Scor-data: 7 ottobre 1571

Il giorno della battaglia di Lepanto

di Fabrizio Melodia (*)  

Le passeggiate per Venezia sono sempre passeggiate nella storia, anche con la “minuscola”, è un continuo viaggio nel tempo e nello spazio, un addentrarsi in un labirinto di memorie e scritture di pietra, testimoniate da tante targhe bianche dipinte sulle pareti e recanti i nomi delle strade. A Venezia, tali targhe vengono chiamate affettuosamente “nizioeti” (lenzuolini): ogni calle, campiello, salizada, fondamenta, chiesa, sestiere ne ha uno; le laterali, le intersezioni, ogni più piccolo e dimenticato svincolo ne reca uno che nemmeno la numerazione imposta dagli austriaci durante la loro dominazione ha saputo cancellare.

Da campo S. Bartolomeo, dando le spalle alla statua di Carlo Goldoni, si prosegue verso la “cae de scalater”, per poi arrivare a S. Lio, ex residenza del pittore Antonio Canal, meglio noto come il Canaletto. Girando a sinistra, si passa per una calletta non troppo larga, tenendo alla destra il noto locale veneziano “All’olandese volante”, rinomato per birre e cicheti (spuntini), per poi oltrepassare il Ponte delle Paste e giungere sulla sinistra in un campiello nascosto, dall’aspetto dimesso e un poco diroccato, con alcuni mattoni pieni a vista e l’imponente portone dal frontone senza ornamenti.

Un nome troneggia chiaro sul “nizioeto”, quasi risuona nel silenzio del campiello, appena usciti dalla calle, tenendo a lato un fornitissimo e specializzato negozio di materassi ortopedici e un bacaretto dai cicheti ottimali: “Corte Bragadin”.

Senatore veneziano a Famagosta (presa d’assedio dagli Ottomani in quanto punto strategico nelle rotte commerciali del Mediterraneo) si ricorda per una questione dibattuta, ovvero se fu lui a iniziare a offendere gratuitamente il pascià, oppure fu un tira e molla che portò alla sua ignominosa fine.

Tutto iniziò con l’assedio della città di Famagosta, da parte delle truppe ottomane comandate da Mustafa Lala Pascià: era una roccaforte che ospitava i pirati cristiani, dediti alle peggiori scorribande per depredare le navi turche. Attività appoggiata felicemente dal papato, per contrastare la supremazia turca e confermare il proprio potere.

Del resto questioni di etica, soprattutto nella politica delle relazioni internazionali, anche al giorno d’oggi, non rispettano di sicuro i sei punti fondamentali della filosofia kantiana per la pace perpetua, in quanto per gli Stati Sovrani vige esclusivamente il principio di legittimità. Un organismo sovranazionale che sia deputato a dirimere pacificamente le controversie internazionali è un’utopia anche ai tempi dell’Onu, figuriamoci ai tempi d’oro del rinascimento, in cui Niccolò Machiavelli aveva descritto cosi abilmente le qualità e le virtù fondamentali nel manuale di chi vuol essere perfetto “Principe”.

La reazione dei turchi fu prendere d’assedio la città cipriota di Famagosta, governata dal senatore veneziano Marcantonio Bragadin, a cui è intitolata la corte citata, per ripristinare e rendere sicura la rotta verso Costantinopoli,

Andando con ordine, l’assedio di Famagosta iniziò il 22 agosto 1570:la guarnigione era composta da circa 3.800 fanti italiani (più qualche schiavone, corso e tedesco) mercenari, 800-1.600 delle cernide vecchie e almeno 3.000 (o forse addirittura il doppio) fanti raccogliticci in città e nel contado. Si aggiungevano a questi fanti alcune centinaia di stradioti albanesi (cavalleggeri), circa 300 fino a settembre, che furono rinforzati dalla fuga dei cavalleggeri e della nobiltà dopo la presa di Nicosia (almeno 200 se non 300 uomini in più, tutti veterani).

