Scor-data: 4 giugno 2006

Undici corpi quasi mummificati…
Le prime pagine del libro «11» di Savina Dolores Massa, introdotte da Christiana de Caldas Brito (*)

SOMMARIO: «I morti continuano a vivere nella memoria dei vivi». Una notizia di poche righe su un quotidiano fa nascere un libro, quasi una «Spoon River» di ragazzi senegalesi crepati in mare, su una barca alla deriva.

Così Christiana de Caldas Brito, scrittrice brasiliana da tempo in Italia, racconta «Undici» di Savina Dolores Massa.
Immaginate una barca alla deriva nel mare dei Caraibi. Un pescatore l’avvista e vede dentro 11 cadaveri. Dà l’allarme. I morti diventano funesta notizia in un giornale. In comode poltrone, leggiamo la notizia – su «Repubblica» del 4 giugno 2006, firmata da Giovanni Maria Bellu – e diamo un sospiro di sollievo: meno male che non è toccato a noi. Già. Pensiamo solo e sempre alla nostra pelle. Per molti di noi quella era e continuerà a essere solo una notizia. Forse ha pure provocato un’emozione. Ma chiuso il giornale, chiusa l’emozione.
Savina Dolores Massa (ah, nomen omen, questo “Dolores” già faceva presentire una sensibilità aperta alla sofferenza altrui) è una scrittrice speciale: ha antenne che la rendono capace di dialogare con il dolore.
La barca affondata avrebbe portato in Italia quegli 11 uomini partiti insieme a 46 altri africani pieni di speranza. E con tanti sogni, anch’essi annegati.
Quegli uomini volevano una vita più dignitosa. Ognuno di loro aveva pagato mille e cinquecento euro per approdare in Italia, Paese dove – avevano detto – c’era lavoro ed era facile sbarcare. Ma la barca era stata mandata alla deriva da quella trainante che si staccò e lasciò gli africani in alto mare, senza guida.
Con «Undici» l’autrice entra in sintonia con quegli 11 giovani africani traditi e mai arrivati a destinazione. Savina Dolores Massa, di Oristano (che con il suo libro è giunta finalista al Premio Calvino del 2007) ridà vita agli 11 morti rimasti in fondo alla barca. Con uno stile assolutamente lirico ricostruisce la storia di ognuno degli uomini rimasti confinati nello spazio angusto del paragrafo di un quotidiano.
L’autrice sa che i morti continuano a esistere nella memoria dei vivi: prende uno a uno gli 11 e, prima che sopraggiunga la morte, li fa raccontare. Ci dicono il loro nome, rivelano il vissuto quotidiano con i loro desideri e aspettative. Veniamo a capire i sogni che li accompagnano nell’abbandonare il loro villaggio.
Sono undici storie diverse, tutte raccontate a Saroyo, un griot, anche lui sulla barca. A sua volta, il griot (poeta conta-storie che mantiene viva la tradizione orale della sua terra) parla alla kora, il suo strumento musicale.
Ed ecco l’inizio del libro.

Barca di clandestini africani arriva
ai Caraibi dopo 4 mesi nell’Atlantico.

Una barca di sei metri, bianca, senza nome, senza bandiera. E’ un pescatore ad avvistarla alle cinque del mattino del 29 Aprile a 76 miglia di Ragged Point, la punta più orientale delle isole Barbados. Dondola tra le onde, nessuno la governa, anche se a bordo s’intravedono degli uomini. Sono sdraiati sul ponte, immobili. Il pescatore chiama la Guardia Costiera. Alle sei della sera, la piccola barca bianca, trainata da una motovedetta, entra nel porto di Bridgetown. A bordo ci sono i corpi quasi mummificati di 11 giovani uomini neri.
Giovanni Maria Bellu,
LA REPUBBLICA 4 giugno 2006

