Scor-data: 12 ottobre di ogni anno

Giornata italiana delle persone down

da «Accaparlante» (*)   

Quando nasce un figlio con la sindrome di Down: l’importanza della prima informazione

Quando nasce un figlio disabile tutto viene messo in discussione, a maggior ragione per chi, fino a poco tempo prima, svolgeva una professione nel sociale e si trovava dall’altra parte, dalla parte del tecnico, dell’operatore. La difficoltà dell’accettazione di un figlio diverso e l’importanza della comunicazione che non si deve limitare al momento della nascita ma deve proseguire.

L’esperienza emotiva della madre

È nato
Guido è nato alla fine di dicembre, due settimane prima del previsto. Da tre o quattro settimane avevo smesso di lavorare e stavo bene. Avevo solo 26anni e né in me né in mio marito – Giangi – e nelle rispettive genealogie avevamo riscontrato elementi di rischio inerenti alla procreazione.
La perdita del tappo mucoso e le contrazioni sempre più regolari sono stati i segnali che mi hanno indotto a telefonare a mia madre per informarla della situazione e per chiederle di accompagnarmi all’ospedale, poiché Giangi non prevedendo una nascita anticipata era assente tutto il giorno. I miei amici e conoscenti erano quasi tutti lontani per le vacanze di Natale.
Accompagnata all’ospedale da mia madre e da mio fratello, dopo solo poco più di un’ora è nato un esserino caldo, molle, che non piangeva tanto.
Qualche tempo dopo la nascita mi sono ricordata che non lo sentivo nemmeno muoversi molto nella mia pancia.
L’atteggiamento della levatrice e del medico nei miei confronti mi sono sembrati un po’ opachi, attutiti quasi, come se volessero smorzare la gioia che la nascita di Guido comportava per me, ancora inconsapevole del problema che avrei dovuto affrontare.
Il nome oramai era già stato stabilito in anticipo con Giangi. Ero sicura che fosse un maschio: sarei stata molto delusa se fosse nata una femmina.
Guido è un nome che riveste un significato di una certa importanza; suscitava in me l’idea di una certa sicurezza, rispecchiava un certo carisma perché lo identificavo al nome di personaggi che in me avevano lasciato una traccia durante la mia adolescenza.
Trovandomi in braccio quell’esserino per la prima volta, fortunatamente non ero in grado di fare un confronto tra lui e le aspettative racchiuse nel nome che oramai avevamo scelto.

E’ diverso?
Non so fino a che punto mi sono resa conto che c’era qualcosa di diverso. Apparentemente non mostrava al primo approccio dei segni fisici significativi, salvo il tenere spesso gli occhi socchiusi, e la mancanza di una certa tonicità muscolare.
Queste osservazioni però le ho fatte a posteriori, facendo il confronto con la nascita del secondo figlio, Giovanni.
Facevo fatica ad allattarlo, era poco resistente e dimostrava affaticamento e difficoltà a tenere in bocca il capezzolo.
La mia poca esperienza relativa ai neonati e soprattutto i sentimenti di gioia per la nascita di un figlio superavano i dubbi e le incertezze che si affacciavano alla mia mente, momentaneamente e a sprazzi, quasi avessi timore a soffermarmi più del necessario per evitare un esame realistico della situazione.
I bigliettini per la nascita di nostro figlio elaborati e creati da noi stessi erano quasi pronti; mancava solo la foto che avrebbe ritratto me e Guido, prototipo di un intenso legame a due che ci avrebbe coinvolto per diversi anni :ma allora ero lontanissima dal pensarlo.

Il sospetto
Mentre mi sottoponevo all’inquadratura ero particolarmente turbata dalla notizia che Giangi mi aveva dato poco prima. «Sospetto di trisomia21» (in altre parole: sindrome di Down). Questo era il verdetto che mio marito aveva ricevuto in un corridoio del vecchio ospedale, dal primario di ginecologia. Ricordo che al Centro fisioterapico per cerebrolesi dove lavoravo negli ultimi mesi di gravidanza, una collega, probabilmente per esorcizzare anche per lei l’eventuale possibilità mi aveva chiesto: «E se ti nascesse un bambino handicappato?». Pensando ai miei piccoli allievi di allora così cari e così duramente colpiti le ho risposto con tutta la mia franchezza e sicurezza: «non potrei mai».
Il fatto che ora non ricordo di aver sviluppato fantasie particolari in gravidanza potrebbe essere interpretato come una rimozione intervenuta a posteriori, sulla base dell’aspetto traumatico rappresentato dalla nascita del bambino.
Adesso ero lì che stringevo quel fagottino fra le braccia e facevo fatica a trattenere le lacrime per la foto che avrebbe testimoniato agli altri la mia avvenuta maternità, l’inizio di una nuova vita e dei ruolo parentale che io e Giangi ci apprestavamo ad assumere inconsapevoli di quanto ci preparava il futuro con nostro figlio, ma sinceramente felici di essere diventati genitori.
In quei momenti la gioia per la mia maternità superava tutto ciò che, legato alla malattia di mio figlio, mi sembrava penoso.