Il 26 gennaio 1571 giunsero a Famagosta 16 galee veneziane guidate da Marcantonio Querini, provveditore agli ordini del Venier, con viveri, rifornimenti e nuove truppe, circa 1.600 uomini. Un successivo convoglio, con a bordo circa 800 fanti arrivò in marzo.

Il 1 agosto Famagosta, ormai indifendibile, si arrese con l’assicurazione che la popolazione avrebbe potuto lasciare indenne la città. Avendo perso più di migliaia di uomini nell’assedio (le stime della consistenza dell’esercito turco impiegato nella guerra di Cipro sono molto imprecise e talvolta tendono al fantasioso) e, fra questi, il suo stesso figlio, Mustafà Pascià non mantenne la parola e i veneziani vennero resi schiavi: per questo si parlò molto di alcuni casi di uccisione dei turchi che si erano arresi sulle mura o nei fossati durante assalti falliti (uccidere i prigionieri era pratica abbastanza comune durante gli assedi, specie se non si sapeva come nutrirli).

Il 17 agosto, un venerdì, il comandante della fortezza, il sopracitato senatore Marcantonio Bragadin era stato scorticato vivo di fronte a una folla esultante: la sua pelle, conciata e riempita di paglia, era stata innalzata come un manichino sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Astorre Baglioni, Alvise Martinengo e Gianantonio Querini, gli altri comandanti. I macabri trofei vennero quindi inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade della capitale ottomana e infine portati nella prigione degli schiavi.

La risposta dei veneziani e del papato non si sarebbe fatta attendere, anche se le testimonianze riferiscono che la reazione tremenda del Pascià non fu insensata, ma rispondeva probabilmente a un atto di poca accortezza di Bragadin. Costui, durante la trattativa, arrivò a offendere pesantemente il sultano, quando si trovò nella situazione di dover rispondere dei prigionieri turchi poco tempo prima catturati, anche se nell’atto originario di resa non se n’era fatta menzione.

Il 2 luglio 1571 Venezia, il Papato e la Spagna siglarono un’alleanza contro i Turchi passata alla storia come Lega Santa. Ma di religioso ovviamente c’era ben poco. I contraenti erano animati da scopi distinti: interesse dell’impero spagnolo era utilizzare la flotta per riconquistare la Tunisia e allontanare la minaccia dei corsari barbareschi da Napoli, Sicilia e Sardegna, oltre che dal sud della Spagna; il papa voleva animare una grande crociata verso il mediterraneo orientale; Venezia mirava a riconquistare i possedimenti perduti e giungere alla svelta a una pace di compromesso con l’Impero ottomano, suo maggiore partner commerciale. Le piccole potenze italiane cercavano solamente di mostrare la bandiera per questioni d’onore, ma erano sostanzialmente contrarie a rischiare le loro galee in battaglia come gli spagnoli che concepivano la loro flotta più come strumento difensivo e destinato allo sbarco di eserciti in Nord Africa.

La flotta della Lega, riunitasi a Messina al comando di Don Giovanni d’Austria, contava 50 navi veneziane fra galee sottili, navi da carico, imbarcazioni minori e 6 potenti galeazze, 79 galee della Spagna, compresi i domini di Napoli e Sicilia e l’aiuto dei Savoia, appartenenti all’impero, 12 galee toscane noleggiate dal papa, 28 galee genovesi e le forze maltesi degli Ospitalieri (4 galere grosse, i cavalieri di Malta avevano già subìto due gravi sconfitte in scontri minori con i Turchi nell’anno precedente).

Giunta il 5 ottobre nel porto di Viscando, la flotta cristiana fu raggiunta dalla notizia della caduta di Famagosta e dell’orribile fine inflitta a Bragadin. Nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare verso Cefalonia, sostandovi brevemente, e giungendo, il 6 ottobre davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la potente flotta degli Ottomani.

