Scrittore come Dio: seconda riflessione

Mauro Antonio Miglieruolo si fa stimolare dai commenti di Mariano Rampini e Francesco Masala.

 

Réponse…

È raro che qualcuno intervenga sul contenuto di un mio post – vedi Lo Scrittore (come fosse Dio?) – espandendone il contenuto. A meno che non si tratti d’una confutazione o peggio di una contrapposizione.

A volte mi si gratifica con elogi per i quali ringrazio: sentitamente vostro, continuerò per quel che mi sarà possibile a gratificarvi a mia volta.

Ma ecco che Mariano Rampini e Francesco Masala irrompono nella mia vita immateriale andando piacevolmente oltre il “bravo bene bis” di cui l’Ego si pregia (l’Ego capisce poco o nulla). Esponendo ognuno un commento che suggerisce temi di riflessione ineludibili, e sui quali in effetti – eccomi qui – accetto di riflettere. Almeno su alcuni.

Comincio da quell’Autodafé di un autore (maiuscolo e corsivo mio) di Mariano Rampini, che ha avuto su di me lo stesso effetto bruciante di un goal preso in contropiede. Ah, sì – mi son detto – sono stato colto in flagranza di vittimismo… Ma poi riflettendo mi son reso conto della possibile diversa chiave di rilettura che il commento comunque suggeriva. Rampini mi ha fornito un assist prezioso che induce a puntualizzare su aspetti importanti delle scritture. Nello stesso tempo che svela la soggettività spinta, anche se implicita, dello scritto, mette in guardia l’autore: attento, sei al limite della lapidazione… Mariano, perdona se non ti riconosci in queste parole; tieni conto che anche io sono scrittore di fantascienza; cioè qualcuno che va oltre la scienza e coscienza; e un po’ anche il presente.

Dico questo perché chiunque si eserciti nell’arte improba della scrittura, quando s’inoltra negli sterminati spazi propri all’indagine teorica – con pretese più o meno ampie di oggettività su quel che è o dovrebbe essere la letteratura (poesia, pittura, musica, teatro ecc) – non fa altro in ultima analisi che teorizzare sulla propria pratica poetica; o sull’approdo che cerca, vede, auspica per essa. Si autodenuncia quindi; e se del caso si critica, si stronca, manifesta ambizioni… La verità è che sta costruendo stampelle in grado di permettergli (lui zoppo) di continuare. Fa teoria, dunque e nel mentre racconta dei suoi bisogni, limiti e timori: che poi sono quelli di tutti. Ne deriva (ed è il bello della faccenda, sempre che qualcosa ne esca) che amplia gli spazi di agibilità a disposizione dei poeti: li apre agli altri per poterli spalancare a sé stesso.

Lo spazio racchiuso dalle mie parole è pertanto definibile: irruzione della soggettività nell’oggettività del lavoro critico o scientifico. E fantasiosamente adrenalina psichica immessa nelle fatiche inerenti la costruzione di un incontro tra finalità della scrittura e forma. Immissione che inizio a credere sia essenziale per la costruzione di qualsiasi attività mentale; o qualsiasi esercizio del lavoro artistico (lettura di una poesia, recita in teatro, racconto o gioco intorno al fuoco ecc).

Bene… cioè, male: siamo al punto fermo di un nuovo inizio. Avviando il solito processo senza fine della produzione concettuale nel campo critico. I lavoratori delle scienze fisiche almeno hanno formule matematiche a cui fare riferimento per concludere i loro discorsi. Noi a malapena, ogni duemila anni, gli immensi poemi che non riusciamo – e neppure vogliamo – dimenticare: Omero, Dante, Borges, Guimaraes Rosa eccetera. Altre verifiche e vanti non ci è concesso di avere.

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Ma ancora non ho effettivamente affrontato gli aspetti salienti del tema “Autodafé”; cioè del processo di distruzione che investe ogni autore (grande o piccolo che sia) quando coerente con i propri princìpi (e la vocazione) mette in gioco tutto sé stesso per potersi esporre al pubblico. Quando si sottopone all’esame sempre insidioso della critica; e a quello severo, ma innocente, dei lettori. Quando, dunque, si apre al mondo.

