Si intitolava «protesto»

Intervista a Julio Monteiro Martins realizzata da Francesca Caminoli, ripresa dalla rivista «Una città» (n. 208 – dicembre 2013)

Un’infanzia movimentata, resa più lieve da una straordinaria passione per i libri trasmessa dalla madre; l’esperimento dei “ratos peludos”, in cui giovanissimi brasiliani fecero della narrativa un’arma di resistenza alla dittatura; i migranti scrittori e gli scrittori migranti: un autentico patrimonio di cui il nostro Paese non si è nemmeno accorto. Intervista a Julio Monteiro Martins.  

Julio Monteiro Martins, brasiliano, è scrittore e poeta, nonché docente di scrittura creativa al Goddard College (Vermont), alla Oficina Literaria Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), all’Istituto Camões di Lisbona e alla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro. Attualmente insegna lingua e letteratura portoghese all’università di Pisa. È uno dei principali rappresentanti in Italia della letteratura della migrazione. Ha pubblicato molti libri in Brasile e Il percorso dell’idea, Racconti italiani, La passione del vuoto, madrelingua e L’amore scritto, in Italia. Ha fondato la rivista letteraria online «Sagarana» e l’omonimo laboratorio di narrativa. Da vent’anni vive a Lucca.

La tua passione per la lettura e la scrittura è stata molto precoce: a diciotto anni in Brasile con i tuoi primi libri hai avuto grande successo. Com’è cominciato tutto?
Non dico dalla culla ma poco dopo. Mio padre e mia madre non avevano quasi niente in comune, se non il fatto che erano entrambi molto giovani e molto belli. Mia madre era un’intellettuale; mio padre era figlio di un ricco industriale, aveva smesso di studiare ed era un tipico playboy. Mamma rimase incinta, ma non voleva sposarlo perché lui aveva un mucchio di donne, allora gli ha detto: «Ti sposo solo se andiamo a vivere in campagna» e mio padre ha comprato una bella casa in campagna con un bel giardino. Lei era contenta. Si sono sposati, sono andati in luna di miele e quando sono tornati lui l’ha portata in un appartamento in città. L’altra casa l’aveva già venduta. Mio padre faceva vita da single, quando avevo due o tre anni si fidanzò ufficialmente con un’altra ragazza di una famiglia bene: cena con i futuri suoceri, anello… Era fatto così. Mamma rimaneva a casa, era professoressa di inglese al liceo, poi, quando io avevo cinque o sei anni, insegnava letteratura nordamericana all’università. Doveva studiare, prepararsi per le lezioni e siccome eravamo solo lei e io, leggeva gli autori che stava studiando. La mia prima lingua letteraria è stata l’inglese. Mi leggeva brani di Moby Dick, pièce teatrali di Tennessee Williams, con tutte quelle crisi coniugali tremende, le poesie di Frost, di Whitman, di T.S. Eliot che lei amava molto. Ancora oggi ricordo a memoria poesie intere di Eliot, come «The love song for J. Alfred Prufrock»: …in the room the women come and go talking of Michelangelo… Quando andava a letto la sera, frustrata dall’assenza di mio padre, diceva: «Vado a letto con i miei veri mariti». Faulkner soprattutto. Un suo libro, che scrisse quando io ero più grande, Il Tempo nel romanzo “L’urlo e il furore”, è stato adottato dalle università americane. Così io mi sono innamorato di queste cose. Poi, quando già avevo nove anni, è nato mio fratello. Non so se fosse figlio di mio padre, ma lui è stato corretto, abbiamo lo stesso cognome. Quando mio fratello aveva un mese, papà è andato via per sempre. Mia madre non riusciva ad andare avanti da sola con due bambini, così mi mandò in montagna, a Resende, dai nonni. Mio nonno aveva un grande frutteto nelle montagne che si chiamano Aghi Neri, a 3.500 metri, le più alte del Brasile, tra Rio e San Paolo, colonizzate