Scor-data: 27 settembre 1911

Guerra (libica) e sciopero generale

di Dibbì (*)  

Oh come è comoda Wikipedia. Ma ooooooooooooooooooooooooh come è omissiva, monca, reticente, asettica, soprattutto occidental-centrica Wikipedia.

Prendiamo la guerra italo-turca (nota come campagna di Libia) combattuta fra il regno d’Italia e quel che restava dell’impero ottomano per impossessarsi di Tripolitania e Cirenaica, ovvero l’essenza dell’attuale Libia (o ex Libia se verrà smembrata in un paio di vecchi-nuovi regni petroliferi).

Secondo Wikipedia si combatte fra il 28 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, quasi una guerra lampo. Stando al calendario è quasi esatto ma già qui c’è una dimenticanza (o censura?): la vigorosa opposizione alla guerra che in Italia porta a scioperi, scontri, boicottaggi e quasi alla crisi di governo. E c’è dell’altro, molto altro.

Prima però vediamo, in sintesi, Wikipedia.

«Le ambizioni coloniali spinsero l’Italia ad impadronirsi delle due province ottomane, che assieme al Fezzan nel 1934 avrebbero costituito la Libia, dapprima come colonia italiana, in seguito come Stato indipendente. Durante il conflitto fu occupato anche l’arcipelago del Dodecaneso, nel Mar Egeo; quest’ultimo avrebbe dovuto essere restituito ai turchi alla fine della guerra, ma rimase sotto l’amministrazione provvisoria dell’Italia fino a quando – con la firma del Trattato di Losanna nel 1923 la Turchia rinunciò ad ogni rivendicazione e riconobbe ufficialmente la sovranità italiana sui territori perduti […] Pure se minore, questo evento bellico fu un importante precursore della prima guerra mondiale perché contribuì al risveglio del nazionalismo nei Balcani. Osservando la facilità con cui gli italiani avevano sconfitto i disorganizzati turchi ottomani, i membri della Lega Balcanica attaccarono l’impero prima del termine del conflitto con l’Italia. Durante la guerra, si registrarono numerosi progressi tecnologici nell’arte militare, tra cui, in particolare, l’impiego dell’aeroplano (furono schierati in totale 9 apparecchi sia come mezzo offensivo che di ricognizione. Il 23 ottobre1911, un pilota italiano (il capitano Carlo Maria Piazza) sorvolò le linee turche in missione di ricognizione, e il 1 novembre dello stesso anno, l’aviatore Giulio Gavotti lanciò a mano la prima bomba aerea (grande come un’arancia) sulle truppe turche di stanza in Libia. Altrettanto significativo fu l’impiego della radio con l’allestimento del primo servizio regolare di radiotelegrafia campale militare su larga scala organizzato dall’arma del genio sotto la guida del comandante della compagnia R.T. Luigi Sacco e con la collaborazione dello stesso Guglielmo Marconi. Infine, il conflitto libico registrò il primo impiego nella storia di automobili in una guerra, da parte delle truppe italiane dotate di autovetture Fiat Tipo 2».

Pulito, anzi asettico. Da questo riassunto sono omessi i massacri (come Sciara Sciat), i bombardamenti aerei vengono ribattezzati «progressi tecnologici nell’arte militare». Arte, una cugina di poesia o scultura. La parola «aggressione» (al popolo libico) non è contemplata. Il colonialismo è un’ambizione, un po’ come avere una laurea o la seconda casa.

I nostri testi scolastici sono (salvo rarissime eccezioni) ancor peggio. A leggerla sui libri di Angelo Del Boca andò diversamente. Non prendiamo il poderoso «Gli italiani in Libia» (Laterza) o la monumentale opera «Gli italiani in Africa orientale» (prima Laterza poi Oscar Mondadori) ma il recente e agile «Italiani, brava gente?» – occhio al punto interrogativo – uscito da Neri Pozza nel 2005. Il capitolo sulla “impresa” libica si intitola «Sciara Sciat: stragi e deportazioni». Racconta di una volontà di rapina, di bugie, di impiccagioni collettive, di razzismo, di elogio della forca, di una opposizione che denuncia l’infamia e sputa sul patriottismo dei massacratori, di rivoltosi e di «domiciliati coatti» (cioè deportati) in Italia… e non esiste un documento ufficiale dal quale si possa sapere quanti fossero. Molti di loro finirono schiavizzati nelle grandi fabbriche italiane, altra storia che si è cercato di cancellare. Del Boca ricorda che l’esercito italiano, ben più potente, non riuscì a vincere e già il 28 novembre 1914 con l’attacco alla Gahra di Sebha ha inizio «quella che poi sarebbe stata chiamata la grande rivolta araba, che avrebbe incendiato l’intera Libia e respinto gli italiani al mare». Ecco le ultime parole del capitolo: «Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l’occupazione integrale della “quarta sponda” sarebbero occorsi altri 17 anni e l’annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica».