Domenica 7 ottobre 1571, l’armata “cristiana” si scontrò con quella turca nelle acque di Lepanto: la furiosa battaglia, segnata dall’apparizione di una nuova arma, la galeazza, vide la fine (almeno momentanea) del predominio marittimo turco e la distruzione della flotta di Selim II; particolarmente gravi furono le perdite della fanteria di marina turca, un reparto altamente specializzato dei giannizzeri. Anche la flotta della Lega Santa conobbe però perdite notevoli.

«Quasi tutte le testimonianze, italiane e spagnole, affermano che il danno provocato dall’artiglieria delle galeazze fu enorme, con diverse galere colate a picco, altre sconquassate, disalberate o immobilizzate; qualcuna prese fuoco e cominciò a bruciare, e l’intera flotta nemica, mentre vogava all’arrancata “con spaventosi gridi” per giungere a tiro, venne accecata dal fumo e gettata nella confusione. I comandanti delle galere potevano essere incerti se avrebbero avuto il tempo di sparare più di una salva, ma quelli delle galeazze non avevano di questi dubbi. Più di tutti gli altri vascelli, le galeazze ebbero l’agio di sparare più e più volte i loro cannoni, che erano distribuiti a prua, a poppa e “a meza galia”, per cui le galere turche continuarono a essere bersagliate, di fianco e poi anche alle spalle, fino al momento in cui giunsero a contatto con la linea nemica»: così Alessandro Barbero in «Lepanto, la battaglia dei tre imperi» (Laterza, 2010).

Il 18 ottobre, all’ora sesta, giunse a Venezia la fusta (NOTA 1) che recava la notizia della vittoria e le insegne catturate al nemico: vennero decretati sette giorni di festeggiamenti e intonato il Te Deum, come in tutte le città d’Europa all’arrivo della notizia.

Il desiderio di Filippo II di non avvantaggiare troppo i veneziani lasciò però la flotta della Lega inattiva, mentre gli spagnoli si rifiutavano di attaccare le fortificazioni costiere di Corone, Modone e Lepanto. In tal proposito il gran visir Sokolli disse al bailo (NOTA 2) veneziano di Istanbul che i veneziani si sarebbero potuti fidare più del sultano che degli altri Stati europei: sarebbe stato sufficiente cedere al volere del Sultano, cioè cedere Cipro agli Ottomani.

Mentre la flotta alleata si scioglieva per svernare, Venezia iniziò a fortificare la sua laguna contro eventuali incursioni nemiche. Selim II infatti aveva già provveduto ad avviare l’allestimento di una nuova armata.

In questo periodo la Dalmazia interna viene ripresa da Venezia, assieme a Brazza e Maina, che si erano consegnate nel maggio 1571.

Nel 1572 il nuovo Capitano Generale, Jacopo Soranzo, obbedendo agli ordini del Senato veneziano, riprese le operazioni navali senza attendere il ricongiungimento della flotta alleata. Il 2 agosto si unirono le navi di Marcantonio Colonna e di Don Giovanni d’Austria, assieme alle quali la flotta giunse nelle acque di Igumenitsa, scontrandosi il 16 settembre con l’armata turca, che poi ricoverò a Modone, mentre la flotta veneziana andava a stazionare a Navarino, sbarrando il passo del mare aperto.

Don Giovanni e Colonna abbandonarono il 6 ottobre la posizione per cercare rifornimenti, costringendo i veneziani a ripiegare su Corfù.

Il 7 marzo 1573 venne firmato il trattato di pace fra Venezia e l’Impero ottomano: Venezia rinunciava al possesso di Cipro.

E se torniamo a camminare… Venendo dal ponte di Rialto, lasciandosi alle spalle l’imbarcadero della linea 2, con alla destra l’ imponente edificio della Banca d’Italia, si giunge al crocevia in un campo, dove si erge una colonna ornata e un poco annerita dalle intemperie, il centro perfetto della città di Venezia. Tale campo prende il nome dalla chiesa di san Salvador che lì si erge. Al suo interno, si trova la tomba di Caterina Cornelia Cornaro, ultima regina di Cipro, ritornata a Venezia dopo la rinuncia dell’isola da parte della Serenissima Repubblica. Il suo ritorno fu salutato dal volo di centinaia di colombi, che ancora oggi popolano (fra sterminii e altri provvedimenti comunali per digiuni forzati) la città lagunare.

