Satchmo forever

Armstrong (Louis) va a suonare sulla Luna il 6 luglio 1971. Giovanni Carbone lo ricorda così

Theodor Wiesengrund Adorno l’ho adorato e lo adoro, tanto che mi spilucco i suoi Minima moralia come una beghina si sgrana il rosario in modo acritico, capace d’esaltarsi financo all’apologetica sottolineatura mantrica d’un Sambudello. Poi m’arriccio e m’adombro, m’indispettisco stizzito se mi parla del jazz come cosa degradante, puro piacere estetico, alla stregua d’esperienze pornografiche e gastronomiche. Musica-merce, come certe canzonette volgari, lontana dalle dinamiche autentiche d’umanità oppresse, asservita ad una concezione dei rapporti sociali capitalistici, subdolamente veicolante i contenuti esiziali del consumo a prescindere. Mi faccio d’improvviso eretico al pensiero di Coltrane e Mingus seduti con espressione inebetita sui banchi d’un supermercato, mi ateizzo di botto se m’immagino Gillespie alla stregua d’un imbonitore per saldi di pentole e materassi. Poi, dopo il primo acchito di repulsa, l’abbattimento del totem ed il superamento d’una dipendenza liturgica in favore del vizio puro, mi rassereno, mi rifaccio razionale, e m’avvedo che tale critica furibonda, il tedesco se la concepiva in quel ventennio tra anni trenta e primi cinquanta in cui ancora Mingus non solleticava utilmente le corde del contraddittorio, della dialettica in controtempo. Ed è chiaro che Adorno adduceva le sue ragioni di negazione d’arte per il jazz allorché, al suo orecchio perfetto, s’avvicendavano, effimere e suadenti, le partiture semplici e ripetitive di certe orchestrine swing, con patinature che, senza porre questioni di discernimento particolare, sapevano della voce cavernosa e della tromba ruffiana di Louis Armstrong. Dunque, in siffatto modo rappacificato coi miei credi, pure m’azzardo ad avallare le critiche furibonde del Francofortese. E se le gote più gonfie del mondo riferivano di nostalgie profonde e malinconiche per i bei tempi andati in certi sobborghi di New Orleans, già mi prefiguro le corse dal dermatologo per certe eruzioni cutanee, sobbollenti sotto traccia, di uno qualsiasi dell’ampia tribù dei Marsalis. Che certo, lui, era rivendicativo e vertenziale, difensore della causa di ex – ma non troppo ex – schiavi, non più di quanto non lo fosse Pippo di Topolino, piuttosto pareva l’esatta riproduzione al maschile di Butterfly, la domestica di Rossella O’hara.

E allora pace fatta, tutto a posto? E no, che rimangono dubbi, che m’arrovello d’incertezze. Che se fino ad ora il ragionamento a me pareva non facesse una grinza, manco una pieghetta rasa rasa, se m’ero accodato nel derubricare le strombettate dell’omonimo del passeggiatore lunatico, a pura e semplice mercanzia d’asporto, più d’una cosa, a cinquant’anni dalla sua dipartita, non mi torna. Semmai mi sovviene che quando bambineggiavo intorno al giradischi della Selezione del Reader Digest, dalla puntina abbassata senza garbo dalla mamma, gracchiava quella tromba, ed a me mi si muovevano le gambe. Era come se ci fosse qualcosa di magico e misterioso in quella roba, prima che l’età della ragione m’inducesse ad espellerla a lungo per consapevolezze – quanto spontanee non saprei dire -, che non m’evitava di ridere come se mi facessero il solletico sotto i piedi. E il “No, Satchmo no”, piano piano, lentamente, s’è spento, né più mi viene di saltare al brano successivo d’una compilation quando quel tappeto di velluto si fa suono. Pure mi si allarga il riso se mi prefiguro il faccione da palla da basket che campeggiava sulla copertina d’un vinile, più d’uno, anzi. Pare proprio vero che quando s’invecchia si torna bimbi.

Forse era un conformista Armstrong, e sottolineo il forse, che ormai non ne sono manco più così sicuro. Che certo non rilasciava dichiarazioni roboanti a difesa della sua gente. Ma all’apice del successo, durante i disordini razziali degli anni ’50, non esitò a mandare a quel paese il governo americano dopo aver visto un bianco sputare in faccia ad una studentessa nera. Quindi non staccò nemmeno il biglietto per un tour in Russia organizzato dal dipartimento di stato, ed in piena guerra fredda, se non significava esattamente “mi scelgo io qual’è il mio paese”, certo somiglia parecchio ad un “so comunque chi è la mia gente”. Ed è difficile non ammettere che il suo stile, così apparentemente semplice e ripetitivo, alla fine ha consentito di creare i presupposti perché il jazz divenisse musica libera ed universale, persino entrando nelle viscere e rivoltandole di chi apparve come il perfetto contraltare del Nostro. Non credo sia così scontato che, senza quell’esperienza Ragtime, avremmo ascoltato un giorno le furibonde tirate di Ornithology, nemmeno le ovattate atmosfere di Ascenseur pour l’échafaud. Pure, nell’evidenza che i dischi comunque li incidevano i bianchi, lui fa d’aprifila, abbatte una frontiera che non era scontato che in una certa America potesse crollare. Se poi non s’è messo a rivendicarlo per se e per altri, al limite, chi se ne frega, se quel faccione m’ha fatto ballare e sorridere, e qualche volta lo fa ancora. E manco stavo nella pelle quando, ad un paio d’anni dalla sua scomparsa, ho scoperto che il vecchio amico inglese, assiduo frequentatore d’ogni jazz club minimamente rispettabile d’Oltremanica, e con cui dividevo fiaschi di vino e jazz nella bettola sotto casa, prima del suo ultimo viaggio, aveva dato disposizioni che mi si recapitassero tutti i suoi vinili e centinaia di musicassette dell’ “odiato” jazz dell’adorato Adorno. E, fatto ovvio che ve n’erano parecchie di Satchmo, non ho resistito alla tentazione di procurarmi un vecchio mangianastri in un mercatino di vecchiumi che, premi un tasto, poi un altro, fa pendant con le atmosfere fumose di casa mia, e colonna sonora per certi whisky torbati, mentre mi scappa quello strano fenomeno che le gote mi si gonfiano a pallone da basket.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

IL COLLAGE qui sopra è di Pabuda

 

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