Sette suggestioni sulle opere di Yerka -1: Orologi

Di Mauro Antonio Miglieruolo

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Guardai perplesso l’orologio, un grande cerchio rosso incastonato nel muro. Le lancette erano allineate ambedue in verticale, quella dei secondi che ruotava rapidamente per percorrere l’eterno periplo del minuto. In un riquadro piccolo l’indicazione dell’ora, le 24. Ma era impossibile riconoscerlo come tale. Un misuratore di tempo. Era un fregio, un decoro, il simbolo della condizione umana, semplice dichiarazione d’esistenza. Ci sono perché il tempo e la necessità di registrarne il fluire. O forse era il suggerimento della possibilità di un determinato momento, tra miliardi di altre possibilità? E che uno valeva l’altro, senza possibilità alcuna di stabilire gerarchie o operare scelte? Il mondo era, o meglio non era, non altro che una infinita serie di possibilità. Preso in sé, nella sua ultima essenza, sconcertava. Pensare all’essere e precipitare nella vertigine era tutt’uno.

Precipitai nella vertigine. Non potevano essere le 24, qualsiasi cosa ne pensasse l’orologio. Il sole alto nel cielo lo sconfessava. Quando infatti chiesi a un passante, il passante rispose senza fermarsi “mezzanotte”. Guardai senza pensare verso l’alto e calcolai automaticamente “le diciassette”. Bugiardo anche il passante.

Anche l’ora del successivo errabondo esploratore del marciapiedi risultò impropria. Aveva meno fretta del primo e si fermò un istante prima di rispondere.

“Le ventiquattro”, disse. Non le ventiquattro e due, o forse tre. Le ventiquattro e basta. Notai che emanava un forte sentore di alcool e fumo, combinazione disgustosa. Lo compatii. Compresi e giustificai l’errore, nel suo stato era inevitabile. Purtroppo la medesima risposta fornirono il terzo e il quarto a cui chiesi. Ambedue ostinati nel sostenere “mezzanotte”. L’ultimo anzi ci tenne a precisare “Mezzanotte in punto”. Al che un’ombra di irritazione passò sul mio viso (ma quante volte poteva essere mezzanotte in punto? Per quanti minuti e quante ore? Mezzanotte in punto era un orario che durava a lungo…) Il passante non si offese, non lo diede a vedere almeno. Mi invitò a seguirlo e a tornare indietro allo slargo dove avevo visto l’orologio incastonato nel muro. Non ce ne sarebbe stato bisogno, altri orologi  erano esposti qua e là, incastonati o appollaiati su un palo o sui taxi e gli autobus (era una città di orologi quella?); lui volle ragionassimo proprio sul primo. Lo indicò con un gran gesto enfatico del braccio. Segnava platealmente le ventiquattro, come avevo potuto constatare qualche minuto prima. Nell’alto dei cieli invece il solo era sceso abbastanza per determinare che eravamo all’incirca sulle  diciassette e trenta.

Non seppi cosa replicare, messo al cospetto di cotanta evidenza. I fatti sono inesplicabili, se uno si limita a prenderli come fatti e non quale ultima conseguenza di una infinita e complessa serie di fatti. L’uomo però aveva voluto suggerire l’esistenza in quel primo orologio del significato di molte cose, le cose di ognuno che avesse la ventura di guardarlo. In quello strampalato orologio l’ora assurda era simbolo dell’assurdità del tutto, e di per sé anche l’origine del mio tutto…

Impossibile. Sapevo di essere nato alle 12 di un lunedì di Pasqua, mia madre lo raccontava spesso, in nessun caso quell’orologio, fermo nonostante il canonico tic-tac che denunciava come fosse in funzione, poteva rappresentarmi. Mi decisi allora a chiedere qualcosa in più dell’ora.

“Signor mio,” rispose lui. “Qui da noi sono sempre le ventiquattro. Per quanto, a dirla tutta, sono dappertutto le ventiquattro.” Secondo lui il Cosmo intero era fermo a quell’unico, per lui, concepibile misura temporale: le ventiquattro.

Notò la mia espressione sorpresa.

“Non lo sapeva?” proseguì. “Vedo dall’espressione stupefatta che effettivamente non lo sapeva. Ne deduco che viene da un’ora differente. Qual è la sua?” Dal tono con cui lo chiese intuii che intendeva in effetti chiedere “da quale insieme di Universi proviene?”

