Scor-date: 21 dicembre 1863 e 1950

Se muore Roma con Belli e Trilussa

di Fabio Troncarelli (*)  

Il ventuno dicembre per i romani è una giornata di lutto speciale: infatti il 21 dicembre 1863 è morto Giuseppe Gioachino Belli e lo stesso giorno del 1950 Trilussa (Carlo Alberto Salustri). Se vogliamo dirla proprio tutta, questo lutto non è particolarmente sentito dai romani dei nostri giorni, a parte il sempre più sparuto gruppetto dei patiti della Roma de ‘na vorta. Del resto la poesia non è molto popolare fra i contemporanei in generale: figuriamoci quella in un dialetto pieno di parole che non si usano più e dunque può risultare perfino ostico. Che dire? Nessuno può obbligare un altro a intendere quello che non capisce. E’ però forse possibile fargli notare le conseguenze di questa incomprensione. A cominciare da quella fondamentale che sta alla base di tutto: la perdita di un modo di rapportarsi con la realtà e di vedere quello che altrimenti non sarebbe visibile. Prendiamo il caso di Belli. Umanamente era timido, umbratile, pieno di tic e di fobie, misantropo e nevrastenico come pochi. La paura era il suo sentimento dominante. Il suo viaggio a Castel Gandolfo lo descrisse come se fosse stato la traversata dell’Atlantico. Non parliamo poi della politica. Appassionatamente reazionario, visse nel terrore fisico dei rivolgimenti sociali, ossessionato dall’angoscia di divenire povero, lui che non lavorò quasi mai nella vita e dipendeva come un bambino dalla spada di Damocle della dote di una moglie allegramente vilipesa e tradita nonchè della benevolenza riottosa e sadica dei nobili e dei prelati di cui doveva baciare le mani con orrendi poemetti in lingua italiana, calpestando il dialetto tanto amato, per strappare un sorriso insincero, un applauso da guitto. Beh, un uomo simile, piagato dalla fortuna, esulcerato dalla doppiezza, lacerato da conflitti dolorosi, quando cominciava a parlare nella lingua “guasta e corrotta” del popolo che fingeva di esecrare, quando tirava fuori le sue scartoffie con i suoi poemi proibitissimi – che aveva ordinato di bruciare dopo la morte «affinché non sian dal mondo mai conosciuti, siccome sparsi di massime, pensieri e parole riprovevoli», quei versi che solo qualche amico caro doveva ascoltare incredulo, per sghignazzare subito di questi scherzi da ragazzaccio – allora quest’essere vile, ipocrita, spregevole diveniva un elfo che parlava con la voce argentina di Ariele e nelle sue labbra passava il vento del mare in cui la Tempesta dell’esistenza era definitivamente, misteriosamente, meravigliosamente scomparsa. Per sempre. E con le lacrime agli occhi, non per il troppo ridere per lo scherzo, ma per l’improvvisa rivelazione di una Bellezza perduta da troppo tempo, chi ascoltava i suoi sonetti, come fece Gogol, si sentiva rapito in un’altra dimensione: un mondo in cui improvvisamente il caos informe di un’umanità destinata a occupare solo i gironi più bassi dell’inferno, prendeva vita, diveniva pensiero, intuizione. Folgorante. Sublime. E i figli dell’inferno, satanici, con gli occhi sbarrati, proprio al centro della risata cesellavano diabolicamente parole che nessuno avrebbe mai più potuto dimenticare, che avrebbero costretto chiunque a fuggire urlando, dannato, perseguitato. E l’ommini accussì viveno ar monno, misticati pe’ mano de la sorte… pe’ cascà ne la gola de la morteLa morte sta anniscosta in ne l’orloggi… La morte è un passo che te gela er core… Eppure chi avesse avuto cuore di resistere a rivelazioni così crude, avrebbe sentito un’imprevista felicità che aveva la forza di scaraventare a terra la morte, di abbatterla come un gladiatore un leone libico superbo. Questa felicità, questo trasognato stupore che solo in seconda battuta assaliva l’ascoltatore di ieri – e si impadronisce di noi anche oggi – deriva da qualcosa di elementare eppure profondo: l’uso libero, audace, spregiudicato, vertiginoso di una lingua meravigliosa in cui è possibile rinominare tutte le cose e renderle eternamente nuove. Pensate un po’: misticati pe’ mano de la sorte. Ah, certo, la frase è lapidaria, perentoria, terrorizzante. Accettarla significa ammettere che il destino ci fa ballare come marionette. Già. Ma ripensateci bene. Pensate a quella parola luminosa a cui è inchiodato un concetto così atroce: misticati. La misticanza – chi è romano lo sa – è quella squisita erba di campo fatta di tante specie, che trovi solo al mercato e neppure sempre: un’insalata speciale, amara, squisita, fatta di rimasugli, di scarti, di cose da niente. I trucioli, le briciole, il nulla: ciarpame reietto tanto caro alla Musa. Ed è questo nulla che diventa luminoso come la polvere del sole e avvolge in un pulviscolo d’oro anche le verità più atroci: la sorte rende gli uomini “misticanza”, come un’accorta contadina che va a fare la verdura nel prato per portare qualche cosa ai figli e sconfiggere un’altra volta il rischio di non esserci. Se questo è vero, la sorte non è più una divinità paurosa, una Parca che recide il filo dell’esistenza: è una madre scarmigliata, scarna e pallida, che ci fa sopravvivere anche se stentatamente.

