Scor-data: 9 aprile 1953

Il caso di Wilma Montesi
di Fabrizio Melodia (*)

«Cold Case» è una pregevole e appassionante serie televisiva statunitense, in cui una squadra della polizia di Filadelfia è preposta ad indagare su quei casi freddi (delitti irrisolti) avvenuti nel passato recente e remoto.
Anche nella nostra Italia, tali casi abbondano: uno di essi è il delitto Montesi che ebbe grande rilievo mediatico a causa del coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco nelle indagini successive. Vittima fu la ventunenne Wilma Montesi (1932-1953).
La ragazza, scomparsa il 9 aprile, fu ritrovata sabato 11 aprile 1953, vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, nei pressi di Roma.
Il corpo fu rinvenuto da un manovale, Fortunato Bettini, che stava facendo colazione presso la spiaggia. Appariva riverso supino sulla battigia, immerso in acqua solo dalla parte della testa. La donna era parzialmente vestita e gli abiti zuppi d’acqua: non aveva più indosso le scarpe, la gonna, le calze e il reggicalze.
Gli inquirenti iniziarono immediatamente a ricostruire la vita della vittima. Stando alle prime notizie, Wilma Montesi era una ragazza dalle origini modeste, figlia di un falegname, risiedente a Roma in via Tagliamento.
Al momento della sparizione, Wilma Montesi era fidanzata con un agente di polizia in servizio a Potenza e in procinto di sposarsi. Era considerata molto bella, con qualche aspirazione a entrare nel mondo del cinema e dello spettacolo, il cui centro si trovava a Cinecittà: da tutti descritta come tranquilla e serena, impegnata a mettere a punto il corredo in vista delle imminenti nozze, programmate per il Natale successivo.
La stampa diede notizia in pompa magna del ritrovamento del corpo della ragazza, tanto che il padre Rodolfo Montesi venne a conoscenza della morte della figlia proprio dai quotidiani.
Dalla ricostruzione degli ultimi movimenti della giovane emerse che non era rientrata a casa per cena la sera del 9 aprile, contrariamente alle abitudini. La madre, insieme all’altra figlia, Wanda, aveva trascorso il pomeriggio al cinema assistendo a «La carrozza d’oro»; aveva declinato l’invito a unirsi a loro, perché non le piacevano i film con Anna Magnani, aggiungendo che forse sarebbe uscita per una passeggiata.
Al rientro, le due donne constatarono che Wilma era assente, ma stranamente a parer loro aveva lasciato in casa alcuni gioielli di modesto valore, dono del fidanzato, che abitualmente indossava quando usciva.
La portiera dello stabile in cui viveva la famiglia Montesi affermò di averla vista uscire alle 17:30. Alcune testimonianze collocano la Montesi sul treno che da Roma porta a Ostia, distante da Torvaianica una ventina di chilometri, un po’ troppi per essere percorsi a piedi.
Il titolare di un chiosco di cartoline situato nei pressi della spiaggia di Ostia sostenne di aver conversato con una giovane somigliante alla Montesi, che aveva acquistato una cartolina illustrata e accennato all’intenzione di spedirla al fidanzato a Potenza.
Qui si perdono i movimenti di Wilma Montesi fino al suo ritrovamento. Il corpo fu portato all’Istituto di medicina legale di Roma, dove fu eseguita l’autopsia che portò alla luce la probabile sincope dovuta a un pediluvio, portando alle conclusioni che la sfortunata ragazza aveva forse approfittato della gita al mare per mangiare un gelato (i cui resti furono rinvenuti nello stomaco) e fare un pediluvio in acqua di mare per alleviare una fastidiosa irritazione ai talloni di cui, secondo la testimonianza dei familiari, soffriva da qualche tempo.
Per questo pediluvio, Wilma Montesi si sarebbe sfilata calze e reggicalze, gonna compresa, immergendosi successivamente. A questo punto, sarebbe insorto il malore (probabilmente dovuto al fatto che la donna fosse in pieno ciclo mestruale, come poté constatare il medico legale) per poi scivolare in acqua, annegando. I più giudicarono ridicola questa ricostruzione.
La distanza tra Ostia (il presumibile ultimo avvistamento della ragazza) e il punto del ritrovamento venne giustificato sostenendo che fosse dovuto a una complessa combinazione di correnti marine. Dall’autopsia emerse che la ragazza era ancora illibata e non aveva subìto violenza (come evidenziato dal fatto che il volto era ancora perfettamente truccato e lo smalto sulle unghie delle mani intatto); in seguito tuttavia un altro medico, il professor Pellegrini, affermò che la presenza di sabbia nelle parti intime della ragazza poteva essere spiegata solo come conseguenza di un tentativo di violenza.