dai finlandesi. Insieme a loro, biondi e alti, si erano mimetizzati anche i nazisti. Avevo dodici anni e ho vissuto lì tre anni. Per me è stata una cosa incredibile. Mio nonno soffriva di nevralgia del trigemino e urlava per il dolore tutta la notte, aveva un’arma, urlava e diceva: «Questa notte mi sparo». Alle nove e mezza si spegneva la luce a gas, era buio, lui urlava e io non potevo dormire. La nonna dormiva con me: aspettavo che si addormentasse, poi mi mettevo sotto le coperte, accendevo la mia torcia elettrica e leggevo. La mia salvezza sono stati i libri. Ogni mese mia madre mi mandava con il pullman una scatola di libri. Sono stato molto fortunato, in fondo.
Era il ’66, ’67 e in quegli anni una casa editrice di Rio ha ripubblicato tutti i grandi classici in edizione tascabile, tipo Bur. Così ho letto tutte quelle cose che se non leggi in quella fase della vita poi rischi di non leggere mai più: le tragedie greche, Euripide, Eschilo, Sofocle, poi Shakespeare. Divoravo di tutto, tutta la psicanalisi, Freud, Jung, Adler, Reich, fondamentali dopo, perché la narrativa ha un’altra profondità se conosci bene i meccanismi dell’inconscio individuale e collettivo, e poi i filosofi, Schopenhauer, Kant, che sono cose anche molto noiose, ma nessuno me l’aveva detto e allora mi sembravano interessanti, mi piacevano per ignoranza. Con i libri mamma mi mandava anche i 45 giri di musica brasiliana di protesta: Chico Buarque de Hollanda, Milton Nascimiento, che erano molto giovani, e mi ricordo che mi piaceva tantissimo anche «Sitting on the dock of the bay», l’ho forato da tanto ascoltare.
Vorrei raccontare ancora una cosa di quegli anni, perché la vita fa tanti giri davvero strani. Ero andato a vivere con la nonna in una casa a Resende città per stare vicini al nonno che era stato ricoverato in ospedale. Era il periodo delle rivolte dei neri negli Stati Uniti. Mi avevano colpito molto; soprattutto mi aveva colpito la poesia e i saggi di un autore che mia madre mi aveva mandato e che era stato appena tradotto, LeRoy Jones. Ispirato da lui, ho scritto la mia prima poesia. Si intitolava «Protesto». Ero ingenuo, avevo 13 anni, ma era una poesia sociale. E guarda la vita: tre anni fa sono stato invitato a Pistoia a un festival di poesia internazionale. Lo stesso giorno in cui dovevo intervenire io c’erano molti poeti americani. Uno si chiamava Amiri Baraka, forse il più grande poeta nero americano vivente. E sai chi era? LeRoy Jones! Aveva fatto come Cassius Clay, si era cambiato nome. Siamo andati a bere una birra e gli ho raccontato la storia e lui rideva come un matto. Eravamo tutti e due in Italia, quasi 50 anni dopo, entrambi con nomi diversi – perché io ho abbandonato Cesar, ero Julio Cesar una volta – insieme a leggere le nostre poesie.


Quando poi sei tornato a Rio e hai scritto i tuoi primi romanzi, eri tra i giovani scrittori del cosiddetto nuovissimo racconto brasiliano. Perché “nuovissimo”?
Quando avevo 15 anni mia madre era in una situazione migliore, così ho potuto tornare a vivere a Niterói, vicino a Rio, e ho cominciato a scrivere seriamente. Nel ’76 ho pubblicato due racconti in un’antologia di giovani scrittori resistenti alla dittatura. Ha avuto un grande successo, perché nessuno credeva che i giovanissimi potessero avere il coraggio di affrontare la censura della dittatura. Quelli più grandi di noi, sui 25-30 anni, erano stati tagliati a metà dalla dittatura, noi eravamo la prima apparizione di una nuova generazione cresciuta dentro la dittatura, per questo quello che scrivevamo fu chiamato il “nuovissimo” racconto brasiliano. Di quell’antologia furono vendute più di 35.000 copie, anche nelle edicole, e fu un fenomeno politico più che letterario.