È bene allora – altrimenti non si è in grado di andare avanti – ribadire con altre parole (che rinviano a possibili altri concetti) quel che avviene quando lo scrittore interviene sulla pagina: che interviene su sé stesso. Prassi ordinaria che coinvolge chiunque intraprenda il mestiere di scrittore (di un mestiere si tratta: fabbro della parola; o geometra dei concetti). Diciamo più chiaramente: che per poter intervenire sulla pagina, lo scrittore agisce contemporaneamente su sé stesso. Interviene: va a scatastare, ricorda, si manifesta, riassume, acquisisce impercettibili porzioni del sé dimenticato, sommerso dalle stratificazioni culturali, ideologiche, dagli incontri, dalle illusioni, dalle delusioni e dagli scontri di tutta una vita. Mi verrebbe allora di dire: archeologia del soggetto. Se non che è una archeologia colpevole, che stratifica essa stessa, poiché – mentre fa luce oscura – aggiunge nuove determinazioni ideologiche, nuove aspirazioni, nuovi miti.

Ma su questo non mi soffermo. Sono in obbligo di concludere un discorso che più di tanto non sopporta parole. Aggiungo solo (per il momento): è proprio brutto il mestiere di SCRITTORE, defatigante e ingannevole. Anche se per chi lo esercita probabilmente è l’unica strada per conquistare la meta di una resa dei conti con sé stesso.

Non mi espando ulteriormente. Salvo per quanto segue: il modo di un autore è sempre doppio. Egli sempre costruisce e distrugge. Distrugge proprio per poter ricostruire. Uccide parti di sé stesso per evolvere, per arricchirsi; o per portarsi a un livello più alto e superiore di comprensione della realtà e di concezione del mondo

Concludo citando due nomi utili a esemplificare la presa di posizione che ho assunto: Jacopone da Todi e Gustav Mahler. Ambedue autori autoflagellanti. È possibile ci si risenta a breve su questi due nomi.

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Masala mi perdonerà se gli assegno meno evidenza di quella dedicata a Rampini, il cui intervento avrebbe meritato a sua volta molte più parole di quelle utilizzate. La tirannia del tempo unita all’anarchia dell’età (che si crede in diritto di fare o non fare in ragione di forze fisiche e intellettuali declinanti) non consente di rispondere in modo adeguato. Il suo più che un commento è definibile un’alluvione, invasione di campo e assalto attuato tramite una notevole quantità di stimoli. Senza timore di falsa modestia ritengo ci vorrebbe qualcuno più bravo di me, dotato di maggiore energia e pazienza, per dipanare la matassa di affermazioni presentata.

Confesso che non so da dove cominciare. Come l’asino di Buridano osservo impotente la molteplicità dei suggerimenti e non mi muovo verso l’uno, perché l’altro lo impedisce emettendo richiami a gran voce.

Per non peccare d’ingratitudine allora mi garantisco dando a Masala quel che è di Masala. Sentitamente ringrazio. Grazie di aver messo a dura prova le mie stanche meningi di ottantenne, con argomenti su cui non è facile ragionare; ma che non ne vogliono sapere di lasciarmi al meritato riposo di ottuagenario provato nel fisico (lo spirito è ancora lontano dal cercare un armistizio con l’esistente).

Mi traggo d’impaccio con un artificio dialettico: iniziando da me stesso. Da ciò che sono, dopo essere stato debitamente indirizzato a esserlo proprio da una osservazione che non potevo ignorare in quanto proveniente da una persona della quale avevo – ed ho – grandissima stima (e persino un po’ di affetto, anche se lo conosco solo tramite le scritture).

Dopo averle inviato la presentazione di un libro di Althusser, LE VACCHE NERE (l’unica che mi sia stata chiesta fuori dall’ambito fantascientifico, a parte le continue sollecitazioni che ricevo da un certo db) nella risposta ricevuta mi è parso intravedere fra le righe il sorriso di un professore il quale si rende conto della inadeguatezza dell’allievo, che pur merita ascolto. Le parole lievi, lontanamente allusive, il senso loro inequivocabile. Avevo peccato di soggettivismo. Il testo era inquinato da una presenza ingombrante: la mia stessa persona. La quale aveva voluto cogliere l’occasione per – oltre a prendere posizione in politica – manifestare i suoi sentimenti, i suoi trasporti. Ero fuggito dalla fredda oggettiva scientificità d’obbligo invadendo il campo con il caldo delle passioni, dei sentimenti e dell’indignazione.