Baba

Tu vuoi che io racconti, ora che non ho più nulla in corpo da vomitare e la bocca
pare
è
una caverna dove le parole camminano al buio;
cerchi di convincermi che mi sentirò più leggero nel partire, se parlerò della mia vita, alla mia fine. Cosa vuoi che dica, che già non sai: sei cresciuto, come altri qui, nella mia stessa strada, Sayoro. Ogni cosa importante di me ha lasciato la barca, ormai. Ma insisti, con quella voce,
non è voce. Suono
basso, che copre il vento che non ci ha mai lasciato soli. Quasi mai. Tu hai il dono di sapere ascoltare, ma questa brutta leggenda, Sayoro, non la canterai a nessuno e non ti importa;
non importa neanche a me.
Parlerò, per te e per gli altri e per le orecchie dell’aliseo e per la memoria che possiede l’oceano che tanto amo, nonostante quello che è successo, anche adesso. Rido a dire queste cose e ne ridi anche tu, appena, di naso.
Gli altri respirano svegli, zitti. Non vi vedo, siete più neri del buio di adesso, né mi vedo io, neppure le mani, meglio così: tremano come foglie di palma. Le palme! E’ questo che vuoi farci fare, Sayoro? Obbligarci a ricordare anche le foglie delle palme quando schioccavano come frustate al vento e noi bambini non riuscivamo ad addormentarci sapendo
certo che lo sapevamo
che quei rumori erano i ricordi che non muoiono mai, mai, dei nostri antenati flagellati.
La paura.
Non mi ha mai lasciato.
Ero piccolo
quando immaginavo una fune con il cappio, appesa
a sbattere al tronco del baobab che c’è al primo incrocio della mia strada. Una fune, una paura, che ha sempre dondolato sulla mia testa; e mi sentivo ridicolo, e mi dicevo, Sei un uomo libero, Baba. La schiavitù è solo una vecchia orrenda storia.
Non mi ero sbagliato, alla fine. Non è strano? Non è veramente ridicolo, questo? Muoio per una fune, in fondo. Che pena, essermi fatto venire in mente il viale e quell’albero, già tanto vecchio quando ero piccolo. Brutta bestia, la pena: essere sicuro che la pianta continuerà a vedere la strada quando a me non capiterà più.
La nostra vita se ne sta andando e tu pretendi, in qualche maniera, pretendi, Racconta;
ma a noi ci puzzano le bocche e non ci brillano più i denti. Faranno schifo anche le parole, ma tu
le vuoi, e l’hai chiesto anche agli altri. Lo chiedi da zitto, adesso l’ho capito.

Non sono arrabbiato come dovrei essere. Ho perduto tutto, come te, e gli altri. Domani posso essere morto. Forse stanotte. Forse siamo già morti tutti a Natale, quando siamo saliti su questa barca che aveva un grave difetto e non ce ne siamo accorti subito: era maledettamente bianca.

Sì, la rabbia che è esistita se n’è andata quasi tutta e io adesso mi sento ancora ridicolo a morire così, parlando. Posso gridarlo, Sayoro?, Ridicolo!
Non mi sono sentito gridare. Immaginate che l’ho fatto.

Io con la morte ho già confidenza, per il piede zoppo che mi ritrovo.
Io.
Non so quasi dirlo questo “io”. E’ come se mi fossi già sfaldato e l’io che ero mi
volasse sopra il corpo che ora è qui, lo so, senza forze in mezzo a voi, mie copie. Estraneo a me stesso osservo tutto accadere.
Posso parlare di un certo Baba che ho conosciuto; va bene, così, Sayoro? Parlerò fingendo d’essere io. Posso fingere d’essere un altro? Magari uno che non ha né fame né sete, adesso. Non mi fa male nulla, del corpo, sai? Sento solo delle piccole morsicature al piede.
Lo so che è impossibile che siano vere.

Non riesco a non essere Baba: mi dispiace per Baba.
Sono nato zoppo destro, con il piede che non ha mai avuto cuore e polmoni, e non si è goduto quello che faceva il sinistro. Tutta la vita è stato geloso dell’altro, ma adesso, sono sicuro, se la gode: lui almeno, già morto, non teme becchini. Yaay mi raccontava che quando ero ancora nella sua pancia e mi muovevo, con il piede sinistro la riempivo di colpi e con l’altro l’accarezzavo. Quando sono nato, il piede destro è stata l’ultima parte del mio corpo a lasciarla. Questo me lo diceva sempre e sempre, mi annoiava a furia di dire questa faccenda, era un’ossessione,
e anche che aveva pianto molto di nostalgia per quelle carezze che perdeva. Le amiche e le sorelle a consolarla per aver partorito un figlio storpio e lei a gridare solo queste parole Ora, sono davvero sola.
Non me ne fregava un bel niente di sentire la stessa tiritera ogni giorno, sulla mia nascita. Sono nato come nascono gli altri, guai a me, questo non potevo dirlo! Ci restava male,
ma non abbastanza. Il giorno dopo mi raccontava ancora la storia, aspettandosi curiosità sulla mia faccia. Da strozzarla! Non provavo neppure ad allontanarmi. Ascoltavo e sentivo che mi venivano giù le spalle.
Mi si stancavano le spalle ad ascoltarla. Tanto, se anche mi fossi spostato, mi sarebbe venuta dietro. Parlando.

