enormi, a partire da un’idea di onnipotenza della medicina al pensiero che tutto sommato anche se facciamo disastri ambientali da cui possono derivare sempre nuove malattie il rimedio c’è sempre.

  • Grazie jolek78, davvero un ottimo post.
    Anche nella comunicazione della scienza sono la supponenza e la presunzione i veri peccati mortali.

    • molto vero Andrea. sopratutto quando i messaggi si contraddicono fra loro, e nonostante questo sono comunicati col piglio del “cosa ne vuoi sapere tu, ascolta e stai zitto”. che tecnicamente puo’ essere anche vero, il dibattito scientifico si fa fra peers, ma la ricerca e la comunicazione scientifica sono strade diverse da affrontare con linguaggi diversi.

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