Segregare costa

E’ disponibile in rete l’ottimo rapporto  AAVV*, Segregare costa. La spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma, Milano, 2013scaricabile qui.

Il rapporto è stato realizzato dalla cooperativa Berenice e dalle associazioni Compare, Lunaria e Osservazione.

Quelle che seguono sono le conclusione, redatte da Grazia Naletto

Segregare costa non è un rapporto neutro, la scelta di realizzarlo parte da una chiara ed esplicita premessa: è urgente e non rinviabile l’abbandono delle “politiche dei campi” da parte degli attori istituzionali nazionali e locali.
L’Italia non è l’unico paese europeo nel quale i rom vivono nei campi, ma è l’unico paese europeo che ha istituzionalizzato il sistema dei “campi nomadi” scegliendolo come modalità ordinaria di intervento per gestire la presenza dei rom e dei sinti nelle nostre città e coinvolgendo nel sistema economico che attorno ai campi si è generato molte organizzazioni della società civile. Le risorse pubbliche destinate a “favorire l’inclusione abitativa e sociale” dei rom sono infatti per lo più investite nell’allestimento e nella gestione dei “campi” e nel finanziamento di interventi sociali che hanno i “campi” come loro baricentro.
Come scriveva già nel 1996 Piero Brunello introducendo uno dei testi di riferimento per l’analisi delle “politiche dei campi” portate avanti dal nostro paese, la parola “campo” ha molte connotazioni.
Campo in una città è un terreno sterile che si presta ad usi disparati e provvisori in attesa di una destinazione specifica, utile e definitiva. Campo richiama un camping, dove ci si sta per un certo periodo, di passaggio, a pagamento.
Campo è un accampamento temporaneo, con ripari tirati su alla meno peggio e fuochi di bivacco alla sera.
Campo infine può essere di prigionia, di concentramento, di sterminio.
Il modello del “campo” richiama dunque al tempo stesso due ordini di significati. Da un lato, in quanto proposto sempre come soluzione temporanea, il “campo” richiama (e sottintende) l’idea di una accoglienza tollerata e provvisoria dei rom che vi vengono “ospitati”. Dall’altro lato, la concezione del “campo” come area dedicata ad accogliere solo ed esclusivamente i rom e i sinti in uno spazio periferico, recintato e sorvegliato rinvia ad una situazione di emergenza, a pratiche di controllo e di segregazione “etnica” che contribuiscono a sancire e legittimare l’esclusione e il rifiuto delle popolazioni rom e sinte da parte della società maggioritaria.
Ciò vale anche e a maggior ragione per i “campi attrezzati” o “villaggi della solidarietà” costruiti negli ultimi anni. Anzi, i “villaggi della solidarietà”, come quello di Castel Romano a Roma, hanno se possibile accentuato le caratteristiche di segregazione insite nel modello del “campo” concentrando centinaia di persone (1300 circa quelle che vivono a Castel Romano) in un’area isolata, lontana dal centro urbano e difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. Per altro più i “campi” sono grandi, più tendono a crescere (in modo non sempre spontaneo) le proteste e l’ostilità dei cittadini che abitano nelle zone ad essi circostanti.
Il contributo specifico che questo rapporto ha avuto l’obiettivo di apportare è quello di evidenziare lo spreco di risorse pubbliche che il mantenimento del sistema dei campi comporta.
Ricorre infatti sia tra gli attori istituzionali chiamati a definire le linee di indirizzo delle politiche “a favore dei rom”, sia nell’opinione pubblica, per lo più disinformata e spesso strumentalizzata da chi fa della xenofobia, del razzismo e dell’antiziganismo i principali argomenti della propaganda politica, una tesi che i dati contenuti in questo rapporto contribuiscono a decostruire.
Per giustificare il mantenimento dei “campi nomadi” e sostenere l’impossibilità di immaginare percorsi di inserimento abitativo e sociale alternativi dei rom e dei sinti si afferma spesso che “non ci sono risorse pubbliche sufficienti”. In questo modo viene veicolato il messaggio secondo il quale “i campi” costituiscono la soluzione abitativa meno costosa che le amministrazioni pubbliche possono adottare per ospitare i rom nelle nostre città. Non è così. Il rapporto mostra l’infondatezza di questa tesi: milioni di euro sono stati stanziati tra il 2005 e il 2011 per allestire, gestire e mantenere i campi a Napoli (almeno 24,4 milioni di euro), Roma (almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro stanziati per i progetti di scolarizzazione) e Milano (sono pari a 2,7 milioni di euro gli stanziamenti monitorati nel corso della ricerca, ma il dato è sicuramente parziale). Gli interventi sociali, di formazione e di inserimento lavorativo a questi collegati non hanno per altro raggiunto risultati significativi nella direzione di una reale autonomizzazione delle persone coinvolte. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso, come la stessa sperimentazione effettuata a Milano ha evidenziato.
Dunque: il rinvio alla mancanza di risorse pubbliche (che pure nell’attuale fase di crisi determina un taglio progressivo alle politiche sociali di competenza degli enti locali) è un espediente retorico privo di fondamento.
I campi devono e possono scomparire dalle nostre città. Affinché ciò avvenga è necessario che le istituzioni locali cambino del tutto l’approccio culturale, politico e amministrativo con il quale sino ad oggi hanno gestito la presenza dei rom e dei sinti nel nostro paese. Non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, servono progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati all’autonomizzazione dei rom.
I “piani nomadi” devono e possono essere sostituiti da veri e propri Piani di chiusura dei campi noma – di: questa è la principale richiesta che ci sentiamo di rivolgere alle istituzioni nazionali e locali e in particolare ai Comuni di Roma, Napoli e Milano le cui politiche sono state analizzate in questo rapporto.
Naturalmente lo smantellamento di un sistema così radicato nel tempo richiede una pianificazione, una programmazione, una precisa strategia di intervento, il coinvolgimento diretto delle popolazioni rom e sinte nella sua progettazione, risorse dedicate, tempi certi e l’adozione di percorsi differenziati che tengano conto della diversità delle situazioni familiari dal punto di vista giuridico, economico e sociale. A scanso di equivoci, i Piani di chiusura di cui parliamo non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli “sgomberi” che nel corso degli anni hanno accompagnato le “politiche dei campi”. Pianificare la chiusura dei campi rom significa innanzitutto prefigurare e costruire materialmente soluzioni abitative alternative ai “campi”, sostituendo al modello del campo quello dell’abitazione non ghettizzante prima di chiudere i “campi” e concordando con i residenti i tempi e le modalità del cambiamento abitativo.
Le alternative possibili sono molte: dal sostegno all’inserimento abitativo autonomo in abitazioni ordinarie, all’inserimento in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate. Ciò che è certo è che senza il diretto coinvolgimento dei rom e dei sinti nessuno dei percorsi scelti può avere successo.
E il “successo” per noi significa creare le condizioni affinché i rom e sinti che oggi vivono nei campi possano definitivamente fare a meno dell’assistenza (pubblica o privata che sia) che perlopiù ostacola la costruzione di progetti di vita dignitosi, autonomi e indipendenti. Il che è possibile, come dimostrano le migliaia di rom e sinti che vivono nelle abitazioni da decenni e di cui, naturalmente, non parla nessuno.
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* Gli autori e le autrici sono: Valentina Cavinato, Marco Marino, Caterina Miele, Francesca Saudino , Antonio Ardolino, Grazia Naletto, Annamaria Pasquali, Cristina Santilli, Donatella De Vito, Manuela Tassan , Ulderico Daniele .
Redazione
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