Risposta feconda come poche. Nel breve giro di un quinquennio le parole del mio mentore (il mentore non sa di esserlo: potrebbe scoprirlo ora, leggendo questo testo) si sono evolute nei concetti del post presente e di quello di cui al link:

https://www.labottegadelbarbieri.org/wp-admin/post.php?post=131035&action=edit … il cui titolo è tutto un inno alle speranze («Manifesto per il divenire della letteratura»).

Quel che è successo allora (ero ancora in Messico) comincio a vederlo effettivamente solo ora, sulla scorta dei suggerimenti di Masala; il quale spero voglia vedere con me. Avevo colpito così profondamente da provocare un sussulto nell’interlocutore. Non per la profondità delle sottolineature apposte al testo di Althusser, per il taglio inusuale delle stesse. Sussulto che dal lettore era rimbalzato su di me (poverino) costretto a mettere in moto le meningi per uscire da un imbarazzo che – inizio a rendermene conto – non aveva alcuna ragione di essere.

Non avevo fatto altro che quello a cui è obbligato chiunque scelga di porsi davanti a una tastiera; scegliendo di spezzare l’ordinario procedere dei discorsi per ricondurli alla realtà dalla quale traggono origine. Producendo un effetto di disvelamento di per sé sconvolgente. Che dal committente si era riversato sull’esecutore materiale, su di me, responsabile della lesa dignità accademica.

Grazie Professoressa. Ovunque tu sia sappi che mi sei stata utile due volte. Una prima negli anni ’90 quando avvilito da un isolamento quasi assoluto, dalla perdita delle speranze, con un atto insperato di generosità – che faceva appello alla solidarietà fra emarginati ideologici – mi avevi fornito di uno strumento per allargare i miei orizzonti. L’atto stesso era strumento, a parte il libro donato. Un atto che rompeva l’isolamento, dimostrando come non tutto fosse declino, abbandono e dimenticanza. Che di per sé mi riconduceva alla mia storia, permettendomi di rileggerla oltre che come vicenda di un individuo come storia dell’umanità; e risospinto a calci (merito di tanti suoi scritti) ad affrontare con strumenti nuovi il destino di militante. Destino che non riesco a raggiungere, senza smettere di inseguirlo.

Noto di sfuggita che la formula adoperata da Masala: I doni devono colpire così profondamente chi li riceve da farlo sussultare (che rimanda forse a parole non sue… parole che una volta adoperate non può più rinnegare) sono le migliori per descrivere un fenomeno quale la fantascienza. Che colpisce e fa sussultare. Che se non lo fa è noia, velleità, ghiribizzo e vano formalismo.

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Ma queste sono opinioni di un doppio militante (politico e fantascientifico); sono certo Masala vorrà tenerne conto. Un militante sconfitto. Non però dalla borghesia direttamente, me e tanti altri; ma da quel distaccamento dell’ideologia borghese dentro il proletariato che è stato il terrorismo.

Ricordo ancora lo sgomento il giorno della notizia del sequestro Moro. Mentre nel mio ambiente di lavoro, ambiente democristiano, sorprendentemente si esultava (la compassione per Moro è del dopo, abilmente cucita dagli ideologi televisivi), io assistevo al tripudio freddo, immobile, sgomento, davanti alle scale che dal secondo piano dell’INPS di via Amba Aradam conducevano al primo o al terzo. Pensando: e adesso? La sconfitta. Il riflusso. La distruzione delle ragioni proletarie. L’attacco allo stato sociale, all’agibilità della sinistra… Le cose che già andavano male sarebbero andate peggio.