La narrativa come arma di resistenza?
Erano racconti impregnati di ironia contro l’oppressione. Gli scrittori in fondo erano più liberi. Le altre arti erano molto più sorvegliate, i cantautori erano tutti in esilio, il teatro non si poteva fare, la polizia irrompeva nelle rappresentazioni, film men che meno, gli scrittori della generazione precedente alla mia erano allo sbando totale, la mia ha preso le redini. Non bisogna dimenticare che la dittatura brasiliana è durata dal ’64 all’83. Non è stata così violenta come in Cile o in Argentina, ma molto lunga, un ventennio, come il vostro ventennio fascista, o berlusconiano. I militari erano meno attenti a quello che veniva scritto e letto perché sapevano, e dal loro punto di vista avevano anche ragione, che il popolo non leggeva così tanto, non era come una telenovela o un film o una canzone, era meno rischioso. Però non si poteva stampare nelle case editrici perché, come nei giornali, c’era un militare negli uffici, di solito capitani o maggiori; avevano proprio una loro scrivania lì. Mi ricordo della casa editrice, la Civilização brasileira, dove ho pubblicato, più avanti, A oeste de nada; era di sinistra e diretta da un grande editore, Ènio Silveira, militante del partito comunista, e lui ha raccontato in diverse interviste i rapporti con il militare embedded, uno che stava lì otto, dieci ore al giorno e alla fine magari ci diventavi anche quasi amico, ci andavi a bere il caffè.
Comunque, non potendo pubblicare con gli editori, usavamo il ciclostile; ancora oggi ho le narici impregnate di quell’odore di alcol… Poi spillavamo e andavamo a vendere o regalare nei bar, nei ristoranti, all’uscita dei teatri, dei cinema, all’università. Fu un periodo eroico. La letteratura brasiliana di resistenza fu fatta da ragazzini di diciotto anni, come in tante rivoluzioni, a partire da quella francese, o, come tu sai bene, quella nicaraguense. Sai come ci chiamavano? Ratos peludos, i topi pelosi. Dicevano che c’era stato un esperimento: avevano rinchiuso cuccioli di topi in un frigorifero e quando dopo un bel po’ lo avevano aperto li avevano trovati vivi e in forma, con dei peli lunghi per combattere il freddo. La dittatura era il frigo e noi, come i topi, per resistere avevamo messo i peli e invece di essere arrabbiati o depressi, eravamo ironici; la nostra era una letteratura allegra, gioiosa, veniva letta con molto piacere perché colpiva facendo ridere.


E com’è che poi sei finito negli Stati Uniti?
All’università dello Iowa c’era, e c’è tuttora, il più importante International writing program per scrittori famosi ed emergenti di tutto il mondo, un programma di scambio culturale e intellettuale che dura tre, quattro mesi.
Lì c’era, e c’è ancora, anche il miglior laboratorio di scrittura per giovani americani. Avevo 23 anni quando mi invitarono, ero troppo giovane per vivere con cinesi o tedeschi di 60 anni, la mia ragazza era una degli studenti del laboratorio e attraverso di lei ho fatto amicizia con i miei coetanei. Era un periodo meraviglioso. Pensa che i professori erano Raymond Carver, Joyce Carol Oates, Kurt Vonnegut, Vassili Vassilikos, le basi del laboratorio erano state date da Flannery O’ Connor. Era una squadra straordinaria, così io stavo sempre con loro. È lì che ho imparato le tecniche per insegnare scrittura creativa. Dopo tre mesi, quando sarebbe finito l’invito dell’università, la sorella della mia ragazza, che studiava al Goddard College nel Vermont (una scuola d’avanguardia dove gli studenti sceglievano loro stessi le materie dell’anno successivo e la scuola doveva poi trovare i professori), mi disse che cercavano due professori, uno per scrittura creativa e uno per la politica del sud del mondo. Io soddisfacevo entrambe le richieste. Ho fatto i colloqui, mi hanno preso e ho insegnato lì per tre anni. Il mio primo laboratorio di scrittura fu quindi in inglese.


