Si può essere considerati a partire dai desideri?
«Adua», romanzo di Igiaba Scego: una recensione emozionata
Roma d’estate, quando «anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli». Adua, figlia di Zoppe, parla con l’elefantino di Bernini, «un piccolo elefante di marmo che sostiene l’obelisco più piccolo del mondo». Gli chiede consiglio, Adua: deve partire? Tornare a Mogadiscio? Ha la valigia «pronta dal 1976». Ma c’è un’altra realtà che incombe: sul tram una ragazza le chiede: «Sei l’attrice vero?».
Cambio di scena e inizia una delle brevi «paternali»: saranno 10 in tutto, i discorsi del padre, mentre gli altri capitoli del libro – 30 in tutto – alternano Adua e Zoppe, saltando nei tempi e nei luoghi, fra i personaggi ma anche nei registri (ora drammatici e ora più lievi) senza mai perdere un filo della fitta trama. E’ bravissima Igiaba Scego a tessere il suo nuovo romanzo «Adua», pubblicato da Giunti (190 pagine per 13 euri) confermandosi una delle giovani scrittrici italiane – ma senza perdere le sue radici somale – più vive.
Pestaggi e tradimenti; visioni («la nostra coscienza ha un viso») e invisibilità; gli orrori del fascismo e le vergogne del cinema più porno-razzista; la negazione dell’amore e la sua ricerca senza tregua; un abito rubato e un regalo che arriva nel momento più inaspettato; i cedri che sono buoni per prendere la mira ma ricordano troppo le curve della donna amata; un babbuino che capisce troppo; le mutilazioni genitali e il soprannome «Vecchia Lira»; una madre morta e un padre che «non ama rispondere con un sì o con un no alle domande»; Maria Uva «per cui spasimano i legionari» («bastava davvero sventolare una qualsiasi figa pelosa per convincerli che la guerra preparata da Mussolini era giusta e buona?») e Titanic, il ragazzo sopravvissuto al Mediterraneo assassino; John Wayne con «i fianchi da maiale» e Marilyn che chissà se aveva talento…
«Il mondo è crudele Adua, non devi credere a nessuno» e ancora «L’amore è una sciocchezza, Adua: non esiste, mettitelo subito in testa che è meglio». E ancora: «Ora ti sei liberata Adua, non hai più quell’immondo clitoride che rende sporca ogni donna». Ma non vinceranno le «paternali» e Adua potrà narrarsi come piace a lei in un finale così dolce che «intorno, piazza dei Cinquecento sorrideva».
Inizia e si conclude a Roma il romanzo di Igiaba Scego. Una Roma dove c’è l’Africa vera (profughi e migranti) accanto a quella fasulla di un immaginario coloniale e razzista mai messo in discussione. Nella piazza che è rimasta dedicata ai «cinquecento» (caduti a Dogali) ora siedono i figli dei colonizzati, degli invasi, dei massacrati. E ad aprire l’epilogo del romanzo c’è una frase – leggera come un terremoto, emozionante come una passione improvvisa – di Frantz Fanon: «Domando che mi si consideri a partire dal mio desiderio».
Non perdetevi il glossario e soprattutto la nota storica (alla fine) soprattutto se non avete mai letto Angelo Del Boca; da parte mia seguirò il consiglio dell’autrice e leggerò «La negazione del soggetto migrante» (edito da Stampa Alternativa ma è scaricabile gratuitamente qui: www.bookrepublic.it/book/9788862224956-la-negazione.del-soggetto-migrante/ ) di Flore Murard Yovanovitch. E lunga vita agli elefanti, a partire da quelli capaci di ascoltare, dunque grazie anche a Bernini.
Grazie, bello davvero.