«Selfie» di Agostino Ferrente

Un film semplice? Forse no, secondo Giuliano Spagnul: perchè i nudi fatti ci costringono a vedere più in là

Chi ha visto Le cose belle (1) di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno non può non guardare a questo Selfie, nuovo lavoro del solo Ferrente, con una certa malcelata insoddisfazione e inquietudine. Almeno per un buon tratto del film ci si chiede in quale momento scatterà quell’empatia per i protagonisti del film che ci aveva accompagnato, fin quasi da subito, in quello precedente. In fondo sono gli stessi personaggi con le stesse cose belle a cui aspirare, senza poterle non solo afferrare, ma neanche immaginare, e pertanto nominare.

La storia vera, con personaggi veri è molto semplice: la morte di un sedicenne ucciso per “sbaglio” da uno sbirro alcuni anni fa (2), due ragazzi dello stesso quartiere Traiano (periferia nord di Napoli) che hanno sedici anni adesso e si/ci raccontano la vita loro e dei loro coetanei col tramite di un I-Phone che il regista ha dato loro.

Ma qui, è chiaro fin dalle prime battute, “si parla di morte” e gli obiettivi di questa “’inchiesta partecipata’ vera o, come si chiamava un tempo, una con-ricerca che vede uniti nella stessa impresa e secondo idealità comuni chi investiga e chi è investigato” (3) non possono instaurare con noi alcun rapporto di complicità affettiva. Ci sentiamo e ci sentiremo estranei fino alla fine da quel mondo chiuso, opaco e in gran parte indecifrabile.

La cosa spiazzante (anche a leggere le varie recensioni, quasi tutte molto favorevoli) è l’idea che Alessandro e Pietro, i due ragazzi co-registi e protagonisti, abbiano potuto, in quel contesto, fare “una giusta scelta di vita” (4), “scegliere tra l’onestà e il crimine” (5) e, infine, abbiano saputo “distinguere tra il bene e il male”. (6)

Ma è una lettura, che pur suggerita dal film, viene comunque costantemente smentita. Non c’è scelta possibile nella vita di questi ragazzi, semplicemente si rimane fuori dal crimine perché pochi hanno le “qualità” necessarie per aspirare a farne parte: coraggio, incoscienza, istinto suicida, rabbiosa voglia di riuscire comunque… E pochi sono i posti disponibili. E se pochi sono i posti tra i ladri altrettanto pochi sono tra le guardie. Tutti gli altri, i più, si devono accontentare, accettare e rassegnarsi a quella vita soffocante e continuamente controllata da quelle telecamere di sorveglianza che nel film scandiscono idealmente, con le loro riprese, i vari capitoli della narrazione.

Il ragazzo, la cui morte ha dato l’avvio a questo film, si chiamava Davide, di cognome Bifolco. Come bifolchi venivano chiamati tutti quei contadini del sud che nel dopoguerra reclamavano terre per lavorare e dovevano per questo  assaggiare il piombo di altri come loro, costretti come loro a “scegliere” tra fame e violenza.

È un film disperato in cui certo la disperazione non impedisce affetti, amori, desideri, ma non concede nulla a facili consolazioni. Ci si ama per non restare soli; ma questo vale, in una qualche misura, per tutti: sì, ma appunto “in una qualche misura”. E qui si vede quanto anche gli affetti possano essere “costretti” e in particolare proprio dall’occasione che questo film offre a questi due ragazzi. Un’occasione che cade dall’alto, come eccezionalità. La complicità affettiva amicale dei due si rompe, può rompersi! Pietro decide di andare al mare dallo zio, di interrompere le riprese, di pensare alla propria diversità di opinioni su come continuare il film. Qualcosa è cambiato, uno spiraglio, anche se sofferto, di libertà si è aperto. Alessandro e Pietro potranno fortificare la loro amicizia o allontanarsi, ma questa volta sarà una scelta.

Selfie (ma lo stesso si può dire per Le cose belle) può anche essere visto come un film “politicamente innocuo” che “non racconta la storia di Davide Bifolco né le contraddizioni e i fragili equilibri del quartiere, non aiuta a collocare le storie dei personaggi (non solo i due protagonisti) in una prospettiva locale-globale, ma le rende poco più che un affresco di povertà, nei confronti del quale il sentimento più immediato e inoffensivo nello spettatore è la pietà”. (7) È una critica, questa, del tutto motivata e fin troppo scontata, ma appunto un po’ troppo scontata. Fare inchiesta deve voler dire sciogliere i nodi della complessità, scendere sotto la superficie della realtà che si palesa davanti ai nostri occhi. Ma è proprio qui, in questa pretesa complessità razionalmente scomponibile e in questo voler scavare sotto la superficie, come se non fosse già lì in questi corpi, in quegli sguardi, nelle parole come nelle lacrime, canzoni e anche nei nostri più o meno moti di pietà tutta la realtà che ci può essere utile per comprendere. Vecchia malattia, antico vizio duro a morire, che non ci fa vedere quanto rivoluzionario sia mostrare i nudi fatti, la superficie delle cose, implacabile e aliena, ma che ci costringe a vedere indipendentemente dalla possibilità o meno di rendere universale il particolare.

Il suo messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, ma è chiaro che nessuno può ignorarlo e ancor meno ricusarlo poiché non è mai esplicito come messaggio” Questo, nelle parole di André Bazin, (8) valeva per Ladri di biciclette ma potrebbe valere ancor oggi per i film di Ferrente.

(1): https://www.labottegadelbarbieri.org/le-cose-belle/

(2): https://www.wumingfoundation.com/giap/2014/09/la-morte-di-davide-bifolco-e-il-vittimismo-del-potere-di-wu-ming-1/#more-18935

(3): https://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2019/02/26/napoli-paranza-bambini-selfie

(4): Silvana Silvestri recensione sul Manifesto 30 maggio 2019

(5): https://www.sentieriselvaggi.it/selfie-di-agostino-ferrente/

(6):  https://www.mymovies.it/film/2019/selfie/                   

(7):  http://napolimonitor.it/buoni-cattivi-al-rione-traiano-selfie-agostino-ferrente/  

(8): André Bazin, Che cosa è il cinema, Milano, Garzanti, 1986

 

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