Scor-data: 23 febbraio 1868, nasce Du Bois

di Sandro Mezzadra (*)

Una grande voce “non bianca” e globale contro il colonialismo e ogni forma di razzismo.

DuBois

E’ stato durante gli anni di studio trascorsi in Germania (1892-1894), secondo la sua stessa ricostruzione retrospettiva, che lo sguardo di William Edward Burghardt Du Bois sui problemi della «razza» e del colore si è «sprovincializzato», cominciando ad assumere quella prospettiva globale che costituisce uno degli aspetti più affascinanti e originali del suo pensiero politico e della sua attività militante. Nella Berlino dominata dai fremiti imperialistici della Weltpolitik, seguendo le lezioni di Gustav Schmoller e di Heinrich von Treitschke, il giovane studente mulatto iniziò a considerare «il problema della razza in America, i problemi dei popoli africani e asiatici e lo sviluppo politico in Europa come una cosa sola». L’attraversamento dell’Atlantico, nella direzione opposta a quella seguita dalle navi negriere nel middle passage, Du Bois l’aveva vissuto del resto in «una sorta di trance»: quindici volte, nella sua lunga vita, avrebbe ripetuto quell’esperienza, facendo del viaggio una fondamentale fonte di conoscenza e apportando un contributo fondamentale alla storia novecentesca di quello che Paul Gilroy ha definito l’Atlantico nero (Meltemi). Studiare il modo con cui il tema del colonialismo (…) si installa progressivamente al centro del pensiero e dell’azione di Du Bois significa registrare prima le distorsioni e poi la vera e propria sovversione che la voce nera, parlando dall’interno del testo europeo della Weltgeschichte, vi inscrive. «Nelle pieghe della civiltà europea», si legge proprio all’inizio di quello straordinario capolavoro che è Dusk of Dawn, «sono nato e morirò, imprigionato, condizionato, depresso, esaltato e ispirato. Interamente una sua parte, e tuttavia, cosa molto più significativa, uno dei suoi scarti: uno che ha dato espressione nella sua vita e nel suo agire e ha comunicato a molti altri un singolo vortice di viluppi sociali e paradossi psicologici interiori, che mi è sempre apparso più importante per il mondo di oggi che altri problemi simili e correlati».
Ancora una volta, molti anni dopo «
The Souls of Black Folk», è una posizione doppia – di internità e di esternità al tempo stesso – quella che Du Bois rivendica, di fronte alla «civiltà europea» così come di fronte alla storia degli Stati uniti: ed è proprio questa posizione di confine che lo spinge fin dai primi anni del secolo a collocare la propria stessa azione politica in uno spazio altro da quello cartografato dalle mappe politiche ufficiali. In uno spazio che si configura, con una forte anticipazione sugli sviluppi storici in atto, appunto come globale.
Nelle stesse pagine di «
The Souls of Black Folk», del resto, il problema della «linea del colore» era definito in termini globali, come «problema del rapporto tra le razze più chiare e quelle più scure in Asia e in Africa, in America e nelle isole del mare», sullo sfondo costituito da un’unità del genere umano non meno reale per il fatto di dovere la propria origine «alla conquista e alla schiavitù». Profondamente segnato dal clima progressista in cui si era svolta la sua formazione, Du Bois non prenderà mai congedo, neppure negli anni tardi della sua definitiva radicalizzazione politica, dall’ambivalenza del giudizio sul colonialismo qui adombrata. Si farà semmai via via più chiara la consapevolezza della vera e propria catastrofe che ha rappresentato l’orizzonte moderno del «progresso», una consapevolezza che in «The World and Africa» (1946) assumerà la forma di una denuncia dello stesso nazismo come una sorta di nemesi del colonialismo europeo. Ma soprattutto, sotto l’incalzare delle lotte anticoloniali, Du Bois scoprirà altri spazi e altri soggetti della storia, giungendo a incardinare in quegli spazi e a raccordare a quei soggetti la stessa politica dei neri d’America.
La svolta panafricana
Un momento decisivo, all’interno di questo percorso, è evidentemente la prima guerra mondiale. L’annuncio del «crollo dell’Europa», «tanto più sconvolgente per la fede senza limiti che avevamo avuto nella civiltà europea», sembrava aprire una straordinaria opportunità storica per le genti sottoposte al dominio coloniale. A Parigi su incarico della «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), per svolgere un’indagine sulle condizioni dei soldati neri che avevano combattuto nell’esercito americano, Du Bois si impegnò febbrilmente, tra la fine del `18 e i primi mesi del `19, in un vero e proprio lavoro di
