Sconfini

di Guergana Radeva

Ti lasci trascinare dalla folla in movimento, ami tuffarti nei suoi colori e odori che scompigliano l’artificiosa perfezione del terminal inondato di luce algida, ma sopratutto ami bagnarti nei suoni d’ogni dove. Attraverso il linguaggio l’uomo prende coscienza di sé, l’ego nasce per contrasto e vive per confronto e smarrirsi nel brusio multilingue della folla è come smettere momentaneamente di essere, ciottolo liscio e anonimo rivoltato dalle correnti sonore. Poi, al punto di controllo il fiume umano si placa, catturato e incanalato. Cittadini UE a destra. Cittadini non UE asinistra.

Il rivolo davanti a te corre svelto e senza ostacoli, dovresti esserne lieta e invece sbirci la fila parallela con aria vagamente colpevole e una disagevole impressione di trovarti fuori posto, quella assurda sensazione di non conformità che ti assale ogni volta che stai per attraversare una frontiera. Non dovresti essere succube di umori del genere, al limite potrebbero esserlo loro, gli altri, i non UE, le madri nei loro vani tentativi di zittire la prole vociante, i padri che stringono in mano ventagli di documenti, forti di una responsabilità nuova, ancora tutta da inquadrare, e anche gli uomini e le donne che aspettano silenziosi, ognuno nella propria bolla di solitudine, la conosci, si è appena formata, ma è già come se ci fossero dentro da secoli. Le due file procedono asincrone, ma invisibilmente concatenate, nella tua, le donne in carriera con i portatili e le valigette firmate che rientrano al millimetro nei limiti del bagaglio a mano consentito, e mentre loro lavoreranno lontano per mantenere la famiglia, le donne della fila parallela baderanno ai loro figli e ai loro anziani genitori, lavorando a migliaia di chilometri da casa per mantenere la famiglia della quale si prenderanno cura altre donne lontane mentre…

Il poliziotto nel gabbiotto di vetro sopprime uno sbadiglio e ti restituisce la carta d’identità senza manco guardarti in faccia. La vita è tutta un mentre, ti senti tentata a dirgli, un affinché, un siccome fintantoché, la vita non è che una congiunzione, copulativa, avversativa, disgiuntiva, congiunzione attraverso quale cerchiamo un modo fluido per legare il passato al futuro, evitando diligentemente di inciampare nel presente… questo vorresti dire all’uomo in divisa che non ti nota neppure, intento a scavalcare il proprio presente, e invece non dici nulla, irritata con te stessa per l’irrazionalità delle tue ansie. Sei una cittadina UE, anzi, lo sei doppiamente, hai due cittadinanze, una bulgara e l’altra italiana. Hai due carte da giocare, due identità, due lingue, due riflessi nel vetro … e anche se da anni usi le lenti a contatto, ecco che ti stai aggiustando gli occhiali, passi nervosamente la mano fra i capelli corti, imbionditi dai colpi di sole, ma le ciocche lunghe si riversano ombreggiando la diffidenza spinosa degli occhi color castagna che spiano l’uomo in divisa sfogliare il passaporto, indugiare sulla foto, fissarti per tornare di nuovo a esaminare le pagine. Finalmente il tocco rude del timbro sulla carta ti salva dall’assurda preoccupazione di non somigliare abbastanza a te stessa.

Buona permanenza” dice il poliziotto, porgendoti il passaporto.

Resti impalata davanti allo sportello, cercando di capire il significato delle sue parole. Sbatti le palpebre confusa, hai la gola secca. Vorresti correrti in aiuto, tradurre, spiegare, ma il vetro del tempo ti rigetta, improvvisamente elastico come un muro di gomma. Sarà difficile, lo sai, cercherai le parole come una bambina, dapprima a gesti e suoni poco articolati, le saggerai, le trasformerai e prendendo sempre più confidenza finirai per amarle, attraverso esse getterai ponti e ti aprirai all’altro, al nuovo e al diverso… ma intanto ti guardi fare qualche passo incredulo e passare finalmente oltre, il passaporto stretto nella mano sudata come se fosse in grado di volare via. Ti fermi per permettere al cuore di rallentare e per aspettare Albena. Il poliziotto le sta domandando qualcosa attraverso il vetro. Non sei in pensiero, a differenza di te, lei l’italiano lo mastica alla grande, ha lavorato un anno intero in giro per l’Italia. L’Italia! Cerchi di ricomporti, scacci il sorriso dalle labbra, ma eccolo che riappare birichino negli occhi e da lì non puoi ne vuoi mandarlo via. Poi le scintille radiose si consumano e nelle tue pupille fluttua incerto il riflesso di Albena, per sparire quasi subito dietro una porta dalla scritta incomprensibile insieme ad un uomo in divisa blu scuro. Rimani lì, ferma e speranzosa, poi ti muovi per non dare nell’occhio. Non hai nulla da temere, hai i documenti in regola e un visto che ti permetterà di lavorare legalmente, eppure ti aspetti che da un momento all’altro qualcuno ti blocchi per rimandarti da dove sei venuta.