L’angoscia
L’angoscia che ho provato nella prima visita pediatrica si è ripetuta innumerevoli volte nella mia vita e ancora adesso ricompare in situazioni estreme, anche se in forma più attenuata, anche grazie all’ottimo rapporto con il pediatra che in seguito si è occupato di Guido per 10-12 anni.
Solo allora ho potuto capire l’angoscia dei genitori degli allievi che ho avuto prima della nascita di Guido.
Prima di allora facevo fatica, anche se mi sforzavo, a comprendere la reazione di una madre che a un certo punto abbandona l’incontro in cui si parla di suo figlio (incontro convocato fra lei e le insegnanti proprio su suo desiderio), perché troppo angosciata. Non capivo che il viversi come prolungamento del figlio («tutto ciò che tocca a lui tocca a me») provocava l’unico modo di reagire possibile per quella madre in quel preciso momento della sua vita, in rapporto al figlio. Facevo perciò fatica a comprendere che, nonostante la nostra “sensibilità”, l’esame di determinati comportamenti del figlio risultasse così doloroso.
Bisogna pur dire (l’esperienza me lo dimostra) che nonostante una buona volontà “intellettuale” è molto difficile per un operatore capire veramente, con empatia, con il cuore, ciò che si muove nel mondo emozionale di un genitore.
Prima della nascita del secondo figlio, Giovanni, avvenuta cinque anni dopo, al sentire la parola “genitore” durante le riunioni di sintesi nelle scuole speciali dove lavoravo, mi prendeva un nodo alla gola e mi si riproponeva in tutta la sua drammaticità il periodo particolarmente gravoso che stavamo attraversando con i vari interventi e le ospedalizzazioni di Guido, per i problemi di ordine visivo.

La vergogna
Solo quando abbiamo ricevuto il risultato delle analisi del cariotipo di Guido, che effettivamente dimostrava il suo handicap, la presenza di una trisomia 21 a mosaico, abbiamo comunicato la diagnosi, io e Giangi assieme, ai nostri rispettivi genitori.
La loro reazione è stata pacata e positiva e hanno accolto Guido con naturalezza. A volte avevo l’impressione che non avessero capito la reale situazione di Guido ed ero tentata di rispiegarla loro da capo: la diagnosi, i trattamenti, la prognosi; questo mi succedeva in particolare con le nonne, che si occupavano intensamente di lui nei primi tempi. Più tardi avrei capito come questa mia insistenza sottintendesse una rivalità con loro che come madri avevano messo al mondo figli sani.

L’esperienza emotiva del padre

La sorpresa
Guido mi ha giocato un brutto scherzo già dall’inizio: è nato due settimane prima del tempo, senza preavviso, mentre io me ne ero andato tranquillamente a sciare. Quel giorno non lo aspettavamo proprio! Così, in tuta da sci per la fretta, prima ancora di vedere Daniela e Guido, ho incontrato il ginecologo in corridoio che mi ha espresso subito i suoi dubbi sulla normalità di Guido:
– Probabile trisomia

  • Quale trisomia? – rispondo, come se ce ne fossero centomila.
  • L’ipotono…, i tratti del viso…, una parziale sindattilia al III e IV dito del piede…
  • Quella ce l’ha anche mio zio, e la nonna paterna…
  • Vedremo!

    Psicologo, quasi psicoanalista, analisi in corso… il diniego scatta anche per me, e come diniego parziale durerà ancora a lungo.
    L’incontro con Guido (il nome non gli era ancora stato dato) non ha quindi potuto avvenire nella gioia, ma si è accompagnato alla preoccupazione di scrutare e negare segni clinici, e nello stesso tempo al tentativo di nascondere a Daniela quel sospetto. Forse anche lei covava quella preoccupazione, ma non abbiamo potuto dircelo per alcuni giorni, fin quando il ginecologo ha proposto l’esame cromosomico. Ne ho allora parlato a Daniela, e insieme abbiamo ancora tentato di negare, o almeno di minimizzare.
    D’altra parte, come tre settimane dopo si è potuto verificare, la diagnosi di “trisomia 21 a mosaico” (cioè caratterizzata dalla presenza di un acerta percentuale di cellule sane) lasciava sperare in un quadro non grave: anche i segni clinici non erano gravi. Non avendolo saputo non si sarebbe detto…
    Dal canto suo la pediatra cercava di convincermi che nell’iride c’erano delle macchioline bianche tipiche che io non vedevo, pur scrutando gli occhi di Guido per settimane. Non c’erano davvero o io negavo? ero cieco io? In cambio però avevo notato che la pupilla era fosca: la pediatra diceva che non era niente. Era cieca anche lei? Dopo un anno infatti, come vedremo, un altro pediatra su mia insistenza ha esaminato bene l’iride e ha emesso la diagnosi di cataratta congenita…
    I ricordi di quel periodo sono sfumati, non tenevo ancora un diario, ma ricordo bene la sensazione di crollo che avevo addosso proprio nei momento in cui stavo costituendo laboriosamente la mia nuova identità professionale: come psicoanalista mi stavo definendo figlio di qualcuno (il mio psicoanalista, che mi ha accompagnato fin lì) e potenziale padre, madre o fratello di altri (i miei pazienti, le persone che avrei curato).