lobbying (in primo luogo sulla delegazione statunitense a Versailles) perché il superamento del colonialismo fosse posto all’ordine del giorno nelle trattative di pace. La prospettiva di Du Bois, sintetizzata nel 1920 in «Darkwater», la prima delle sue tre autobiografie pubblicate in volume, era quella di un superamento graduale del colonialismo, «attraverso il medesimo controllo internazionale a cui affidiamo le nostre speranze per un governo del mondo in vista della pace». Per questa ragione Du Bois guardò con grande ottimismo alla nascita della Lega delle Nazioni e al sistema dei mandati, ratificato dall’articolo 22 della sua carta istitutiva: nel quadro definito da quel sistema, il progredire dell’istruzione e della «democrazia industriale» si sarebbe incaricato, in una prospettiva squisitamente «fabiana», di creare le condizioni dell’autogoverno.
Più ancora che il merito delle posizioni di Du Bois alla fine della Grande guerra, è importante però sottolineare i modi e i luoghi in cui egli le articolò. Con l’appoggio di Blaise Diagne, rappresentante senegalese al parlamento francese, e con il consenso di Clemenceau, egli organizzò nel febbraio del 1919 il primo «Congresso Panafricano», che tenne le proprie riunioni a Parigi con l’esplicito obiettivo di far sentire la «voce dell’Africa» a Versailles. Indipendentemente dall’esito di questa iniziativa (a cui parteciparono cinquantasette delegati, provenienti dagli Usa, dalle «Indie occidentali» e dall’Africa), essa segnò per Du Bois l’inizio di una nuova fase del suo impegno politico, che lo portò a legare strettamente il suo nome al panafricanismo. Altri viaggi, e altri tre congressi panafricani, seguirono in questo senso nel corso degli anni Venti, e per la prima volta, nel 1924, Du Bois si recò in Africa, nientemeno che come «inviato straordinario e ministro plenipotenziario» del presidente statunitense Coolidge in Liberia.
La diaspora nera
Il rapporto con l’Africa, per Du Bois, non aveva in sé nulla di «naturale» e romantico (per quanto tonalità «romantiche» non manchino nei suoi scritti sul tema); non poteva essere paragonato, come egli stesso scrive nella sua ultima autobiografia, a quello che un italo-americano o un irlandese-americano intrattiene con la sua terra d’origine. Il trauma della schiavitù impediva ogni identificazione semplice e lineare. Tuttavia, una volta costruito politicamente e intellettualmente, quel rapporto era destinato a modificare in profondità la prospettiva politica di Du Bois – e a determinare tensioni crescenti con la maggior parte dei dirigenti della Naacp, «che si sentivano americani, non africani, e guardavano con timore, se non con risentimento, a ogni associazione tra loro e l’Africa». Il panafricanismo, del resto, negli Stati uniti degli anni Venti, si trovò a essere sempre più associato al nome di Marcus Garvey, con cui Du Bois mantenne un rapporto marcatamente ambivalente. L’idea di Du Bois, secondo cui i neri americani avrebbero dovuto svolgere una funzione di leadership nel complessivo processo di riscatto storico dell’Africa, aveva dunque basi fragili dal punto di vista «tattico» – e il vecchio Du Bois, in un memorabile discorso tenuto a Pechino nel 1959, nel giorno del suo novantunesimo compleanno, ne avrebbe denunciato auto-criticamente gli stessi presupposti «teorici». Ma l’esperienza del movimento panafricanista, che fu una straordinaria palestra per la formazione delle élites che avrebbero condotto le lotte anticoloniali in Africa negli anni successivi, fu per Du Bois soprattutto la scoperta di un nuovo spazio politico, definito da una pluralità di linee che, passando attraverso l’Atlantico e riscrivendo la storia della diaspora nera, collegavano New York e Dakar, Londra e il futuro Ghana, Parigi e le «Indie occidentali». Nulla rende meglio l’idea di questo spazio della sua proposta di organizzare il quarto «Congresso Panafricano», nel 1925, nei Caraibi, a bordo di una nave che avrebbe dovuto effettuare una serie di scali «in Giamaica, ad Haiti, a Cuba e nelle isole francesi».
All’interno di questo spazio diasporico, del resto, la politica dei neri statunitensi si modificò anche al di là delle intenzioni e del diretto apporto di Du Bois. Fra gli anni Venti e Trenta l’influenza di Garvey, la nascita di uno specifico comunismo black e l’azione di intellettuali caraibici come Gorge Padmore e C. L. R. James determinarono lo sviluppo di un nuovo radicalismo tra gli afro-americani, con una spiccata propensione «internazionalista». La grande ondata di scioperi che, a partire da Trinidad, attraversò nel 1937-’38 l’intera regione caraibica fu un momento decisivo nel consolidamento di questa propensione: la stampa afro-americana dedicò un’enorme attenzione a questi fatti, giungendo a sottolineare l’analogia tra gli scioperi nei Carabi e analoghi movimenti dal Marocco a quella che sarebbe divenuta l’Indonesia e parlando di una vera e propria rivolta globale contro il colonialismo. La diaspora africana cominciava ad assumere un nuovo profilo militante, nutrendo una politica transnazionale che aveva il proprio centro a Londra e influenzava in modo determinante sia il mondo coloniale sia lo sviluppo del discorso politico afro-americano.