Povera yaay.

Yaay ha sempre avuto molte attenzioni per il mio piede. Qualche volta ci giocava come fosse una bambola. Gli preparava vestiti di stoffa, pettinava capelli attaccati all’alluce. Capelli non ce n’erano. Per lei c’erano.
Tante volte mi sembrava che parlasse solo a lui, dimenticandosi di me. Il resto. Oltre al piede, io ero il resto.
Solo crescendo ho capito l’aiuto che mia madre ha voluto darmi, a modo suo, per convincermi che anche quel pezzo di me aveva valore. Ognuno dice e fa come gli viene, come sa fare.
Sono cose che si comprendono da adulti, ma non si riesce a perdonare davvero fino in fondo, neanche una infelice yaay. A quei tempi tutti i suoi giochi mi sembravano solo ridicole messe in scena: non solo ero nato storpiato ma dovevo anche vedermi il piede decorato a fiori in grembo a mamma, mentre gli altri ragazzini giocavano a pallone nella piazza. Vero, Sayoro? Quanta polvere sollevavate! E yaay vi scacciava con quella sua voce da uccello raffreddato, maledicendovi perché le sporcavate i panni stesi. E io protestavo dicendole che mi piaceva vedervi, ma lei no, Sporcano i panni. Sporcano i panni, diceva al mio piede inanimato tra le sue mani. Mi faceva avvicinare solo dalle bambine del rione, che stavano sedute composte accanto a noi a disfarsi a vicenda le cento treccine in testa e che ogni tanto lanciavano occhiate mezzo pietose e mezzo schifate al morto a cinque dita con il quale avevano l’obbligo di giocare. Io non ho mai rivolto la parola a nessuna di loro. Me ne stavo fermo ad occhi aperti immaginandomi portiere in una squadra di calcio, vedendomi di volta in volta scattante come una pantera o alto come una giraffa. Quando mi stancavo e decidevo di avere l’ultima visione fantastica, mi figuravo come un fenicottero addormentato su una gamba, imprigionato nella rete del campo.
Chissà perché ora sono questi i ricordi che racconto.
Sarà perché siamo rimasti in undici?
Ma contro chi stiamo giocando?
Con il vento?
O con il buio? Ma quando mai l’abbiamo temuto davvero, questo nostro primo babbo.
Sarà l’Atlantico il nostro avversario?
Fate bene a non rispondermi, a conservare le forze per il secondo tempo dell’incontro quando forse ci metteranno contro una squadra più forte ancora; perché io sono certo che la nostra partita non finisce qui, con la vita che stiamo lasciando: ché non ne abbiamo ancora avuto abbastanza. Troppa grazia!

Sayoro ha voluto che io fossi il primo a parlare, per il rispetto che si ha per i più anziani in questo nostro Continente, e lo ringrazio per questo.
Sono rimasto il più anziano
sulla barca.
Ho solo trentadue anni e vi chiedo perdono se mi è tremata la voce nel dirlo. Può bastare, Sayoro? No, non ti basta.
Ho amato l’Oceano ogni giorno di più, man mano che crescevo, e, anche se zoppo, ho imparato ad avvicinarmi all’acqua, ordinando a yaay di non accompagnarmi più, o mi sarei amputato il piede. Ogni giorno, quando finivo la scuola, andavo, tirandomi la gamba appresso, dai pescatori sulla riva. Un po’ in disparte li guardavo caricare le reti sulle barche e partire in mare a lanciarle, e poi tornare a riva a tirarle fuori. Questo capitava: andavo ogni giorno, ma solo quando avevo già compiuto dodici anni un pescatore cugino di mio padre, gridò, Baba, tira anche tu.
Non avevo mai sentito delle parole così belle sino ad allora.