Qui c’è dunque un vero labirinto nella Storia, segnato da lenzuoli bianchi dipinti sui muri.

Bibliografia

Fonti inedite

  • Archivio di Stato di Venezia.
  • Annali di Venezia, 1566-1570.
  • Annali di Venezia, 1571.
  • Consiglio dei Dieci, Parti Segrete, reg.9.
  • Materie miste notabili, reg.11.
  • Senato Secreta, regg. 76, 77, 78.
  • Terminazioni degli inquisitori in armata, 1570-71.
  • Archivio di Stato di Genova.
  • Lettere ministri, Costantinopoli, 2170.
  • Litterarium, Fogliazzi, 1966-67.
  • Venezia, Biblioteca Marciana: Ms. It. VII 390 e 391, Copialettere di Massimiliano Barbaro.

Fonti edite

  1. AA.VV., «Storia di Venezia», Treccani, 12 volumi, 1990-2002.
  • Diehl, Charles, «La Repubblica di Venezia», Newton & Compton editori, Roma, 2004.
  • Romanin, Samuele, «Storia documentata di Venezia», Pietro Naratovich tipografo editore, Venezia, 1853.
  1. Silvio Bertoldi, «Sangue sul mare – Grandi battaglie navali», cap. III, Rizzoli, Milano, 2006.
  2. Gaudenzio Dell’Aja, «14 agosto 1571: un avvenimento storico in S. Chiara di Napoli», Napoli, 1971.
  3. Francesco Frasca, «Il potere marittimo in età moderna, da Lepanto a Trafalgar», Londra, Lulu Enterprises UK Ltd, 2008.
  4. Philip Gosse, «Storia della pirateria», Bologna, Odoya 2008.
  5. Camillo Manfroni, «Storia della Marina Italiana», III, Livorno, R. Accademia navale, 1897.
  6. İsmail Hakki Uzunçarsılı, «Osmanlı Tarihi» (Storia ottomana), tomo III/1, Ankara, Türk Tarih Korumu, 1962-83.
  7. Felix Hartlaub, «Don Juan d’Austria und die Schlacht bei Lepanto», Berlino, 1940.
  8. Gigi Monello, «Accadde a Famagosta, l’assedio turco ad una fortezza veneziana ed il suo sconvolgente finale», pp.192, tav. 10, Scepsi & Mattana Editori, Cagliari, 2006.
  9. Zarif Orgun, «Selim II. nin kapudan-i derya Kılıç Ali Paṣa’ya emirleri» (Gli ordini del Sultano Selim II all’ammiraglio della flotta ottomana Kılıç Ali Paṣa), in: «Tarih Vesikaları» (Documenti di storia), Ankara, 1941-42.
  10. Arrigo Petacco, «La croce e la mezzaluna: Lepanto 7 ottobre 1571, quando la cristianità respinse l’islam», Milano, Mondadori, 2005.
  11. Louis de Wohl, «L’ultimo crociato», Itacalibri, 2006.
  12. Giovanna Motta (a cura di) «I turchi, il Mediterraneo e l’Europa», FrancoAngeli, Milano, 1998.
  13. Alessandro Barbero, «Lepanto. La battaglia dei tre imperi», Laterza, 2010.
  14. Sergio Masini, «Le battaglie che cambiarono il mondo», Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995.
  15. Ivone Cacciavillani, «Lepanto», Corbo e Fiori Editore, Venezia, 2003.
  16. Cecilia Gibellini, «L’immagine di Lepanto. La celebrazione della vittoria nella letteratura e nell’arte veneziana», Venezia, Marsilio, 2008
  17. Girolamo Diedo, «La battaglia di Lepanto descritta da G.D., e la dispersione della invincibile armata di Filippo II», Milano 1863.
  18. Fernand Braudel, «Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II», Torino, Einaudi, 1953
  19. Carlo Maria Cipolla, «Vele e cannoni», Bologna, Il Mulino, 2009
  20. Niccolò Capponi, «Lepanto 1571. La Lega santa contro l’Impero ottomano», Il Saggiatore, Milano 2012.
  21. Jan Glete, «La guerra sul mare (1500-1650)», Il Mulino, Bologna 2010.