Quanti anni sono passati? Lo sai con precisione, ma ogni tanto rifai lo stesso i conti, lasci correre la memoria nella speranza di incontrare lo sguardo di quella ragazza seduta composta vicino all’uscita della sala arrivi, ginocchia strette, giacca diligentemente abbottonata, la punta della scarpa che sfiora la valigia con intento protettivo, come per negare il prolungarsi inspiegabile dell’attesa. La curiosità, l’impazienza e l’entusiasmo squagliate in una pozza di ansiosa incertezza. Vorresti sorriderle, semplicemente, per darle coraggio, per farla sentire meno sola, ma lei non alza lo sguardo, intenta ad aspettare. Un’ora. Due. Poi trascinandosi dietro la valigia si dirige verso il bar. Legge accuratamente il listino esposto, controlla le ventimila lire nel portafoglio. Un cappuccino, un panino, due banconote da cinquemila lire e una manciata di monetine di resto. Il cappuccino è favoloso, denso, cremoso con una spruzzata di cacao in cima, niente a che vedere con il caffelatte che a Sofia chiamano cappuccino, mangiando il panino, scopri l’esistenza del prosciutto crudo, di prosciutto ne conoscevi solo quello cotto, il dizionario tace avvilito, ma è scusato, non essendoci un termine equivalente in bulgaro. Poi, avviandoti a cercare la toilette, scopri la libreria e ne rimani incantata. Il fatto di non capire la lingua non è un ostacolo, prendi i libri in mano, ne accarezzi le pagine, ne assorbi l’anima attraverso i sensi e quando esci non hai più le banconote, ma in cambio hai in mano un libro. Poco importa che non sei in grado di leggerlo, lo sarai! Leggerai e scriverai perché si scrive per la stessa ragione per la quale si intraprende un viaggio, la ricerca di una propria dimensione, e anche perché se non si può rivivere un ricordo o un sogno nel tempo e nello spazio, lo si può fare attraverso linguaggio. Scriverai sui posti di lavoro, sui blocchetti delle ordinazioni, sulla carta da imballaggio, sui tovaglioli di carta e persino sui palmi delle mani, scriverai mischiando bulgaro e italiano, guardando la nuova lingua confinare sempre di più la lingua materna e assorbendo per osmosi la musicalità del quotidiano per improntarla su questi tuoi foglietti scarabocchiati e odorosi di frittura, che a casa trascriverai, battendo sui tasti della vecchia Olivetti, mentre i vicini batteranno in risposta sulle pareti, per far cessare quel rumore infernale. Sarai sempre a corto di bianchetto, controllerai l’ortografia parola per parola, lettera per lettera finché il dizionario inizierà a perdere le pagine spiegazzate, e quando non ne avrai più la necessità, lo conserverai lo stesso come un libro sacro da tramandare.

Lo squillo invadente di un cellulare smaglia le reminiscenze, riportandoti nel presente. Intenta a comunicare con interlocutori invisibili, la gente intorno apre e chiude ritmicamente le labbra come se stesse parlando da sola. Se ai tempi ci fossero stati i cellulari Albena ti avrebbe chiamato subito per dirti che le avevano negato l’ingresso e sopratutto avrebbe avvertito di venirti a prendere, e invece i cellulari non c’erano, fatta salire sul primo aereo per Sofia, Albena aveva potuto telefonare solo una volta arrivata a destinazione. Diverse ore più tardi queste cose te le aveva raccontato in una specie di russo sovraccarico di consonanti, il polacco che è arrivato per accompagnarti a destinazione. Lavorava per l’agenzia che ti aveva anticipato il denaro per il visto e il viaggio, da qui in poi stava a te sdebitarti.

Il resto sono giorni, mesi e anni di fatica e confronto, code all’alba davanti a questure ancora addormentate, miti da sfatare, punti fermi da inventare, abitudini da rimodellare, identità obsolete da smurare, barriere da sfidare per potersi, sconfinando, reinventare.

Primo premio al VI Concorso letterario nazionale «Lingua Madre», Torino, 2011; è stato pubblicato in «Lingua Madre Duemilaundici», Edizioni Seb 27.

 

 

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