Scordata: 23 marzo 1900

Nasce Fromm e io oggi con lui ragiono dell’amore di sé e dell’amore per il mondo

di Gianluca Ricciato (*)  

Approfitto del 114° anniversario della nascita di Erich Fromm per parlare di un suo libro, «L’arte d’amare», che una persona a cui voglio molto bene mi ha regalato poco tempo fa. E quando il titolare di questo blog mi ha scritto per chiedermi di parlare di Fromm per la «scor-data» legata alla sua nascita sono rimasto colpito dalla coincidenza. Questo libro, che non avevo mai letto, negli ultimi tempi è stato molto importante nella mia vita e allora approfitto dello spazio pubblico e parlo di cosa mi ha smosso, partendo da alcune frasi.

   «Invidia, gelosia, ambizione, bramosia, sono passioni; l’amore è un’azione, un potere umano che può essere praticato solo in libertà, e non è la conseguenza di una costrizione. L’amore è un sentimento attivo, non passivo; è una conquista, non una resa. Il suo carattere attivo può essere sintetizzato nel concetto che amore è soprattutto “dare” e non ricevere» (pag 32).

«L’arte d’amare» è un titolo secondo me piuttosto fuorviante, a prima vista, rispetto al contenuto. Questo perché sia allora quando fu scritto (nel 1956) sia ora – cioè quasi sessant’anni dopo – la stessa parola amore è fuorviante e ambigua ma tuttavia non riusciamo a farne a meno. Anche quando diciamo di non voler amare più, c’è sempre qualcosa, dentro e fuori di noi, le persone, le cose e il mondo, che ci spingono a tirare fuori questo sentimento, perché tutta la dedizione che mettiamo nelle cose che facciamo spesso non può prescindere dal fatto di amarle. «L’arte d’amare» parla del capitalismo, della coppia, dell’alienazione dell’uomo moderno rispetto allo spazio-tempo, di dio e della famiglia, di psicanalisi e di filosofia, e non è un vademecum sentimentale. Anzi io credo, allora come oggi, è un ottimo strumento per scardinare tutto quello che nella vita di coppia nasconde e distrugge il concetto di amore.

   «Se io sono attaccato a un’altra persona perché non sono capace di reggermi in piedi, lui o lei può essere un “salvagente”, ma il rapporto non è un rapporto d’amore. Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d’amare (pag. 111).

Io credo che abbiamo talmente interiorizzato un’idea di amore legato alla relazione con un’altra persona che non riusciamo a capire più questa frase, che invece è piuttosto auto-evidente: se ami una persona vuoi la sua libertà e la sua felicità, e puoi capire questi concetti solo se ce li hai anche tu, se fanno parte del tuo desiderio e della tua pratica. Certo sono concetti astratti anche questi, ma è visibile molto concretamente invece il suo contrario: quando una persona che amiamo si allontana da noi, quando perdiamo la sua presenza per qualche motivo, diventiamo fragili e insicuri e qualcosa di strano si impossessa di noi fino a rovinare quel senso di libertà e felicità da cui è partito l’amore. Questo perché, come spesso fa capire anche Fromm disseminando in tutto il libro questa idea, la mancanza che viene creata dall’allontanamento di una persona amata è mancanza di qualcos’altro. È un buco nero fatto di insicurezze ataviche, abbandoni, torti ricevuti, mancanze d’affetto. O in alcuni casi anche qualcos’altro: «La condizione essenziale per la conquista dell’amore è il superamento del proprio narcisismo. L’orientamento narcisistico serve a far sentire come realtà solo ciò che esiste dentro di noi, mentre i fenomeni del mondo esterno non hanno realtà in se stessi, ma sono considerati solo dal punto di vista dell’utilità o del pericolo che rappresentano per noi (pag 116).

C’è una differenza quindi, sottile ma fondamentale, fra centratura su di sé e narcisismo/egoismo. Poco dopo Fromm dirà che il discrimine di questa differenza è l’obiettività, cioè la capacità di vedere le cose, le persone e il mondo per quello che sono e non in base ai nostri desideri e timori. Non so se sono d’accordo con la parola obiettività, che mi richiama a un oggettivismo scientista che ha fatto secondo me il suo tempo, ma credo che nella relazione fra sé e il mondo sia fondamentale saper accogliere il mondo attraverso i propri sensi e il proprio intelletto liberati da aspettative. E questo naturalmente riguarda tutto l’amore che si prova verso l’esterno, persone, cose e fatti.

   «La gente capace d’amare, nel sistema attuale, è l’eccezione; l’amore è per necessità un fenomeno marginale nella società occidentale moderna. Non tanto perché molte occupazioni non permettono un’attitudine ad amare, ma perché lo spirito della società basata sulla produzione è tale che solo l’anticonformista può difendersi con efficacia contro di essa (pag 127).