NOTA 1 – la fusta o galeotta era un tipo di galea più sottile, leggera e veloce e caratterizzata da un minor pescaggio rispetto alla classica galea da guerra, detta galea sottile. Recava due file di banchi a due rematori e un singolo albero a vela latina. Le artiglierie, come su tutte le galee erano poste a prua, rivolte nella direzione di rotta. Generalmente erano denominate fuste le imbarcazioni maggiori di questa tipologia, fino a 18 banchi per lato e 35 metri di lunghezza, mentre le galeotte rappresentavano la versione minore dell’imbarcazione, con una dozzina di banchi per lato e 25 metri di lunghezza. La fusta, per la sua maneggevolezza era utilizzata principalmente per attività di controllo costiero ed esplorazione di flotta. Inoltre, date le ridotte dimensioni degli equipaggi rispetto alle galee da guerra, esse si presentavano come più adatte alle attività di servizio permanente. Per i medesimi motivi questo tipo di nave era favorito dai corsari barbareschi operanti lungo le coste del Nord Africa. Tradizionalmente le fuste recavano, da prua all’albero di maestra, remi a singolo rematore e, dall’albero sino a poppa, remi a due rematori.

NOTA 2 – A partire dal XII secolo la Repubblica di Venezia cominciò a insediare nelle principali colonie d’oltremare i baili: governatori che univano alla funzione di magistrati delle comunità mercantili quelle di ambasciatori residenti presso le varie corti orientali. I baili fungevano inoltre da sovrintendenti alle attività delle colonie minori, rette da consoli, e avevano autorità su tutti i cittadini veneziani presenti nella regione cui erano preposti. Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204 tutti i baili vennero sottoposti all’autorità del Podestà ivi residente, sino alla riconquista bizantina nel 1261. Dopo il 1277 a capo della ricostituita colonia nella capitale orientale venne posto un funzionario con il titolo di Bailo di Costantinopoli, al quale, a partire dal 1322, venne assegnata giurisdizione su tutto l’Oriente, esattamente come in precedenza al Podestà. Con l’espansione dell’Impero Ottomano il ruolo dei baili minori venne progressivamente meno, portando alla loro sostituzione con consoli ordinari. La carica di bailo di Costantinopoli sopravvisse tuttavia sino alla caduta della Repubblica nel 1797.

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”. Ma qualche volta ci sono argomrenti più leggeri che… ogni tanto sorridere non fa male.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 7 ottobre fra l’altro avevo appuntato: è la «giornata mondiale del lavoro dignitoso» oppure 1885: nasce Niels Bohr; 1909: nasce Joe Hill; 1931: nasce Desmond Tutu; 1934: nasce Amiri Baraka; 1970: alluvione a Genova; 1985: dirottamento nave Lauro; 2001: inizia l’attacco Usa in Afghanistan; 2006: uccisa Anna Politkovskaja. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • anche Cervantes partecipò alla battaglia , meno male non è morto.
    (Uno dei più famosi partecipanti alla battaglia fu lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, che venne ferito e perse l’uso della mano sinistra; fu ricoverato a Messina, al ritorno dalla spedizione navale, presso il Grande Ospedale dello Stretto, e si dice che, durante la degenza iniziò il Don Chisciotte della Mancia.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Lepanto)

  • Alla già ricca bibliografia aggiungerei un romanzo di piacevolissima lettura che a Lepanto si conclude ovvero «Altai» del collettivo Wu Ming

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