La polizia diede credito all’ipotesi dell’annegamento e chiuse il caso ma l’avvenimento era troppo appetibile per i giornali, i quali non mancarono di manifestare aperto scetticismo.
«Il Roma», all’epoca un quotidiano monarchico, il 4 maggio cominciò ad avanzare l’ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l’ipotesi presentata nell’articolo «Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?», a firma Riccardo Giannini, ebbe largo seguito, ripreso da gran parte della stampa italiana.
Il 24 maggio 1953 un articolo di Marco Sforza, pubblicato sulla rivista comunista «Vie Nuove», creò scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito “il biondino”, venne identificato nella persona di Piero Piccioni. Piccioni era un musicista jazz (noto con il nome d’arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e fra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana.
Il nome di “biondino” era stato attribuito al giovane da «Paese Sera», in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti della ragazza assassinata. L’identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva svelata l’identità al grande pubblico.
Su «Il merlo giallo», testata di destra, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta in cui un reggicalze, tenuto nel becco da un piccione, veniva portato in questura, un chiaro riferimento all’uomo politico e al delitto.
La notizia suscitò clamore anche perché venne pubblicata poco prima della campagna elettorale del 1953.
Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore di «Vie nuove»; il giornalista venne sottoposto a interrogatorio (sembra molto duro) . Lo stesso Pci, beneficiario politico dello scandalo, disconobbe l’operato del giornalista, che venne accusato di “sensazionalismo” e minacciato di licenziamento. Nemmeno sotto interrogatorio Sforza citò il nome della fonte da cui veniva la notizia, limitandosi ad affermare che veniva da ambienti Dc.
Anche il padre del giornalista, influente docente di filosofia all’Università di Roma, suggerì al figlio di ritrattare, come pure fece il celeberrimo “principe del foro” Francesco Carnelutti, che aveva preso le parti dell’accusa per conto di Piccioni.
Si raggiunse l’accordo e la querela fu ritirata, non senza che Sforza versasse 50.000 lire in beneficenza.
La Democrazia Cristiana si ritrovò di nuovo con la faccia (o facciata?) pulita e il caso Montesi finì nel dimenticatoio fino al 6 ottobre 1953, quando un nuovo articolo riaccese le fiamme.
Silvano Muto, che contrariamente al cognome parlava anche troppo, giornalista e direttore del periodico scandalistico «Attualità», pubblicò il roboante articolo «La verità sul caso Montesi».
Muto aveva condotto un’indagine giornalistica nel “bel mondo” romano, basandosi sul racconto di un’attrice ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tale Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma a un’orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell’occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente della nobiltà romana e figli di politici, come ebbe modo di raccontare nei particolari. Secondo le dichiarazioni della signorina Bisaccia, Wilma Montesi avrebbe assunto un cocktail di droga e alcool che le avrebbe causato un gravissimo malore, portandola rapidamente alla morte. Spaventati, i presenti avrebbero trasportato il corpo della Montesi sulla spiaggia di Torvaianica, dove lo avrebbero abbandonato.
Fra i nomi citati nell’articolo vi erano Piero Piccioni e il marchese Ugo Montagna, proprietario della tenuta di Capocotta. I partecipanti all’orgia, definiti dalla stampa “capocottari”, rappresentavano l’alta società romana, ed era facile vedere dietro l’operato delle forze dell’ordine un disegno volto a proteggerli, sempre prendendo per buona la testimonianza rilasciata a Muto dalla signorina Bisaccia.
Muto fu perseguito dal procuratore capo di Roma, Angelo Sigurani, per aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico» ma l’articolo fu ripreso da tutti i giornali e divenne l’ipotesi largamente più considerata per la risoluzione del caso.
Tutto questo non impedì al marchese Montagna di querelare Silvano Muto, il quale inizialmente ritrattò in parte l’articolo, per poi nuovamente smentire la ritrattazione, mentre la signorina Bisaccia, forse minacciata, ritrattò tutto, compreso l’articolo di Muto.