Questo forse è il punto centrale del discorso di Fromm, non a caso quello che esula di più dalla relazione sentimentale strettamente intesa. Dopo aver messo in discussione una serie di pratiche negative, di sentimenti di dipendenza che partono dalla coppia e finiscono con l’amore religioso, passando dalle varie forme dell’amore paterno, materno e filiale, Fromm centra la questione fondamentale dell’appiattimento del desiderio sul bisogno, nella nostra società. Questo appiattimento è funzionale alla società dei consumi e del lavoro alienato che ci rende incapaci di desiderare veramente il bene per se stessi e per il mondo. «Ci vuol fede per cominciare qualunque lavoro» scrive verso la fine (pag 123) e soprattutto per cominciare quelle attività che si scontrano con il potere e con le abitudini della maggioranza, lottare per un’idea che si ritiene giusta, per contribuire al miglioramento della vita delle persone e del pianeta, a esempio, e tutto ciò richiede una forza interiore che a volte sembra sovrumana, almeno prima di iniziarla. E allora non rimane che la lamentela, come sfogo che non cambia nulla, e la pigrizia mentale che sono la fine dell’amore per se stessi e per il mondo.

   «L’uomo moderno ha troppo poca autodisciplina al di fuori della sfera del lavoro. Quando non lavora vuole lasciarsi andare alla pigrizia, o meglio, al relax. Questo bisogno d’impigrirsi è una reazione alla routine della vita quotidiana. Poiché un uomo è obbligato a usare per otto ore al giorno la propria energia a scopi che non sono suoi, in modi non suoi ma prescritti a lui dal ritmo del lavoro, si ribella, e la ribellione prende l’aspetto di un’infantile autoindulgenza (pag 108).

L’aggancio di questa idea alle relazioni personali può non sembrare del tutto chiaro, ma forse si chiarisce se si pensa ad esempio al partire da sé di alcune pratiche e teorie femministe, che sono successive alle riflessioni di Fromm e questo per forza di cose è il limite di questo testo, dal mio punto di vista. L’alienazione del sé, in ambito sia personale che sociale, è la base da cui attinge la società prima patriarcale e poi patriarcale-capitalista: l’alienazione del desiderio personale nelle pratiche politiche è stato (ed è) funzionale a un modello di amore e di coppia che diventano tasselli di un sistema (ri)produttivo chiuso e asfissiante dove il desiderio e il cambiamento gradualmente spariscono. La riappropriazione del sé e dei desideri, il pensiero che parte dai corpi, le pratiche relazionali alternative, sono state e sono e dovranno essere ancora la rottura di questo sistema, e il fondamento dei nuovi modelli di società che potremo immaginare e realizzare.

L’interessante per me, a questo punto, per uscire fuori e andare oltre Fromm, è immaginare cosa può voler dire inventare un’altra idea di amore, a partire da quello fra le persone. Negli ultimi mesi è salita alla ribalta, dopo anni che covava, l’idea del poli-amore, cioè delle possibili forme di uscita dalla chiusura della coppia e dalla coppia stessa, idea la cui genealogia nella cultura contemporanea è certamente legata alle idee femministe e queer innanzitutto, ma non solo. La capacità di inventarsi fuori dallo schema classico, di perdere sicurezze e acquistare libertà, di mettere in gioco le proprie paure e anche i propri limiti, per superarli, per accrescere il desiderio e non tornare indietro sui passi del noto, del già detto e del già fatto, sono forse la sfida che abbiamo oggi, in un momento in cui il crollo di tutto che si paventa continuamente (la crisi) dovrebbe essere invece l’inizio di tutt’altro.

E allora, senza sapermi dare risposte, voglio pensare che devo e dobbiamo impegnarci per superare le paure, le invidie, i desideri di chiusura e autosufficienza dell’amore relazionale, i limiti e le fobie che distruggono tutto, per imparare ad agire amori, desideri e conflitti finalmente autentici, non finzioni che nascondono la nostra incapacità di amarci. Di amarci noi stessi prima di tutto e di amare quello abbiamo intorno, di conseguenza.

   «Qui va menzionato un altro errore frequente. L’illusione che l’amore implichi necessariamente l’assenza del conflitto. Così come è opinione comune che il dolore e la tristezza dovrebbero essere evitati in tutte le circostanze, la gente spesso crede che l’amore significhi l’assenza di ogni conflitto; e trova ottime ragioni per sostenere questa teoria nel fatto che la lotta che li circonda sembra loro solo uno scambio distruttivo che non porta niente di buono alle persone coinvolte. Ma le ragioni di ciò stanno nel fatto che i “conflitti” della maggior parte della gente sono in realtà tentativi per evitare veri conflitti. Sono disaccordi riguardo questioni secondarie e superficiali, che per loro stessa natura non si prestano a chiarificazioni e soluzioni. I veri conflitti fra due persone non sono mai distruttivi. Portano alla chiarificazione, producono una catarsi dalla quale entrambi i soggetti emergono con maggiore esperienza e maggiore forza.  […] L’amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio essere. Solo in questa “esperienza profonda” è la realtà umana, solo là è la vita, solo là è la base per l’amore» (pagg 100-101).   

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 23 marzo avevo, fra l’altro, ipotizzato: 1307: sconfitto fra Dolcino; 1851: ucciso Pelloni «il passatore»; 1910: nasce Kurosawa; 1912: nasce Von Braun; 1933: nasce Philip Zambardo; 1937: battaglia a Guadalajara; 1944: via Rasella; 1950: rivolta a San Severo; 1952: muore Jim Thorpe [di lui si è già parlato in blog]; 1955: 22 morti miniera Morgnano; 1959; esce «A qualcuno piace caldo»; 1980, scandalo Totonero; 1983: «scudo stellare» di Reagan; 2002: milioni in piazza contro la guerra. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.

Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.

Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
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