Un altro dei rari libri che esce dalla retorica patriottarda e razzista è l’agile «Storia del colonialismo italiano» (Datanews ediz) di Alessandro Aruffo. La sezione dedicata alla conquista della Libia racconta bene l’intreccio fra nazionalismo, affari e una crociata anti-musulmana come auspicava il Vaticano. I costi furono alti (un miliardo di lire, 100 mila uomini) e la guerra fu, come sempre, tutta diversa da come la raccontarono giornalisti compiacenti che riuscirono a tacere non solo sulla repressione scientifica della popolazione o sui raccapriccianti episodi che «indussero Ferdinando Martini – al dicastero delle Colonie – ad aprire un’inchiesta» ma persino su episodi minori quanto scomodi come la farina avariata data ai bersaglieri. Del tutto sparito nei giornali dell’epoca il «genocidio nell’oasi» come lo chiamano sia Lino Dal Fra nel suo libro «Sciara Sciat» (ancora Datanews) che Eric Salerno in «Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale» (fortunatamente ristampato nel 2005 da manifesto-libri)

Altro che «Tripoli bel suol d’amore». Molto più veritiero della canzonetta un allor celebre “contrasto”, cioè una improvvisazione in ottava rima (un po’ come oggi in certe gare di rap o meglio di «free style») che divenne popolare col titolo «Contrasto fra l’aristocratica e la plebea sulla guerra di Tripoli» e che così si conclude: « Chi ama la guerra sono òmini tristi / privi di scienza e di cuore cattivo; / fossero stati invece i socialisti / il mio figlio sarebbe ancora vivo. / La guerra è bella pe’ capitalisti / perché ritrovan sempre il loro attivo / dalle imposte che tengono impiegate / dicon sempre: Armiamoci e andate». E’ lo stesso sentimento popolare che spinge un disegnatore esordiente, Giuseppe Scalarini, a pubblicare sull’«Avanti!» alcune illustrazioni che faranno storia, come l’albero di Natale a Tripoli adornato con gli impiccati. Ma c’è anche il giornalista Paolo Valera a battersi contro gli orrori libici: il suo opuscolo «Le giornate di Sciara Sciat fotografate» fu allora diffuso in 100mila copie. Mai più ristampato purtroppo.

Ed è per questa convinzione (anticapitalista e antimilitarista) che si arriva il 27 settembre allo sciopero generale contro la guerra, preceduto da scioperi spontanei nei giorni precedenti a Milano, a Forlì, a Venezia e in molti altri luoghi. Lo racconta, senza enfasi ma col rigore dei documenti, Maurizio Degl’Innocenti in «Il socialismo italiano e la guerra di Libia» (pubblicato da Editori Riuniti nel 1976). A seguire boicottaggi, blocchi stradali, ancora scioperi mille episodi di resistenza popolare quotidiana contro la guerra.

Inevitabile ricordare che 100 anni dopo i presunti eredi di quei socialisti votano ogni avventura militare (anche in Libia) e, persino in tempi di grave crisi, neanche osano chiedere una diminuzione delle spese militari. Le sedicenti sinistre oggi parlano come l’aristocratica del “contrasto” sopra citato: «E’ sempre costumato guerreggiare / e in oggi ce lo impone più che mai / chi per voler le terre conquistare / e chi per dar lavoro agli operai / Intanto quei malvagi, piano piano / un po’ di educazione la impareranno / tralasceranno i rei costumi suoi / diverranno educati come noi». Se si sostituisce democrazia a educazione non vi sembra di ascoltare un bel dibattito nel Parlamento d’oggi?

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 27 settembre fra l’altro avevo ipotizzato: 1540: Paolo III approva la «Compagnia di Gesù»; 1940: patto Roma-Berlino-Tokio; 1943: le quattro giornate di Napoli; 1956: muore Piero Calamandrei; 1960: muore Sylvia Pankhurst; dal 1960 Christ Wolf annota sul diario ogni 27 settembre e pubblicherà nel 2000 «Un giorno l’anno»; 1968: «Hair» sbarca a Londra; 1976: Manfredonia di nuovo avvelenata; 1996: i talebani conquistano Kabul; 2002: assolti Maletti e i fascisti sulla bomba di Bertoli; 2004: Tanzi torna libero.E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

Redazione
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