Poi sei tornato in Brasile.
In Brasile ho aperto una mia casa editrice e ho anche insegnato alla Oficina Literaria, la prima scuola di scrittura creativa in Brasile, poi all’Università Pontificia, in seguito in Portogallo e nel ’95 sono arrivato in Italia, a Lucca, per amore. A Lucca ho fatto il mio primo corso di scrittura creativa, ma non è stato facile, c’era molta diffidenza e c’è ancora oggi, a meno che tu non sia una star del sistema letterario. Ricordo il mio amico Pietro Pedace, che aveva studiato negli Stati Uniti – è morto giovanissimo – e che aveva cercato di portare in Italia queste tecniche, lui ha sofferto anche più di me. Perché, secondo me, si parte da un equivoco iniziale: la scuola di scrittura non insegna a scrivere, la scuola ti libera. Inoltre la mia generazione è stata l’ultima ad avere una comunità letteraria, i bar, i caffè, le università, luoghi di incontro, poi, a partire dalla fine degli anni Settanta (ne parla anche un libro molto bello di Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico) c’è stata una privatizzazione totale della vita, ognuno nel suo buchino, nel suo alveare, oggi con internet ancora di più. Secondo me questi piccoli gruppi in cui si scrive, si legge e ci si legge, si discute la scrittura di ognuno, ci si incontra con scrittori più navigati, servono anche a ricostituire un ambiente di convivenza, di scambio intellettuale. Poi c’è un’altra cosa: abbiamo un retaggio del periodo romantico, da sturm und drang tedesco, secondo cui il vero scrittore è un genio, quello che le muse hanno toccato, quello che va nelle montagne per essere colpito dall’ispirazione. Una volta chiesero a Flannery O’ Connor se secondo lei per scrivere bisognasse avere una vita alla Hemingway, spericolata, con guerre, avventure. Lei diede una risposta famosa: «Se uno è riuscito a sopravvivere all’infanzia, può scrivere qualunque cosa». Io penso che ogni persona abbia un carico immenso di esperienze interne ed esterne, di cui può anche non fare niente, ma se trova i canali giusti per trasferire questa carica dall’inconscio al linguaggio esterno, alla scrittura, può illuminare angoli della natura e del genere umano che sono ancora immersi nell’ombra. Per fare questo non è necessario essere il genio eletto. Lo scrittore è sostanzialmente chi è innamorato dell’uomo, del genere umano, soprattutto dei difetti, del nero dell’uomo, perché ama l’uomo e quindi tutto quello che da lui viene.