Tirai le reti come un matto, zoppicando, strisciando, cadendo e rialzandomi. Mi rotolavo sulla spiaggia ad afferrare quello che buttavano le reti. Pesci d’ogni colore; decine di pesci
palla,
ad uno,
ve lo confesso,
provai a tirare un debole calcio con il piede destro, felice di fare un piccolo dispetto a yaay. Da quella volta aiutai ogni giorno, in spiaggia, ma solo quando finii il liceo dalle suore i pescatori mi fecero salire su una barca. Vi dirò, quella barca fu il mio piede nuovo e non mi importò, mentre ero al largo, sentire le urla di yaay avvertita, corsa a trattenermi sulla riva. Non mi importò la sua voce di uccello tradito né vedere i suoi capelli imbiancarsi in un secondo. Desiderai solo che mio padre, morto affogato in quello stesso mare quando ero in pancia a yaay, non dubitasse mai del mio coraggio nuovo. Voglio che anche adesso lui continui a riposare senza dubbi sul coraggio dell’unico figlio che ha fatto in tempo a generare. Anche adesso io avrò coraggio, dimmelo anche tu, Sayoro.
I pescatori mi insegnarono a nuotare, all’inizio legandomi ad una fune attaccata all’imbarcazione.
Funi.
Funi buone e funi cattive, a questo mondo.
Ogni preghiera che le suore mi avevano educato a dire a scuola accompagnò le mie bracciate. Poi, senza fune, dimenticai preghiere e suore. L’acqua del mare è stata la mia seconda madre, la mia nuova yaay. Un mondo liquido per zoppi, mutilati, muti e sordi che là dentro si scordano di essere così.

Che brutto silenzio in questa barca. Credo mi stia ascoltando solo tu, Sayoro; gli altri non so; non so neanche se qualcuno tra loro è morto senza sentire la fine di questi ricordi che hai tanto voluto.
Non potevo restare a fare il pescatore per sempre.
Non potevo.
Troppi mari ad aspettarmi, su questa terra. Altri Oceani in cui nuotare, altri pesci senza piedi. Penserai che è stato il mare, alla fine, a tradirmi, Sayoro? Io non lo penso. Altri mi hanno tradito: avevano gambe e piedi sani, ma hanno rubato solo i miei soldi, non la mia vita. Quella, anche questa poca che mi è venuta in mente, resterà alla deriva nell’Atlantico: unico mare che pensavo di conoscere. Servono cento vite per conoscere un mare e io sono stato un fesso a credere di sapere già tutto su di lui. Avevo fatto solo quattro bracciate nelle sue acque, in fondo. Perché mai avrebbe dovuto proteggere quello che io pensavo figlio suo?

Dalla deriva, prima o poi, questa barca tornerà ad una sponda, e là, ne sono certo, ci sarà yaay ad aspettarmi per riempire di unguenti il mio piede e prepararlo alla sepoltura. Questo piede meritava di morire giovane, in fondo. A yaay vorrei solo dire, ora che il diritto d’essere pesce mi è stato negato

vorrei dire

niente

vorrei dirle che per un uomo l’unica yaay è quella che ti ha partorito con la sua carne.
Che dici Sayoro, non sarebbe meglio, invece, stare zitti?
Che domanda, da fare proprio a te, cantore.

Le parole per yaay sono queste: nessuna donna deve piangere mai, in Africa. Soprattutto per un piede.

(*) Questa «scor-data» esce anche su «Corriere delle migrazioni». Del libro «11» si è parlato più volte in blog.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 4 giugno avevo, fra l’altro, queste ipotesi: 109 avanti Cristo (forse): nasce Spartacus; 1571: al rogo Sigismondo Arquer; 1601: primo supplizio per Campanella; 1759: congiura Pontiac; 1913: muore la suffragista Emily Davidson; 1928: i tribunali speciali di Mussolini rovesciano secoli di galera sui dirigenti del Pc(d)i; 1940: famoso discorso di Churchill; 1944: eccidio a La Storta; 1970: Australia, l’aborigena Neville Bonner in parlamento; 1989: Tienanmen; 2005: muore Dario Paccino; 2007: sentenza su inquinamento di Radio Vaticana; 2009: muore Mercedes Sosa; 2011: una storiaccia a Montagnana… E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Tante le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su http://www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Donna meravigliosa è Savina, generosa creatura con le antenne, capace di captare le più minute vibrazioni dell’ anima per trasformarle in parola succulenta e profumata, persino della denuncia. Da leggere e ri-leggere: sempre una continua scoperta.

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