Altra deposizione bomba fu poi rilasciata da un’altra ragazza, Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta Marianna o Annamaria o meglio ancora il Cigno Nero, per via del lungo collo e dell’abito nero con cui venne ritratta la prima volta: figlia di un notaio di Milano, con speranze d’attrice cinematografica e amante del succitato marchese Montagna, la quale aveva già rilasciato per ben due volte una testimonianza al procuratore Sigurani, semplicemente ignorata, dove affermava che la Montesi era la nuova amante di Montagna. Il «cigno nero» disse di essere a conoscenza della verità: tornata dal padre a Milano, si rivolse allo zio, parroco di Lomazzo, per chiedere istruzioni. Il sacerdote indirizzò la ragazza da un gesuita, padre Alessandro Dall’Oglio, al quale la Caglio consegnò un memoriale in cui confermava la responsabilità di Piccioni e Montagna secondo quanto scritto dai giornali.
Grazie a padre Dall’Oglio, il memoriale arrivò al ministro degli Interni (Amintore Fanfani) che lo trasmise anche al papa e a Giulio Andreotti. Comunque Fanfani fece sospendere le azioni contro Muto. La tesi della Bisaccia aveva trovato una inaspettata conferma.
In seguito alla diffusione del memoriale, la Caglio venne interrogata segretamente da Umberto Pompei, colonnello dei carabinieri, che ebbe con lei due incontri. Dal memoriale emergeva anche il nome del capo della polizia Tommaso Pavone, a cui Montagna e Piccioni si sarebbero rivolti in cerca di protezione.
Il 2 febbraio 1954 il quotidiano «L’Avanti» pubblicò una nota secondo cui il nome di Piccioni sarebbe stato fatto da Giorgio Tupini, in quel momento sottosegretario alla presidenza del Consiglio e figlio del ministro Umberto Tupini: forse per rivalità interne alla Dc.
Piccioni padre fu confermato al ministero degli Esteri nel nuovo governo. Nel frattempo Pompei aveva indagato sui personaggi coinvolti: il 10 marzo riferì in un rapporto, che Montagna era stato un agente dell’Ovra (il servizio segreto fascista) e un informatore dei nazisti, attività che avevano portato al suo arricchimento. La notizia, seppur poco pertinente con il caso, suscitò grande scalpore e contribuì alla fama di Silvano Muto. Lo stesso giorno, durante un’udienza in aula sull’argomento, i parlamentari comunisti protestarono urlando «Pavone, Pavone» a fronte delle richieste di fiducia nelle istituzioni avanzate da Scelba.
Pavone si dimise e al ministro Raffaele De Caro venne affidata un’indagine sull’operato della polizia.
Pietro Nenni il 14 marzo 1954 dalle colonne dell’«Avanti» ribatté alla teoria innocentista che vedeva gli esponenti della Dc come vittime di un complotto, sottolineando come da tempo una parte della stampa, la Chiesa e alcuni organi privati stessero mobilitandosi contro la sinistra parlamentare allo scopo di screditarla e indebolirla.
Palmiro Togliatti su l’«Unità» invocò una «lotta contro l’omertà e la corruzione […] in qual modo il regime clericale possa giungere ad un crollo»: il riferimento al caso Montesi e alla Dc era palese come le allusioni al fascismo e alla sua caduta, presenti nell’articolo, erano chiari richiami al coinvolgimento di Montagna con i fascisti.
Un altro quotidiano, «Paese Sera», il 17 marzo 1954 pubblicò uno scoop: una foto del presidente del Consiglio Scelba ritratto insieme a Montagna alle nozze del figlio di un deputato dc. La tesi del complotto politico prese sempre più piede.
«Il Giornale d’Italia» annunciò in un articolo l’emissione di un mandato di cattura nei confronti di Ugo Montagna, che letta la notizia si recò spontaneamente in carcere: tuttavia non risultava alcun ordine di carcerazione e Montagna venne congedato.
Il magistrato della sezione istruttoria della Corte d’appello di Roma, Raffaele Sepe, cominciò le indagini processuali, esumando la salma della Montesi e ordinando perizie e nuovi interrogatori. Molte delle accuse a personaggi secondari e solo vagamente correlati alla vicenda caddero, ma da questa fase parve emergere un disegno preciso che avrebbe legato Piccioni, Montagna e i vertici delle forze dell’ordine romane.
Il 26 marzo 1954 il caso Montesi fu ufficialmente riaperto dalla Corte d’Appello di Roma. Piero Piccioni e Ugo Montagna furono arrestati, rispettivamente con l’accusa di omicidio colposo e uso di stupefacenti il primo, e di favoreggiamento il secondo: furono inviati al carcere di Regina Coeli (Piero Piccioni otterrà la libertà provvisoria dopo tre mesi di carcere preventivo).
Con loro venne arrestato il questore di Roma, Saverio Polito, imputato di favoreggiamento; altri nove personaggi, fra cui il principe Maurizio d’Assia, furono denunciati.