Non seppi cosa rispondere. E poiché non seppi distogliermi da quella mia ignoranza, scrollò le spalle e si allontanò nella direzione di sempre. Una qualunque. Lo si capiva da come camminava che per lui non era importante avere una meta. Un posto vale l’altro, questo è assodato. Importante è solo andare. Raggiungere un luogo per darsi a uno successivo. Valeva anche per me. Perciò smisi di pensare ai miei da fare, alle mie mete e gli corsi dietro, vociando per attirarne l’attenzione. Incurante di perdermi, essendomi già perso. Non riconoscevo nulla, nessun particolare del luogo che stavo attraversando. Non si sapeva mai cosa potesse venirne fuori da un incontro fortuito.

“Ma senta lei,” rispose quello senza voltarsi. “Le sembra cosa far tanto chiasso a quest’ora di notte?” Lo disse incurante fossimo palesemente in pieno giorno.  Lo stesso abbassai la voce. Luoghi che vai, usi che trovi. Ogni buon vivere parte dalla parola “rispetto”.

“Signore, signore, ascolti, io sono di qui, di qui sono!”

“Meglio per lei, meglio per tutti.”

Diede la risposta senza voltarsi e con il braccio indicando di voler essere lasciato in pace. Non si limitò a quello. Accelerò il passo, svoltò a sinistra e scomparve nella penombra di un vicolo.

“E adesso come faccio?” mi chiesi, sperando assurdamente in una risposta. Qualcuno si affacciò a una finestra “ah, di quella razza lì siete” esclamando. Però sorrideva. “Qui non lo è nessuno, di qui.” Quindi era unico e solo. Ecco allora l’origine dei pensieri che lo separavano dalla realtà e dal mondo. Perché non c’era nessun altro come lui. Se era di lì, dunque della mezzanotte, non aveva disponibilità delle ore; e le ore sono necessarie per ottenere la percezione piena della vita. Tutti ne avevano bisogno. Sembrava che quella facoltà gli fosse stata sottratta. Niente più molteplicità di impegni, scadenze, l’essere incalzato, timbrare tutte le mattine, e il giorno e la notte, colazione pranzo cena, la rete degli obblighi… e non c’era pure il bacio della buonanotte dovuto a una, una tipa in gamba che conosceva? Cose buone dal mondo. Non poteva rinunciare a tutto quello. Aveva a bisogno delle ore. Non per essere, per ottemperare.

Non si ha in effetti bisogno di orologi, si ha bisogno di ore. Di ore continue, di ore variabili, ore qualsiasi, ore offerte, ripetute, moltiplicate, contate, snocciolate, al limite anche da clessidre. Il bisogno di verificare l’ora, non mi bastava più guardare il cielo, m’indusse a girare il polso sinistro per saperlo con esattezza. Trovai il polso desolatamente vuoto.

“C’è un orologiaio da queste parti nelle vicinanze?” chiesi al qualcuno affacciato alla finestra.

Il tizio, la tizia? che già stava rientrando sporse il busto fuori e inclinando verso il fondo della strada platealmente indicò, nello stesso tempo che suggeriva: “qui di fronte” lì lì lì. “Cento metri più avanti. ”

Prima che potesse ringraziare, fu come risucchiato dentro, fluido eterico più che persona. La udii perorare ancora, la voce che diventava quasi preghiera, qui di fronte, distante cento metri al più. Già.

Non perdetti tempo in ulteriori considerazioni. Ne avevo formulate fin troppe. Non ne avevo più tante disponibile, il tramonto avanzava in fretta, il sole quasi occultato dalla sommità dei palazzi. Fra poco sarebbe stato buio. Mi avviai allora in fretta alla ricerca dell’orologiaio. Ero perplesso e timoroso. Non c’erano esercizi aperti, forse l’ora di chiusura era trascorsa. Ma se davvero si era sulle ventiquattro, normale che i portoni fossero chiusi e le serrande abbassate.