Tutto da rifare?
A poco a poco, con il trascorrere dei mesi mi rendevo conto che, almeno momentaneamente, non sarei stato in grado di continuare la consultazione infantile poiché la preoccupazione per mio figlio mi rodeva troppo. I genitori che mi consultavano per motivi che io ritenevo banali mi indisponevano; quelli che «trattavano male» i loro figli mi suscitavano rabbia perché «non si rendevano conto cosa significa avere figli sani»; i bambini gravemente malati non li potevo vedere perché mi facevano pensare all’eventuale destino pesante che avrebbe aspettato Guido…
Così mi sono buttato nei problemi di tossicomania, di adolescenti, e di adulti. Solo alcuni anni dopo avrei potuto riprendere la consultazione infantile con maggior competenza e sensibilità di prima.
La nascita del mio primo figlio, maschio, invece di coronare il raggiungimento di un’adeguata identità personale, sessuale, professionale, e di coppia, ha rimesso tutto in discussione. Da lì ho però iniziato un lungo lavoro di rimessa a punto che, tra ansia e depressione, mi ha portato sulla via di una nuova maturità.
L’inconscio mio e di Daniela era un calderone in ebollizione con il fondo mezzo bruciato. Il nostro rapporto di coppia aveva generato un figlio malato. Allora, che coppia era? dov’era, e di chi, la colpa? Tutto da rifare! Ci sarebbero voluti alcuni anni di sofferenza, un secondo figlio, sano, e un nuovo assetto professionale per rimettere le cose a posto.

Un sogno rivelatore
Ho fatto un sogno: mi trovavo al mare con Daniela e Guido nato da poco. Mentre camminavamo lungo uno stretto pontile di legno Guido si trasforma improvvisamente in un gamberetto e cade in acqua. Vedendolo in pericolo, agonizzante nell’acqua salata e fortemente inquinata del porto (eppure un gamberetto dovrebbe trovarsi a suo agio nell’acqua del mare…) volevo metterlo in un recipiente con dell’acqua pulita per tentare di salvarlo. Pur accorgendomi con stupore che si tratta di Guido e non di un gamberetto decido però di lasciarlo dov’è con la determinazione di accelerarne la morte per porre così fine alle sue sofferenze ed alla sua irreversibile agonia. Lo scenario del sogno cambia improvvisamente: mi ritrovo con Daniela in un villaggio montano dove sto cercando degli oggetti antichi. In una chiesa abbandonata e diroccata trovo un piccolo gruppo statuario rappresentante la “Sacra Famiglia”, molto simile a quello che si trova tuttora nella casa della mia infanzia. Tento di strappare l’oggetto dal suo supporto, rompendo perfino “involontariamente” la testa del Gesù Bambino, ma l’arrivo di qualcuno mi dissuade dall’impresa furtiva.

(*) Tratto dal libro «Vivere con un figlio Down» di Daniela e Giangiacomo Carbonetti, Franco Angeli editore. Questi brani uscirono sul numero 62 (del 1998) della rivista «Hp-Acca parlante» nel dossier intitolato «Prima informazione»; ringrazio Valeria per avermelo segnalato.

La giornata mondiale per le persone Down è il 21 marzo, questa di ottobre è la giornata nazionale.

Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”. Ma qualche volta ci sono argomrenti più leggeri che… ogni tanto sorridere non fa male.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 12 ottobre fra l’altro avevo ipotizzatodi ricordare che dal 12 al 16 ottobre tradizionalmente ci si mobilita contro Mc’Merda’Donald; oppure 1871: il presidente Grant mette al bando il Kkk; 1911: Yavapai fonda la «Società degli indiani d’America»; 1936: atto d’accusa contro la falange di Miguel de Unamuno; 1954: atterra a Roma il marziano di Ennio Flaiano; 1960: la scarpa di Kruscev all’Onu; 1992: inizia la guerra dell’acqua in Bolivia; 1996: gli zapatisti a Città del Messico; 1998: dopo le torture muore Matthew Shepard; 2002: il presidente dello Zambia rifiuta il mais ogm; 220: Nobel dell’ecomia a Elinor Ostrom (prima donna). E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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