La verità è che non esiste nulla di più efficace che la realtà medesima per colpire profondamente chi alla Gran Commedia del Mondo assiste. E che il sussulto è l’abito mentale che siamo educati ad affrontare. E a volte efficacemente affrontiamo.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

Un commento

  • Mariano Rampini

    Mauro carissimo, divisi come siamo da una decina di anni (ma comunque vicini perché il mio fratellone rimasto è del ’41 e continua imperterrito a imperversare – perdonami l’allitterazione – sui suoi amati insetti insieme a orde di giovinastri che lo seguono) potrei anche accettare il tuo richiamo all’ottuagenarietà (?) delle tue considerazioni. Ma non è così: gli interrogativi che ti poni (ricco d’anni e di esperienza) non sono affatto peregrini. Cosa mi spinge a questa considerazione? Soprattutto la frequentazione di alcuni gruppi che di scrittura e di letteratura si occupano. In particolare quelli aperti ai contributi dei tanti scrittori “giovani” (anche qui il ? è d’obbligo) che si gettano nell’agone letterario in cerca di gloria e riconoscimenti. Per non farmi mancare nulla ho avuto la bella idea di propormi come beta-reader in un gruppo scoprendo così che la maggior parte di coloro che trascorrono parte della loro giornata chini su una tastiera, in caccia di parole con le quali esprimere i propri sentimenti o le proprie passioni, lo fanno istintivamente. Cosa buona e giusta in verità. Ma che, a mio modestissimo avviso, può andar bene nella fase di avvio di un’attività da narratore. Restare ancorati alla beata innocenza di chi rimescola parole nel suo personale calderone tentando di raggiungere l’opus perfectum, la pietra filosofale, potrebbe essere pernicioso. Soprattutto in un panorama editoriale come il nostro nel quale si va affermando il “libero” pensiero del self publishing. Vanità delle vanità griderebbe qualcuno. Io, al contrario voglio aggrapparmi come patella allo scoglio a una visione più ottimistica: desiderio di esprimere un pensiero coerente in contrapposizione alla diffusione generale di un pensiero totalmente incoerente. Che da tutto questo poi emerga un ulteriore “mercato” di editor (uso orrendo di un termine che in originale ha tutt’altro significato) che promettono salvezza e gloria grazie alla loro opera (in moltissimi casi necessaria, ahimè). Ma cosa spinge tutte queste anime a spingere sui tasti (i tempi della penna – anche d’oca – con la necessaria riflessione su ciò che si scriveva sono purtroppo finiti da tempo) e a cercare la salvezza rappresentata dalla pubblicazione della loro fatica? E qui torniamo al nostro discorso che può apparire come discussione sul numero di angeli presenti sulla capocchia di uno spillo. Ma che in realtà punta a restituire a un’arte (e quindi a un mestiere da “arti”giano) la sua dignità. Personalmente non mi illudo di salvare il mondo o di realizzare il nuovo romanzo italiano, quello che riporterà a sommi livelli la nostra letteratura. Penso soltanto a risuolare al meglio che posso un paio di scarpe usate così da permettere a chi le indosserà di camminarci ancora. Nel farlo però, il buon artigiano deve pensare a ciò che fa, a scegliere il materiale migliore possibile, lo strumento giusto, a mettere punti dove vanno messi e a stringere i fili che dovranno reggere la scarpa così da renderla comoda e resistente. Deve cioè interrogarsi suoi propri saperi, sulle proprie esperienze (nessuno nasce “imparato”) e da queste trarre le giuste contrarie. Se manca anche solo un momento di questa autoanalisi il risultato può essere tremendo… vabbè, avrai capito che la questione del come si scrive, del perché lo si fa, mi sta tremendamente a cuore. Forse perché, come tutti coloro che intraprendono questa via tortuosa, irta di difficoltà, di spine e di strapiombi in cui è facile cadere, anch’io tento di raggiungere la cima della montagna sacra (ogni riferimento allo strambo meraviglioso film di Jorodowski è puramente casuale). Ma non per fermarmi. Bensì per vedere se al di là ci sia un’altra cima da raggiungere e poi un’altra ancora, affascinato dall’atto stesso del viaggiare, nonostante il mio cuore, come quello del poeta, si spauri dinanzi a quell’orizzonte…

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