La fondazione nel 1937 dell’«International Commitee on African Affairs», che nel 1942 assunse la denominazione di «Council on African Affairs» (Du Bois ne sarebbe divenuto vice-presidente nel 1948), rappresentò la principale espressione organizzativa di questa politica diasporica nera negli Usa: la sua azione giocò un ruolo fondamentale nel porre in primo piano, all’interno della complessiva politica afro-americana degli anni della seconda guerra mondiale, la questione coloniale. Ed è in questo contesto che va collocato l’intervento di Du Bois (…) alla «East and West Society» il 7 novembre del 1945.
Lo spazio politico anticoloniale
Ancora una volta, nel `44-’45, Du Bois moltiplicò infatti i suoi impegni per esercitare un’influenza sul governo statunitense e sull’opinione pubblica mondiale affinché il superamento del colonialismo fosse messo all’ordine del giorno nella progettazione dell’ordine internazionale post-bellico. Nei primi mesi del ’44 intrattenne un fitto carteggio con la vedova di Marcus Garvey, Amy Jacques, impegnata dalla Giamaica a promuovere l’adozione da parte degli Usa di una «Carta sulla libertà dell’Africa» che integrasse la «Carta Atlantica» del `41 e che risolvesse nei fatti le ambiguità di quest’ultima sul colonialismo, denunciata con forza dalla stampa afro-americana. Ma soprattutto, ritornato alla Naacp, da cui era uscito nel 1934, sviluppò una critica durissima e molto influente delle proposte emerse dalla Conferenza dell’estate del 1944 a Dumbarton Oaks, organizzò all’inizio di aprile del ’45 una «conferenza coloniale» a New York, con l’obiettivo di elaborare concrete proposte di emendamento delle risoluzioni di Dumbarton Oaks, e seguì personalmente i lavori dell’assemblea costitutiva dell’Onu a San Franscisco.
«
Diritti umani per tutte le minoranze» si presenta in questo senso come uno straordinario documento storico. È un intervento maturato all’interno dello spazio transnazionale della politica afroamericana degli anni della guerra che mostra non soltanto la disillusione e la preoccupazione per il tipo di ordine internazionale che stava prendendo forma, ma anche l’intensità delle aspettative e delle aspirazioni con cui Du Bois, e con lui una parte significativa dei leader neri statunitensi e degli stessi movimenti anticoloniali, guardò alla nascita dell’Onu. Ancora una volta la voce nera, parlando all’interno di un testo europeo e «occidentale» come quello intessuto dal linguaggio dei diritti umani, punta a sovvertirlo iscrivendovi la critica radicale del colonialismo e il sogno di un mondo diverso da quello che stava sorgendo sulle macerie della guerra. Esattamente nello stesso senso, nel 1946, Du Bois avrebbe promosso la presentazione alla Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite di un dossier per ottenere una formale condanna del governo degli Stati uniti per il trattamento riservato agli afro-americani, insistendo sulla rilevanza globale, e non meramente «interna», del problema.
Anche da un altro punto di vista, tuttavia, il testo (…) è uno degli ultimi documenti di una «politica estera» afro-americana che, pur nella sua indipendenza, è potuta rimanere in un rapporto fondamentalmente dialettico, caratterizzato certo da forti tensioni ma anche da momenti di apparente coincidenza, come nel caso della polemica tra F. D. Roosevelt e Churchill sul significato della «Carta Atlantica», con lo sviluppo della politica estera ufficiale statunitense. L’avvio della guerra fredda avrebbe determinato di lì a poco un brusco cambiamento di quadro, e Du Bois ne avrebbe pagato anche personalmente il prezzo, subendo una dura criminalizzazione da parte dell’
estabilishment. La decisione di trasferirsi e di morire nel Ghana di Nkrumah nel `61, come cittadino di quel Paese – non prima di aver reso un estremo e paradossale omaggio alla sua identità americana, chiedendo a 93 anni la tessera del Partito comunista statunitense – costituisce certo anche l’esito di un giudizio molto duro sulla realtà degli Stati uniti negli anni Cinquanta: contemporaneamente, tuttavia, la lezione di Du Bois sarebbe stata assimilata da altri protagonisti della politica afro-americana, che nel decennio successivo – pagando un prezzo ancora più alto – avrebbero portato alle estreme conseguenze quella «trasgressione dello spazio politico nazionale» che proprio Du Bois, tra gli altri, aveva cominciato a praticare.

