Sei minuti all’alba – di Mark Adin

Nel volgere dal sogno alla veglia, negli infiniti attimi di confine tra il borborigmo simbolico e il morso della realtà che ci cruccia con i suoi doveri, con il richiamo alla responsabilità, con il primo percepire la fatica, in questa sorta di scambio ferroviario, che ci immette sul binario della vita che in qualche misura sembra afflittiva rispetto alla libertà del sogno, risiede qualcosa di inafferrabile eppure significativo.

Scandagliare lo stato del dormiveglia equivale a esplorare una terra sconosciuta, lo snodo tra la libertà più estrema e la schiavitù, nel suo alternarsi biologico e rituale. Nella separazione tra i due mondi esiste un territorio minimo, un luogo dove fare i conti con l’essenza.

Perché la splendente libertà del sogno vada a morire al sorgere della ragione è forse una domanda inutile e poco interessante, ma non leggere, nella alternanza tra il vincolo del giorno e l’avventura della notte, la condizione più prossima a capire, o soltanto avere esperienza del nostro essere due sguardi, due sensibilità, a comporre la nostra identità più autentica e stereoscopica, può essere una grande occasione mancata.

L’alba è fatta di aghi di dolore, di puntuali scricchiolii, del rotolare su piani inclinati.

Eppure è la luce che ci inonda, è l’energia che ci scuote.

Nell’esperienza di unità, tra la vertigine dell’inconscio e la inestricabilità della vita, che ci impartisce la lezione del tempo, è percepibile un frammento di verità.

E’ una verità intuita dai pazzi, dai visionari, dagli artisti, dalla speculazione filosofica, dai rivoluzionari, dai grandi poeti, ma pure da scienziati che si fanno sfiorare e vaccinare dalle anzidette categorie.

Ciò che si incontra, nell’avvicendarsi tra le due sensibilità, è l’uomo. Siamo fatti di questo, dello schianto del sogno contro la durezza del dovere. Quando la giornata arriva al suo epilogo, si scatena, nella sua più attinente etimologia del liberarsi delle catene, il sogno, il nostro irriducibile istinto di libertà.

Quando, ogni giorno, viviamo il nostro simbolico naufragio nel mare della cosiddetta coscienza, applichiamo al nostro Io la camicia di forza della ragione, mettiamo guinzaglio e museruola alla nostra indole.

Osservavo un amico impartire ordini in tedesco al suo cane, mi divertivo molto a pensare alla sua ingenua intenzione. Perché mai utilizzare il tedesco? “Sitz! Platz!” Perché la sua sonorità, alle nostre orecchie tuttora sinistra, richiama autorevolezza, assenza di sentimento, esprime “in purezza” l’esercizio spietato del potere. Per questo sarebbe più efficace?

Siamo un po’ tutti come il mio amico, in molti ci comportiamo come lui con il suo cane: ci illudiamo di poter dominare, con ridicoli artifici, la nostra natura. Ma non può funzionare.

Siamo creature complesse, con noi ci vuole pazienza.

Ce ne vuole tanta, per capire che siamo meravigliose macchinette che hanno un loro tempo di obsolescenza, con il motorino che si carica a molla con la chiavetta a farfalla, come un orologio, come un vecchio giocattolo di latta, come la scimmietta che suona il tamburo, trrrrr…, rat tà tà tà tà tà… Poi finisce la carica, la molla si distende, scende la notte. Coi nostri sogni fantasmagorici ci ricarichiamo. E quando ci risvegliamo, scatta la molla e diventiamo tanti variopinti soldatini di “tolla” che si mettono in marcia.

Fino a quando un sogno, uno solo, intrepida canaglia, come lo spermatozoo, uno tra milioni,  rompe la bolla contenitrice, irrompe nel giorno e lo feconda. E’ allora che ci si può liberare dal vincolo. E’ così che si può derogare alla propria rigidità di omino di latta e recuperare la nostra unicità di donne e di uomini, perché la distanza tra il luogo del sogno e quello della sua realizzazione è stata colmata.

All’alba tutto questo è visibile, da ogni recesso dell’universo umano.

Non perdiamoci lo spettacolo.

Mark Adin

Redazione
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4 commenti

  • Straordinaria scelta e ricchezza terminologica per raccontare il guado fra le dimensione onirica e quella della realtà.
    Spero che il sogno faccia parte, in qualche misura, anche della quotidianità. Chi non sogna, anche ad occhi aperti, è condannato alla rassegnazione. Grazie, Marco!

  • C’hai preso, Mark! dritto nel segno.

  • C’ero, ci sono: per questo ti ringrazio. Leggendo si aggiungono nuovi tasselli di luce, quella che non abbaglia ma illumina.
    Sì, grazie.
    c.

  • Mi pare questa l’ora giusta – ma quand’è l’alba? boh – per leggermi in santa (?) pace (?) questo particolare Mark Adin.
    Un bel girovagare e s/ragionare, splendidamente detto. Sono proprio felice di avere in blog, almeno una volta alla settimana, i Pugillares di Mark e questo in particolare.
    Grazie.
    Ma.
    C’è un “ma”.
    Quasi sempre c’è un ma.
    Ma…
    … io che ho il piacere di conoscerlo, ora che ho letto questi pensieri fra il giorno e la notte, fra ragione e follia devo di nuovo chiedere a Mark, quasi arrabbiato (per quanto ci si può arrabbiare con un amico) : quand’è che supererai il tuo pregiudizio verso la (buona) fantascienza e comincerai a leggerla? E’ proprio la letteratura adatta al passaggio, incrocio-scontro, fra buio e luce. “La zona del crepuscolo” era il titolo originale della vecchia (e bella) serie tv – una delle poche belle che si muoveva intorno alla fantascienza, forse resta la migliore – che da noi si chiamò “Ai confini della realtà”.
    Mark dammi retta. Fallo per… te. Prova: almeno 6 bei libri come questi tuoi succosi e un po’ inquietanti 6 minuti all’alba. Prometti che lo farai, al tuo compagno di insonnie? (db)

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