Adesso insegni all’Università di Pisa e scrivi racconti, romanzi e poesie in italiano. Sei uno scrittore migrante o un migrante scrittore?
Sono lettore di portoghese equiparato a docente, insegno anche cultura e letteratura portoghese.
Diceva Ortega y Gasset: «L’uomo è l’uomo e le sue circostanze»; è quello che accade intorno a lui, i fenomeni storici che lo spingono o gli mettono i bastoni tra le ruote. Sto qui da vent’anni e sono arrivato proprio in un momento in cui gli italiani cominciavano a vedere che l’Italia, da Paese di emigrazione, era diventato un Paese di immigrazione. Gli italiani erano spaventatissimi, troppi lo sono ancora. In questo periodo, per le ragioni più diverse, sono arrivati anche scrittori da tutto il mondo ed è nata la letteratura della migrazione, un’etichetta più o meno corretta, ma per capire di cosa stiamo parlando: è la letteratura postcoloniale di un Paese che non ha praticamente avuto colonie, a parte i pochi somali. In Francia ci sono i maghrebini; in Inghilterra gli indiani, i pakistani, gli scrittori dell’impero; the empire writes back, come dicono loro, parafrasando the empire strikes back, l’impero colpisce ancora; in Germania, anche loro con poche colonie, ci sono turchi, curdi, qualche balcanico, qualche russo e basta.
In Spagna e Portogallo ci sono i sudamericani, che non hanno nemmeno dovuto cambiare lingua. In Italia invece (e voglio sfatare un preconcetto così frequente anche tra chi guarda con simpatia agli scrittori stranieri e cioè che siano dei poveracci che vengono dai Paesi poveri, miserrimi o in guerra) la letteratura della migrazione è fatta da scrittori di tutto il mondo, sud, nord, est e ovest.
Ci sono più di 80 Paesi, quasi non c’è un Paese del mondo che non abbia un scrittore qui. C è De Vos, olandese, grande poeta, Barbara Pumhosel, austriaca, Brenda Porster, che è di New York, la Kuruvilla e la Wadia, indiane, Bozidar Stanisic, bosniaco, solo per fare qualche nome. Insieme a loro anche algerini, argentini, messicani, cinesi, senegalesi, albanesi, Dicono che oggi la scrittura albanese in lingua italiana sia più forte di quella scritta in albanese. L’Italia è il grande laboratorio della scrittura del XXI secolo, fenomeno ampiamente studiato all’estero. Gli italiani invece non se ne accorgono. Non c’è un trafiletto sulla morte di uno scrittore migrante. Egidio Molinas Leiva, paraguayano, è stato messo in una fossa comune con un numero, poi Mia Lecomte è riuscita a dargli una tomba. L’Italia non ha ancora scoperto questo tesoro.
Ma per rispondere alla tua domanda, ci sono gli “scrittori migranti”, quelli che scrivevano già nel proprio Paese d’origine, e sono venuti in Italia per le motivazioni più diverse, e io faccio parte di questa categoria, poi ci sono i “migranti scrittori”, quelli che pure hanno migrato per le ragioni più diverse, guerre, povertà estrema, fame, hanno subìto soprusi e poi hanno cominciato a scrivere, generalmente testimonianze.
Due fenomeni simultanei ed è così che è nata questa letteratura stranissima, forte, numerosa. Alla banca dati Basili della Sapienza di Roma ci sono 600 scrittori migranti, una cifra altissima. Scrittori migranti o migranti scrittori arrivati con l’originalità delle loro esperienze letterarie, delle tradizioni dei loro Paesi, con l’echeggiare di ritmi lontani e con uno spessore umano, esistenziale potente, perché hanno sofferto. Vengono da dittature militari, da Paesi dove il totalitarismo religioso impedisce di esprimersi e soprattutto vengono tutti dalla dissociazione psicologica terribile che è l’emigrazione stessa, quello che io ho chiamato suicidio amministrato, autogestito: uccidersi per darsi l’opportunità di rinascere diverso altrove. Per questo motivo, oltretutto, gli scrittori migranti non hanno, o hanno molto poco, la questione Italia come priorità; la loro scrittura nasce dalla frattura dell’emigrazione, è una scrittura più esistenziale che politica, legata alla dissociazione dell’essere, al non avere più un’identità nitida.