(*) Questo articolo di Sandro Mezzadra è stato pubblicato – con il titolo «I diritti umani oltre la linea del colore»sulla rivista «Studi culturali» e ripreso poi su «il manifesto» (02.12.2004) e su questo blog; riesce questa settimana su «Corriere delle migrazioni».

Come sa chi frequenta codesto blog ogni giorno – per due anni, cioè dall’11 gennaio 2013 all’11 gennaio 2015 – la piccola redazione ha offerto (salvo un paio di volte per contrattempi quasi catastrofici) una «scor-data» che in alcune occasioni raddoppiava o triplicava: appariva dopo la mezzanotte, postata con 24 ore di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; ma qualche volta i temi erano più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi.
Tanti i temi. Molte le firme (non abbastanza probabilmente per un simile impegno quotidiano). Assai diversi gli stili e le scelte; a volte post brevi e magari solo una citazione, una foto, un disegno… Ovviamente non sempre siamo stati soddisfatti a pieno del nostro lavoro. Se non si vuole copiare Wikipedia – e noi lo abbiamo evitato 99 volte su 100 – c’è un lavoro (duro pur se piacevole) da fare e talora ci sono mancate le competenze, le fantasie o le ore necessarie.

Abbiamo deciso – dall’11 gennaio 2015 che coincide con altri cambiamenti del blog, ora “bottega” – di prenderci un anno “sabbatico”, insomma un poco di riposo, per le «scor-date». Se però qualche “stakanovista” (fra noi o all’esterno) sentirà il bisogno di proporre una nuova «scor-data» ovviamente troverà posto in blog; la redazione però non le programmerà.

Nell’anno di intervallo magari cercheremo di realizzare il primo libro (sia e-book che cartaceo?) delle nostre «scor-date», un progetto al quale abbiamo lavorato fra parecchie difficoltà che per ora non siamo riusciti a superare. Ma su questa impresa vi aggiorneremo.

Però…

(c’è quasi sempre un però)

visto il “buco” e viste le proteste (la più bella: «e io che faccio a mezzanotte e dintorni?» simpaticamente firmata Thelonius Monk) abbiamo deciso di offrire comunque un piccolo servizio, cioè di linkare le due – o più – «scor-date» del giorno, già apparse in blog.

Speriamo siano di gradimento a chi passa di qui: buone letture o riletture

La redazione (in ordine alfabetico): Alessandro, Alexik, Andrea, Barbara, Clelia, Daniela, Daniele, David, Donata, Energu, Fabio 1 e Fabio 2, Fabrizio, Francesco, Franco, Gianluca, Giorgio, Giulia, Ignazio, Karim, Luca, Marco, Mariuccia, Massimo, Mauro Antonio, Pabuda, Remo, “Rom Vunner”, Santa e Valentina.

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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