Percorsi duecento o forse trecento metri. Niente, nessun segno di vita commerciale. Nemmeno più passanti o voci animate uscendo soffocate dall’interno dei palazzi. L’impeto con il quale procedevo si arrestò. Fui preda del dubbio e dalla disperazione. Che avrei fatto, a quel punto, nel cuore di una cittadina che non conoscevo, non avevo cognizione neppure il nome, nel pieno di una notte che aveva scelto me per anticiparsi? Per non lasciarmi travolgere dallo sconforto considerai la natura ore. Le ore esistono, lo provavano gli orologi fissi sulle ventiquattro dai quali ero circondato. Ma le ore sono anche innumerevoli, infiniti di conseguenza il numero di orologi. Essendoci tante ore, occorreva esistessero altrettanti orologi disponibili a segnalarla. Milioni e miliardi di orologi, ognuno fissato su un’ora propria e specifica, un secondo proprio e specifico, un milionesimo di secondo particolare. Tanta disponibilità presupponeva l’esistenza di innumerevoli fonti, e madri e padri di orologi, luoghi in cui si raggruppavano e in cui fosse possibile reperirli. Impossibile non imbattersi in uno di quei luoghi, luogo in cui nascevano, luoghi in soggiornavano, pronti a essere adottati. Ponti a diventare parte della vita di qualcuno. Dovevano esserci quei luoghi e essere tanti. Senza quei luoghi e la conseguente possibilità di distribuire i misuratori di tempo, quell’indispensabile che si era impadronito dell’Umanità, il tempo stesso sarebbe scomparso. Se fossero esistite esclusivamente le ventiquattro dell’orologio incastonato al muro esisteva, e gli altri della città, allora il tempo in quanto successione di minuti e secondi e microsecondi sarebbe scomparso. La compromissione del mondo. Negazione del Tutto. La realtà è anche conseguenza del pensiero che una realtà esista. Che effettivamente esiste in quanto il pensiero produce realtà. La realtà sua, propria del pensiero. E il Mondo subisce.

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Spronato dalla considerazione della necessità insista nel trascorrere del tempo, che misuravo soggettivamente, di là dalle evoluzioni del sole, ripresi a andare; e proseguii finché non fui quasi al fondo della strada. Che, per quanto larga, si rivelò essere un vicolo cieco. Di fronte a me in lontananza, non più asfalto, ma una costruzione sulla quale campeggiava una enorme insegna luminosa.

Pompe funebri, recitava l’insegna. Tuttavia avvicinandomi, attraverso le vetrine, due, una per lato della porta di ingresso; non scorsi segni funebri, drappi neri, bare e dignitosi funzionari in doppiopetto. Nessun essere umano. O esseri riconoscibile come tali. Ma scaffali e vetrine e nastri che, nascendo da oscuri recessi alla mia destra, trasportavano (verso dove?) una vasta congerie di sveglie, orologi da taschino, piccole e grandi pendole. Ognuno con una propria voce, un proprio modo di scandire il tempo. Salvo la grande pendola centrale, tlac tlac tlac, che sembrava posta lì da sempre, da sempre al servizio dell’istante. Ai piedi della pendola, seduto dietro una piccola scrivania polverosa, un effige che avrebbe potuto essere scambiata per quella di un orologiaio all’opera – ma non si muoveva! Era l’unica cosa apparentemente vivente di quell’ambiente di macchine.

Salii i gradini che conducevano alla porta a vetri e cercai di aprirla. Era chiusa. Battei allora con le nocche sul vetro, senza però riuscire a attirare l’attenzione dell’ometto. Bussai più forte. L’ometto sollevò il capo e articolò due parole che erano tutto quel che aveva da dire e fosse dicibile.

“È chiuso!” quasi senza muovere le labbra.

Osservai, non so più se con rimpianto o sollievo, che la frase mi sottraeva alla responsabilità nei confronti del fluire continuo delle cose. Era chiuso, non potevo dotarmi di un misuratore in grado di permettermi di ottemperare. Quando mai sarei potuto arrivare in orario all’appuntamento con l’avvocato (o il medico) privo di ogni possibilità di capire che il fatidico moment era arrivato (uno dei tanti fatidici momenti che sempre arrivano)?  Osservai le cipolle da taschino, i monitor, le cornici digitali che esibivano ognuna il proprio orario, migliaia e migliaia di orologi per migliaia e migliaia di orari differenti. Non ce n’era nessuno disponibile per me. Neppure quando bussai forte la terza volta l’ometto si decise ad aprire.

Non c’era nulla da fare, non l’andata e ancor meno il ritorno. Io, povera cosa abbandonata nel chissà dove.

Il tempo per me non esisteva più. Non più uno al quale accedere, con il quale misurare. Nemmeno i battiti del cuore.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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