Schiavi del sottocosto
Saverio Pipitone sui libri «Il grande carrello», «Lo sfruttamento nel piatto» e «Oro rosso» e sul rapporto «Agromafie e caporalato» (*)
Con il titolo Spesa da Oscar, sotto una statuetta dorata a forma di carrello, l’associazione dei consumatori Altroconsumo ha pubblicato – nell’omonima rivista di ottobre 2020 – una inchiesta per scegliere i supermercati più economici: in pole position c’è Aldi, discount tedesco della famiglia miliardaria Albrecht, che è sbarcato in Italia nel 2018, con l’offerta di «prezzi bassi tutti i giorni», provocando l’innalzarsi del livello di competizione fra insegne distributive.
Quasi sempre l’unica strategia di marketing e pubblicità della GDO (grande distribuzione organizzata) è l’abbattimento del prezzo, per accaparrare e appagare i consumatori con l’illusorio premio del risparmio – qualche spicciolo per ogni acquisto – e imponendo all’intera filiera una logica del ribasso con pesanti e ripercussioni in termini di costi umani, sociali e ambientali.
I giornalisti Fabio Ciconte e Stefano Liberti nel libro Il grande carrello (Laterza – 2019) svelano la realtà dietro gli scaffali, spiegando che: «In un approccio di sistema, se i prodotti sono a basso costo è tutta un’economia a risentirne. E alla fine, la stessa qualità: perché l’industriale che vende al ribasso alla GDO si rifarà sull’agricoltore e sul fornitore di materia prima. E quest’ultimo cercherà in tutti i modi di aumentare le rese, incrementando l’uso di prodotti chimici e riducendo al massimo le spese accessorie. Produrrà quindi sempre di più una merce, prodotto indistinguibile per qualità e il cui valore si misura solo in quantità, perché il costo a cui la vende sarà legato sempre più unicamente a quest’ultima variabile. È ancora una volta la “trappola della commodity”».
Ad esempio un barattolo di passata, polpa e pelati di pomodoro è in media venduto al consumo sotto i 50 centesimi o appena 1 euro, a seconda del formato, con un prodotto deprezzato che sbilancia la catena del valore a svantaggio degli anelli inferiori poiché quasi la metà del ricavato va nelle casse della distribuzione, circa il 40% all’industria di trasformazione, di cui una parte per imballaggio e logistica, mentre solo un 10% è per la materia prima agricola con contraccolpi finali di depauperamento sul bracciante e sulla terra che lavora.
Qualche tempo fa, nella località pugliese di Nardò, in piena estate a 40 gradi con sole battente, il quarantasettenne sudanese Muhamed Abdullah, mentre raccoglieva pomodori, morì per un malore. La perizia medica certificò che soffriva di polmonite aggravata dalle condizioni lavorative. Muhamed aveva il permesso di soggiorno, ma nessun contratto e lavorava in nero per 12 ore al giorno, privo di protezioni antinfortunistiche e acqua per refrigerarsi, sotto la sorveglianza di un caporale. Le investigazioni giudiziarie portarono dall’aguzzino padrone a una cooperativa di smistamento verso importanti industrie nazionali, che dichiararono di conoscere solo il loro primo fornitore, facendogli firmare un codice di condotta, senza disporre di ulteriori dati sui passaggi di filiera. La stessa insufficienza informativa è sulle etichette delle merci vendute al supermercato, nelle quali è a malapena indicato il nome o l’indirizzo dello stabilimento produttivo.
L’infelice storia di Muhamed è raccontata nel libro Lo sfruttamento nel piatto (Laterza, 2020) del giornalista Antonello Mangano, reportage di un viaggio dalla Sicilia alla Calabria e Puglia fino in Toscana e Piemonte, negli agrumeti, vigneti, frutteti e campi di pomodori, per indagare e tracciare – tramite interviste, incontri e testimonianze – la tortuosa ed opaca filiera agroalimentare fra incidenti, intimidazioni e sopraffazioni, con un asservimento che, scrive l’autore, «non è un problema che riguarda soltanto i migranti. In agricoltura un lavoratore su sei è straniero. Ma gli altri, la stragrande maggioranza, sono ancora italiani. E anche loro spesso sono vittime dello sfruttamento e del caporalato».
L’Italia da nord a sud, in base al rapporto Agromafie e Caporalato dell’«Osservatorio Placido Rizzotto Flai-Cgil», ha un tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura del 39% e per oltre 400.000 lavoratori (uomini e donne) c’è il rischio di finire nella morsa del caporalato, fatta di estenuanti turni giornalieri, per una misera e illegittima paga intorno ai 25 euro, talvolta ricevuta in ritardo o in modo parziale; frequenti abusi verbali o fisici e persino violenze sessuali; situazioni igienico-sanitarie e abitative, soprattutto per gli stranieri, con fatiscenti tendopoli o container sprovvisti perfino di energia; accade in contesti cittadini e istituzionali di omertà per paura o interesse.
Nel visitare una grande baraccopoli nelle campagne calabresi, fra Gioia Tauro e Rosarno, Mangano annota un particolare: «Tutto era in ombra, anche di giorno». Una oscurità che aleggia pure su altri Paesi mediterranei, come Marocco e Spagna, che sono i maggiori esportatori europei e mondiali di ortofrutta, raccolta e confezionata prevalentemente da donne, molto spesso molestate e ricattate.