Con la stessa esuberante fantasia la lingua “corrotta e guasta” ci insegna (ma diciamo la verità: il poeta ci insegna) a rovesciare le costrizioni di una realtà arida e crudele: e se chiama i Cherubini cherubbigneri, ci suggerisce che perfino la gerarchia celeste può essere stravolta dal furore espressionista del poietes, colui che crea. E se evoca con una violenza degna di Grosz i preti affamati che cantano Magnae su quer Magna se fermorno un’ora, scolpisce nell’aria la nostra rivincita contro chi pensa solo a divorare avidamente il creato. Sì, Belli è sovrumano: epico come un aedo. E come Omero consegna Tersite all’eternità perché per l’eternità venga schernito, scuoiato vivo, come Marsia da Apollo, il dio dell’arte e della poesia.

Possiamo dire lo stesso di Trilussa? No, certamente no. O invece sì. Forse, a modo suo, con un filo di voce, anche lui può suggerire ciò che l’aedo intonava. La sua ironia scanzonata e malinconica, la sua bonomia innocua ma sottile, il suo umorismo pungente, la sua stessa figura fisica di allampanato fine dicitore, sempre pronto a sfottere e a dimenticare tutto per un bicchiere di vino o un paio di occhi rubacuori, capace di sopravvivere all’Italia Umbertina e all’Italia fascista infischiandosene con lo stesso sorriso mesto, testimoniano che anche la sua Musa flebile e di corto respiro nasconde in segreto la scintilla dell’arte, travestita da apologo, da favola, da sragionamento di un ubriaco ancora lucido.

Belli e Trilussa. Dimenticati ma ancora vivi. Ancora pronti a spiazzarci con il riso amaro, l’espressionismo ante litteram, o anche solo l’arguzia sussurrata di chi è troppo mite per osare sfidare apertamente re, regine, duci, principi e tiranni col loro immancabile corteo di nani e ballerine. Chi sentisse il bisogno di onorarne la memoria, chi volesse cercarne l’ombra a Roma può trovare le loro due statue a Trastevere, a poca distanza l’una dall’altra. Quella di Piazza Trilussa raffigura un essere sbilenco e tortuoso, una specie di granchio umano che fende inutilmente l’aria con le sue manone sorridendo al vuoto. Sotto alla statua c’è una piccola poesia che esprime bene l’animo dell’autore:

Mentre me leggo er solito giornale

spaparacchiato all’ombra de un pajaro

vedo un porco e je dico “Addio maiale!”.

Vedo un ciuccio e je dico: “Addio somaro!”.

Forse ‘ste bestie nun me capiranno,

ma provo armeno la sodisfazzione

de poté dì le cose come stanno

senza paura de finì in priggione!

Sotto la statua di Belli a Piazza Belli, invece, non ci sono versi: ci sono invece il ritratto di Marforio e quello di Pasquino, le due statue parlanti che per secoli a Roma hanno ospitato sonetti e poesie satiriche contro il potere. Anche questo, in fondo, esprime bene l’animo del poeta: il suo sfogo, lo sdoppiamento della sua personalità somiglia infatti a quello dei romanacci di sempre, costretti ad esprimersi di nascosto, appendendo poesie alle statue.

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati e salvo imprevisti ritardi come oggi, per colpa mia) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.

Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.

Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

 

Redazione
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3 commenti

  • Hai fatto bene a ritrova’ ‘sto ricordo. E Pascarella, quanno è morto? Spero non lo stesso giorno, sennò è mejo che lo chiudemo, er 21 de dicembre.

    • Grazie Fausto, ti voglio rassicurare: Pascarella morì in maggio però il 21 dicembre – mannaggia – è la probabile data della morte di Boccaccio.
      Chiedo invece a te e a Fabio (o comunque a chi ne sa più di me) qualcosa di più sull’antifascismo di Trilussa: fu “tiepido” come si legge (in Wipedia e altrove) o abbastanza caldo? E’ una leggenda che si auto-esiliò per non finire… al confino?
      Ci sono due sonetti – che a volte qualcuno confonde – che valsero a Trilussa il soprannome di «poeta dei polli». Mi piace ricordarli.
      Ecco il primo, certo il più famoso.
      «Sai ched’è la statistica? È ‘na cosa
      che serve pe fà un conto in generale
      de la gente che nasce, che sta male,
      che more, che va in carcere e che spósa.
      Ma pe’ me la statistica curiosa
      è dove c’entra la percentuale.
      Pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
      puro co’ la persona bisognosa.
      Me spiego: da li conti che se fanno
      seconno le statistiche d’adesso
      risurta che te tocca un pollo all’anno:
      e, se nun entra nelle spese tue,
      t’entra ne la statistica lo stesso
      perch’è c’è un artro che ne magna due».
      Ed ecco il secondo (da «Il compagno scompagno») altrettanto azzeccato.
      «Io che conosco bene l’idee tue
      so’ certo che quer pollo che te magni,
      se vengo giù, sarà diviso in due:
      mezzo a te, mezzo a me…Semo compagni
      No, no – rispose er Gatto senza core –
      io non divido gnente co’ nessuno:
      fo er socialista quanno sto a diggiuno,
      ma quanno magno so’ conservatore».

  • Mortacci de Pippo chemm’ero perso! L’avaro (Trilussa)

    L’avaro, è avaro a un punto tale che guarda li quatrini nelo specchio pevvedè raddoppiato er capitale e dice:”Quelli li dò via pe’ beneficenza, questi li metto via pe’ prudenza” e li ripone ne la scrivania.

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