Scor-data: 19 luglio 1985

di Sergio Mambrini

Hoteldolomiti

Venerdì 19 luglio del 1985 – Dieci giorni nella valle del Rio Stava

Venerdì 19 luglio del 1985 ero in un campeggio al mare a Punta Ala, in toscana. Il mattino dopo, verso le otto, mi avviaii allo spaccio per acquistare il quotidiano “la Repubblica”.

Appena lessi il titolo ebbi un tuffo al cuore. A caratteri  cubitali annunciava: «Nel Trentino una tragedia che ricorda quella del Vajont, devastato il centro turistico di Stava. QUASI TRECENTO MORTI. Cede una diga in Val di Fiemme, valanga d’acqua sul paese. Un cimitero di fango dov’erano alberghi e case».

Mi bloccai e rilessi attentamente. Credevo di avere un’allucinazione. Subito provai a telefonare all’hotel Dolomiti, dove soggiornava mia madre. Ma la risposta mi paralizzò. Invece del personale dell’albergo, mi rispose la Protezione Civile, informandomi che nella struttura c’erano dei sopravvissuti, ma che al momento non potevano essere più precisi. C’erano anche persone disperse, ma ancora non avevano gli elenchi. Più tardi seppi dalla radio che la mia mamma era considerata dispersa.

Allora composi il numero di mio fratello Glauco a Mantova. Era l’ultima speranza. Purtroppo non era a casa, perché era partito per il luogo del disastro. La moglie mi confermò che al telegiornale avevano mostrato dall’elicottero la zona colpita. Non si vedeva altro che fango. Era tutto distrutto e sommerso. Dove c’erano boschi, case, alberghi, strade c’era solo fango, fango, nient’altro che fango. Subito dopo tornai a Mantova. Quel sabato sera incontrai mio fratello, proprio quando era appena ritornato dalla zona sommersa.

Glauco era visibilmente scosso e provato dall’esperienza vissuta. Il suo racconto dei fatti aveva dell’incredibile. Sembrava che raccontasse scene di guerra, d’orrori insopportabili.

Aveva verificato gli elenchi delle descrizioni degli oggetti ritrovati, aveva tentato anche di raggiungere l’albergo, ma l’interminabile afflusso dei mezzi soccorso e l’impossibilità di percorrere la vecchia strada dei Mulini, invasa dai detriti e dal fango, l’aveva costretto a camminare su per un sentiero tra i boschi, dove dall’alto era riuscito a seguire, con fatica, le febbrili e instancabili operazioni di ricerca.

I soccorritori allineavano i cadaveri ritrovati nella palestra della scuola elementare di Tesero. Poi, per lo spazio insufficiente, furono costretti a utilizzare la pieve di Cavalese.

Sopra l’altare maggiore avevano radunati e ammassati i piccoli feretri bianchi con i corpicini dei bambini massacrati. Pareva una moderna strage degli innocenti, spregiudicata, cinica, disonesta, insolente e totalmente priva di scrupoli. L’odore era macabro.

Domenica mattina, presto, l’amico Carlo Facchini si offrì d’accompagnarci, con la sua macchina, nella zona dove operavano i soccorsi. Ci dirigemmo alla vecchia Pieve, dove gli elicotteri avevano cominciato a fare la spola, trasportando lì le vittime per ricomporle, quando era possibile.

Tutti noi familiari sostavamo angosciati, per avvicinarci alle salme che man mano arrivavano. Dopo una paziente e pietosa opera di ricomposizione, erano messe a giacere dignitosamente ai lati della navata. Entrai da solo nella chiesa in più occasioni. Ogni volta che varcavo il porticato, provavo un senso di smarrimento, che mi angustiava e mi faceva venire l’affanno sotto la mascherina protettiva che mani ignote mi avevano offerto.

Dopo l’ennesima esplorazione, sulla sinistra, vidi una piccola bara bianca che conteneva il corpo di un bambino coperto da un lenzuolo. Sbucavano la testolina e i piedi con le scarpette. I capelli erano lisci e biondicci. Il volto pallido dormiva un sonno irreale. D’improvviso capì il significato del lenzuolo appiattito nella bara. La testa e i piedi erano le uniche parti recuperate. Nulla, se non quel pietoso drappo bianco, univa quelle membra disarticolate.

Questa volta il groppo in gola si sciolse in una maledizione. La rabbia cominciava a impossessarsi della mia ragione, finché la sostituì completamente. Uscii sconvolto e instabile, a respirare una boccata d’aria meno intrisa di disinfettante. Lì fuori, intorno alle vecchie mura, i lamenti dei familiari sopravvissuti mi facevano stringere lo stomaco. Non c’era scampo alla tragedia. Allora partii per l’Hotel Dolomiti.

L’odore umido delle foglie in decomposizione del bosco si mescolava a un sentore dolciastro, nello stesso tempo artificiale e naturale. Derivava dalla fluorite contenuta nei fanghi dei bacini di decantazione piombati sulla testa delle persone? O forse era l’odore del disfacimento di tutti quei corpi sepolti e maciullati? Certo non era il profumo del bosco, nemmeno quello dell’aria tersa delle montagne trentine.

C’era qualcosa della tragedia in quella puzza, qualcosa che si faceva fatica ad accettare.

Fu il primo indizio da cui partire per arrivare a capire cos’era veramente successo.

Un odore di quel tipo inchiodava alle proprie scellerate responsabilità gli artefici di quello scempio. L’assimilavo a una prova.

Recuperai il corpo di mia madre soltanto dieci giorni dopo.

 

QUI un servizio di Rai3, di quei giorni.

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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