Com’è il rapporto con l’establishment letterario italiano?
Due linee parallele che non si incontrano, perché fin dall’inizio si sono creati due mondi di cui l’uno ignora l’altro.
Ci sono tanti critici ormai che scrivono solo di scrittori migranti e altri che scrivono solo di italiani. Sono due letterature contemporanee sullo stesso Paese, su personaggi italiani, in lingua italiana, e sono completamente dissociate. Non c’è nessuno che dica, forse solo Mia Lecomte, che questa è la letteratura contemporanea italiana. Ma anche all’estero è così. Sono stato recentemente invitato a Princeton dal Dipartimento che studia la letteratura italiana della migrazione e hanno partecipato solo quelli che studiano il “settore” e gli studenti. Gli scrittori italiani o i professori italiani doc che insegnano lì non si sono visti. Per usare un pensiero di Gramsci, ci sono certi momenti nella storia molto particolari in cui il vecchio non riesce veramente a morire e il nuovo non riesce veramente a nascere e questi sono momenti di grande travaglio, ma anche di grande creatività. Vedo poi nel mondo letterario italiano una rinuncia alla verità. Non si dice e non si scrive, o non si dice e non si scrive abbastanza, che il berlusconismo, il patrimonialismo berlusconiano, come lo chiama Ginsborg, è entrato in tutti: se vai nel sito della Mondadori e guardi un po’ chi ci lavora, chi prende il denaro, tra autori, collaboratori, consulenti, ci sono, in un modo o nell’altro, tutti o quasi tutti gli intellettuali di sinistra. Un clientelismo così esteso e generalizzato non può avere una letteratura impegnata.


Che cosa è «Sagarana»?
Sagarana è il titolo di un libro di racconti di Guimarães Rosa. Sagarana è una parola inventata da lui che mette insieme saga come saga in italiano, lunga storia, e rana, suffisso tupi degli indios della costa brasiliana che vuol dire una quantità immensa. Quindi Sagarana è un’infinità di storie, una storia senza fine. Una parola che mi piace anche perché ha sempre la “a”, ma legata a consonanti diverse, una continuità nella diversità.
Sagarana è un’istituzione che fa diverse azioni legate alla letteratura: per nove anni abbiamo fatto a Lucca il convegno degli scrittori migranti; era una scuola di scrittura ma, dopo che è nata mia figlia, ora è solo laboratorio di narrativa ed è, dal 1999, una rivista trimestrale online di letteratura mondiale, una cosa pioniera in Italia, che sta dando niente soldi, ma molte soddisfazioni. È letta in media da 500-600 utenti nuovi al giorno. Tutti i numeri vecchi sono sempre online, per esempio ti puoi rileggere, che so, un articolo di Gore Vidal sul funerale di Calvino del 2001; un patrimonio enorme, con quasi 5.000 testi. Lavoro con un gruppo dove ci sono Mia Lecomte, Andrea Sirotti, Pina Piccolo e tanti altri, molti giovani, tutta gente che cerca e mi segnala cose in Italia e nel mondo, tutte persone disponibilissime che amano questo mondo.


Tra poco uscirà un tuo libro di poesie in italiano pubblicato da una casa editrice di Milano creata da scrittori rumeni.
Sì, sono poesie scritte in un arco di sedici anni. Si intitola
La grazia di casa mia e già dal titolo si capisce che tocca spesso il trauma della migrazione, per questo ha trovato subito accoglienza in un gruppo di scrittori rumeni che hanno creato la casa editrice Rediviva e che hanno cominciato pubblicando scrittori rumeni e moldavi che scrivono in italiano. Nel corpo editoriale c’è anche Karim Metref, algerino e questo mio libro è il primo di uno scrittore che viene da una parte del mondo totalmente diversa. C’è un grande significato simbolico in tutto ciò: gli scrittori che hanno migrato scavalcano il sistema italiano. C’è stata una progressione: nei primi anni gli stranieri scrivevano quasi sempre testimonianze con un giornalista italiano il cui nome era stampato più grande; poi, verso la metà degli anni Novanta, scrittori che scrivevano in italiano pubblicati da italiani, ora un altro passo in avanti, scrivono in italiano ma pubblicano con altri stranieri. Lo trovo molto bello. Una casa editrice rumena a Milano pubblica un libro di un brasiliano che sarà letto da camerunensi o da iracheni, da senegalesi o anche da italiani, speriamo…

 

Redazione
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