A loro dà voce la giornalista Stefania Prandi nel libro d’inchiesta Oro rosso (edizione Settenove, 2018): «Vorremmo dire a chi compra di mettersi anche solo per un attimo nei nostri panni». I consumatori, per quanto siano l’ultima fase della filiera, hanno il potere di influenzarla in risalita mediante le proprie scelte di acquisto, ma per farlo occorre un’etichetta esaustiva e trasparente su origine e movimenti dei prodotti ed attori coinvolti, perché «non è accettabile – conclude Mangano nel libro – un mondo dove si muore per abbassare il prezzo di un barattolo di pomodori».
(*) ripreso da saveriopipitone.blogspot.com
Con il settimanale «Left» è in edicola (124 pagine per 6,90 euri) il libro «BRACCIA RUBATE. Donne, uomini e caporali» a cura di Leonardo Filippi: materiali ottimi e in qualche caso sconvolgenti, storie e proposte. Leggetelo anche come integrazione ai tre libri qui citati.
Ecco il SOMMARIO
Introduzione di Leonardo Filippi
FABBRICHE DI SFRUTTATI
Una storia di ordinario schiavismo di Osservatorio Placido Rizzotto
Come (non) si vive con 15 euro al giorno di Eva de Prosperis e Lorenzo Giroffi
Persone oltre le braccia di Leonardo Filippi
Caporalato S.p.a. di Andrea Cagioni
COSA SIGNIFICA VIVERE IN UN GHETTO
Rocco e i suoi fratelli nello slum di San Ferdinando di Angelo Ferracuti
«Essere cacciato è il mio destino» di Stefano Galieni
UNA SANATORIA DAL FIATO CORTO
Ma gli stranieri non ci avevano rubato il lavoro? di Leonardo Filippi
Prima invisibili e sfruttati, ora visibili e ricattati di Stefano Galieni
Una sanatoria che non libera nessuno di Simone Schiavetti
ALLE RADICI DEL CAPORALATO
Una regione nella morsa dello sfruttamento di Leonardo Palmisano
Protesti? Prima ti meno poi ti licenzio di Marco Omizzolo
Caporalato, la rivoluzione mancata di Leonardo Filippi, Maurizio Franco, Maria Panariello
Diritti al macello nell’Emilia che fu rossa di Simone Fana
Campi di battaglia, cosa (non) si fa contro il caporalato di Leonardo Filippi
Voucher, semaforo verde al lavoro nero di Mauro Sentimenti
Quei lavoratori consegnati dal governo alle agromafie di Leonardo Filippi
Denunciare i caporali sarà ancora più difficile di Youssef Hassan Holgado
Lotta al caporalato, solo false promesse di Leonardo Filippi
Il pollice gialloverde per l’agricoltura insostenibile di Antonio Onorati
Caporalato, un anno di chiacchiere giallonere di Leonardo Filippi
IL RUOLO DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE
Gli anelli deboli di Checchino Antonini
Quelli che pagano il prezzo più salato di Leonardo Filippi
Il lavoro rende poveri di Leonardo Filippi
Uscire dal neoliberismo non è una utopia di Checchino Antonini
Perché non si torna alla produzione agricola locale die piccoli/piccolissimi proprietari terrieri
con un rapporto diretto o semidiretto (mediazione di piccoli negozianti locali) con il consumatore locale?
Si taglierebbe così la fetta di profitto riservata al gran capitale e a tutta la filiera produttiva/commerciale attualmente esistente, cose quest’ultime che non avrebbero più senso di esistere a tutovantaggio sia di chi produce e di chi consuma.
Spesso il problema è di scelta politica di fondo. E il problema dello sfruttamento delle persone e del territorio rimane tale finché non si ha il coraggio e la volontà di cambiare e cose. In se come si può vedere la soluzione è piuttosto semplice: BASTA VOLERLA.
Agli inizi degli anni Zero in Italia, sulla scia dei movimenti altermondialisti e zapatisti, nacquero delle esperienze importanti come Genuino Clandestino e altre, che misero al centro l’intersezione tra i discorsi dello sfruttamento intensivo della t/Terra e quello degli esseri umani, perpetrato dal sistema capitalista, in particolare dalle multinazionali agrochimiche, agroalimentari e del biotech ( i brevetti sui cibi transgenici erano un altro dei temi interconnessi).
Ma si diceva principalmente che tutto quello che si diceva non serviva senza farlo – in primis uscire dal collaborazionismo con la Grande Distribuzione – senza un cambiamento degli stili di vita che partisse da sé, dal proprio modo di stare al mondo, quindi un cambiamento materiale ma anche “spirituale”, di fuoriuscita dalla logica dominante e predatoria, sia individuale che clandestina.
Perché “sei” anche quello che “compri”.
Mi viene una domanda che oggi rasenta quasi la comicità: dove si trova la coscienza di incidere sulla salute delle persone e del mondo, il senso di responsabilità sociale, economica ed ecologica, nelle “sinistre” attuali mainstream (da Potere al Popolo al PD)?
Sono sepolte dalle psicosi e dalle fobie che le hanno rese conformi a tutte le narrazioni capitaliste?
Dove sono le pratiche di vita alternative al di là delle chiacchiere green e antirazziste di facciata?
Dove sono il senso di responsabilità e l’ecologia della mente in mezzo agli haters che urlano “untori” e “negazionisti” a chiunque semini timidamente dubbi riguardo alle narrazioni del capitalismo immateriale hitech/biotech, rispetto alle forme di controllo biopolitiche imperanti?