Scherziamo?
di Sergio Mambrini
C’era stata un’età dov’era permesso tutto. Fu proprio allora che conobbi il Tojo. Il suo nome vero sarebbe stato Vittorio, ma nessuno lo chiamava così. Ci sembrava un nome che lo allontanava da noi.
Tojo era d’altezza media. In verità, tutto di lui rientrava nella media. Si divertiva come noi, giocava a calcetto, correva con la bici lungo i viali, usava le carte da briscola con sufficiente bravura, lavorava a bottega ma appena poteva era uno di noi, come pure la domenica e tutte le ore che riusciva a rubare al padrone. Quando il suo capo andava altrove, lui chiudeva bottega e si precipitava al nostro punto fisso di ritrovo che era un bar. Non un wine-bar, proprio un bar, con le seggiole di legno, le poltroncine esterne in tubolari di ferro neri con lo schienale e il sedile fatti di morbide corde di plastica colorata, la saletta del biliardo e un grande televisore sulla mensola ad angolo del bancone. In quel bar si bevevano gazzose, rare aranciate e qualche granita alla menta. Alcuni di noi, appena adolescenti, si giocavano le raccolte di Tex Willer o del Grande Black a sette e mezzo, seduti sui lunghi scalini d’accesso al bar. Il sette e mezzo era una specie di poker con le carte da briscola, che spesso catturava anche l’attenzione dei ragazzi più grandi, come il Tojo, appunto.
Lui era uno specialista a fare i materassi di lana o di crine vegetale e a imbottire le poltrone. A quell’epoca, sul finire degli anni cinquanta, sembrava un mestiere con un buon giro d’affari. Serviva tanta pazienza e sensibilità per ottenere un sedile confortevole o un materasso giusto per il sonno. Tojo possedeva entrambe queste caratteristiche, oltre una certa fortuna a briscola. Quando giocava a biliardo con le boccette era infallibile, chiaro segno di quella sensibilità che tutti gli riconoscevano nell’imbottire i materassi.
Tojo però sbordava dalla media per via della testa. Il suo collo molto allungato sosteneva una zucca bislunga così imponente da oscurare ogni altra qualità fisica. Con quell’inconsueto trofeo conquistava subito la simpatia di tutti, anche perché rideva di se stesso con bonaria noncuranza. Malgrado quell’imponente volume, il suo cervello pareva essere rimasto modesto, complessivamente mediocre. Possedeva tutte le qualità positive di un amico. Era dotato di una fiducia smisurata nel suo prossimo, generoso come nessun altro, sensibile e curioso nello stesso tempo, disponibile a ogni necessità, mite e mai permaloso o sospettoso. Queste doti non erano controbilanciate da una sufficiente riflessione guardinga. Talvolta mancava di acume, soprattutto nei momenti in cui era necessario. Un giorno eravamo seduti al nostro bar, quando lo vedemmo arrivare a piedi con l’Aquilotto, una via di mezzo fra la bici e il motorino. Aveva la faccia nera di fuliggine e il ciuffo di capelli bruciacchiato. L’Aquilotto, non suo ma di proprietà di Edi, si presentava in uno stato pietoso. Cercò di giustificarsi ma l’effetto riuscì comico per tutti. Edi aveva prestato il motorino a Tojo perché lo provasse, ma quando arrivò sul Te, la zona dei campetti di calcio, si spense. Sicuro d’essere rimasto senza miscela svitò il tappo dal gracile serbatoio e si mise a scuoterlo per capire se fosse asciutto.
«Maa che io… non capivo se era vuoto, allora ho acceso l’accendino per vedere meglio, ma il serbatoio è scoppiato». Quando era emozionato ogni suo ragionamento cominciava con «maa che io…», tanto da rendere ancora più buffo il resto del discorso. Perfino Edi, che aveva il motorino semidistrutto, rideva a crepapelle. Quell’altra volta che decidemmo di fare una gara in bici sulla tortuosa strada per Buscoldo, a un certo punto del percorso Tojo decise di scattare. Così facendo seminò tutti. Però al traguardo di lui non c’era nemmeno una minima traccia. Lo trovammo sulla strada di ritorno, tutto grondante d’acqua e fango, con la bici condotta a mano.
«Maa che io… andavo forte, a testa bassa. Non ho visto la curva e sono finito nel fosso». Lo guardammo preoccupati e tutti insieme gli chiedemmo dov’era caduto, poiché nessuno di noi l’aveva visto lungo tutto il percorso.
«Maa che io… mi sono attaccato alla sponda per non farmi vedere da voi, altrimenti mi prendevate per il culo». L’effetto della battuta fu tale da scompisciare tutti dalle risa. Poi una sera andammo al cine, al solito modo. Insofferenti a ogni obbligo, sbirciammo il momento in cui la maschera si girò e…zac! con uno scatto fummo già seduti nella sala di proiezione. Uno per volta passammo tutti. L’ultimo fu il Tojo, che però non arrivò mai a vedere il film. Il giorno dopo gli chiedemmo spiegazioni.
«Maa che io… appena ho messo fuori la testa dallo spigolo del muro, mi ha beccato e mi ha fatto scappare, sennò mi mollava una sberla». Conoscendo ben bene le dimensioni della sua crapa fu proprio lui a ridere per primo.
Una sera d’estate decidemmo d’andare al cine all’aperto. L’arena si trovava a fianco dei giardini Belfiore. Vedemmo un film americano colmo di atti d’eroismo. Poco dopo, all’uscita cantammo le strofe della vittoria, tema della colonna sonora. Tojo sembrava esaltato. Con una fugace occhiata d’intesa lo prendemmo in spalle per portarlo in trionfo. Eravamo più di quindici amici. Fu facile. Lo scaraventammo oltre la staccionata di un cantiere e fuggimmo a piedi ridendo.
Tojo, il giorno dopo, ci mandò a cagare ridendo. Ci fu un’età dov’era permesso tutto.