Il 19 settembre 1954 lo scandalo era tale che Attilio Piccioni si dimise dalle cariche ufficiali.
Nonostante tutto i genitori di Wilma erano certi dell’innocenza di Piero Piccioni. E il 30 settembre sul quotidiano «Il Messaggero» il giornalista Fabrizio Menghini (che aveva seguito il caso con continuità) avanzò la velata ipotesi che vi potessero essere indizi in un’altra direzione, ovvero che avrebbero potuto accusare il giovane zio della vittima, Giuseppe Montesi. Il giovane sarebbe stato molto attaccato alla ragazza, se non addirittura invaghito di lei, e possedendo un’auto avrebbe potuto portarne il cadavere sul luogo del ritrovamento.
L’ipotesi venne avanzata con tono sarcastico, ma fu presa seriamente dall’opinione pubblica per via delle parole del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, che su l giornale «La Giustizia» affermò che il caso era vicino a una svolta drammatica e alla rivelazione del colpevole.
Anche il comportamento evasivo di Giuseppe Montesi contribuì a rendere credibile una tesi basata su mere illazioni: inizialmente infatti egli non volle dire dove si trovava la notte dell’omicidio. In seguito, nell’interrogatorio coi giudici, ammise che aveva trascorso la serata con la sorella della sua fidanzata.
Il 16 novembre 1954 un ulteriore scoop scosse il caso: due giornalisti di «Momento Sera» impegnati in un’inchiesta sulla morte di Maria Teresa Montorzi detta “Pupa” (una ragazza morta per abuso di droga in una situazione apparentemente simile allo scenario “capocottaro” ipotizzato per il caso Montesi) scoprirono una «casa d’appuntamenti» a Roma, in via Corridoni 15. Durante un appostamento notarono Giuseppe Sotgiu, uomo politico di spicco del Pci e avvocato difensore di Silvano Muto. L’avvocato Sotgiu venne fotografato mentre entrava nel bordello in compagnia della moglie ed emerse che questa vi si recava per fare sesso con alcuni giovani, fra i quali un minorenne, consenziente il marito. Il fatto intaccò pesantemente la credibilità dei principali accusatori.
Il 20 giugno 1955 Piccioni, Montagna e Polito vennero rinviati a giudizio da Sepe presso la Corte di Assise, iscritti fra gli imputati.
Infine il 21 gennaio 1957 a Venezia si aprì il dibattimento. Montagna negò di aver conosciuto la Montesi e Polito, ormai in pensione, confermò la tesi ufficiale dell’incidente in mare.
L’attrice Alida Valli depose in favore di Piccioni, confermando che i giorni precedenti il decesso della Montesi, Piero Piccioni era con lei a Ravello. Il musicista lasciò quella località lo stesso 9 aprile, rientrando nella sua casa di Roma poco dopo le 14 e poche ore dopo si trovava nello studio di un noto clinico per una visita alla gola. Dietro suggerimento del medico si era messo a letto e ci rimase anche il giorno successivo, come potevano testimoniare l’infermiere che gli fece l’iniezione quella sera stessa, un medico che lo visitò il giorno dopo e gli amici che si recarono in visita a casa sua; un alibi già noto agli inquirenti nella fase istruttoria.
Il 28 maggio il tribunale riconobbe gli imputati innocenti e li assolse con formula piena.
Il processo a Muto (difeso da Sotgiu) e alla Bisaccia per le accuse di calunnia si concluse con una condanna a dieci mesi per quest’ultima, con pena sospesa grazie alla “condizionale”. Anche la Moneta Caglio fu sottoposta a processo, ma non venne condannata.
In mezzo a questo marasma, il delitto Montesi – se di delitto si è trattato – rimane ancora irrisolto.

(*) Nel libretto «Delitti politici» (da poco recensito qui in blog) ricostruendo il caso Montesi, «un delitto moderno», Fabio Giovannini ricorda che nel linguaggio politico italiano entrò allora la definizione di «questione morale»: a usare questa espressione fu Pietro Ingrao (il 17 febbraio 1954) in un editoriale de «L’unità». Nel suo libro Giovannini recupera uno “squarcio d’epoca” (ignoranza compresa sugli effetti della marijuana che forse viene incredibilmente confusa con la cocaina) ovvero una chiacchierata, pubblicata sul settimanale «Epoca», con lo scrittore Georges Simenon che prova a immaginare la fine di Wilma Montesi in un suo romanzo.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. E molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
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